Il divieto della scienza privata del giudice

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Il divieto della scienza privata del giudice.

Il divieto della scienza privata del giudice.

In tema di esercizio del potere istruttorio d’ufficio ex artt.421 e 437 c.p.c., è comunque e sempre necessario il rispetto del principio dispositivo, non potendo detto potere esercitarsi sulla base del sapere privato del giudice, con riferimento a fatti non allegati dalle parti o non acquisiti al processo in modo rituale, dandosi ingresso alle cosiddette prove atipiche, ovvero ammettendosi una prova contro la volontà delle parti di non servirsi di detta prova o, infine, in presenza di una prova già espletata su punti decisivi della controversia, ammettendo d’ufficio una prova diretta a sminuirne l’efficacia e la portata.

Lo ha ribadito la Suprema Corte di Cassazione – sezione lavoro – con sentenza numero 12074 del 10 giugno 2015

Il caso

La Corte d’Appello di Brescia, con la sentenza impugnata in sede di legittimità, in riforma della pronuncia di prime cure, respingeva le domande proposte da un dirigente nei confronti della propria azienda, datore di lavoro, intese a conseguire l’accertamento della illegittimità del licenziamento intimatogli e la condanna al pagamento della indennità sostitutiva del preavviso nonchè della indennità prevista dall’art.19 c.c.n.l. Dirigenti Aziende Industriali e condannava l’appellato alla restituzione della somma percepita in esecuzione della sentenza di primo grado.

Nel pervenire a tali conclusioni la Corte distrettuale rimarcava che gli addebiti ascritti al dirigente, consistiti nella partecipazione alla attività di cd. prefatturazione, artificio contabile con il quale — mediante emissione di fatture prima dell’ordine del cliente o della ultimazione della fornitura – era stato occultato, una perdita di bilancio pari a circa 70 milioni di euro, integravano giusta causa di licenziamento. La gravità della condotta, contraria alle norme di legge ed alle regole di contabilità, non poteva infatti ritenersi attenuata dalla circostanza che il descritto artificio contabile fosse stato conosciuto ed ispirato da dirigenti superiori, l’obbligo di correttezza e lealtà assumendo connotati spiccati in particolar modo per le figure dirigenziali apicali nel cui ambito andava ascritto il ricorrente. La Corte territoriale concludeva affermando che nell’ottica descritta la serietà degli addebiti contestati e provati a carico del dirigente erano tali da non consentire la prosecuzione neanche in via provvisoria, del rapporto di lavoro fra le parti. Da qui il ricorso per cassazione.

I motivi di ricorso

Con il primo motivo si deduce violazione degli art.115 c.p.c. e 97 disp. att. c.p.c. in relazione all’art.360 nn.3-4-5 c.p.c.

Si lamenta che la motivazione della sentenza impugnata sia stata frutto della scienza privata dei giudici del gravame i quali avrebbero esaminato il caso in esame pervenendo alla declaratoria di legittimità del provvedimento espulsivo irrogato, dopo aver tratto elementi di convincimento da precedenti decisioni adottate in relazione a questioni analoghe a quella in tal sede delibata.

Perché la Corte di cassazione rigetta il ricorso.

Per gli Ermellini, in tema di esercizio del potere istruttorio d’ufficio ex artt.421 e 437, è comunque e sempre necessario il rispetto del principio dispositivo, non potendo detto potere esercitarsi sulla base del sapere privato del giudice, con riferimento a fatti non allegati dalle parti o non acquisiti al processo in modo rituale, dandosi ingresso alle cosiddette prove atipiche, ovvero ammettendosi una prova contro la volontà delle parti di non servirsi di detta prova o, infine, in presenza di una prova già espletata su punti decisivi della controversia, ammettendo d’ufficio una prova diretta a sminuirne l’efficacia e la portata (cfr in tali termini Cass., Sez. Un., 17 giugno 2004 n. 11353 e successivamente, Cass. 13 marzo 2009 n. 6188, Cass. 25 luglio 2011 n. 16182).

Secondo i giudici di legittimità, nello specifico, tuttavia, detti principi non risultano vulnerati dalla Corte territoriale, che ha proceduto ad una analitica e puntuale ricostruzione della fattispecie scrutinata, rimarcando come il dirigente, responsabile dei settori produzione, gestione commesse e logistica – tutti necessariamente coinvolti nella attività di pre-fatturazione – fosse direttamente coinvolto nella gestione di questa pratica illecita, poiché ai settori da lui diretti faceva capo l’iniziativa per l’adozione dell’artificio contabile attinente alla fatturazione di merce non prodotta e commercializzata, come documentato in atti e confermato dai testimoni escussi. Si palesa, quindi – conclude la Corte – l’evidenza della infondatezza della critica formulata, per avere la Corte distrettuale, pur richiamando gli approdi ai quali era pervenuta in relazione a fattispecie analoga a quella considerata, proceduto ad un approfondito, autonomo scrutinio della fattispecie devoluta alla sua cognizione. Da qui il rigetto del ricorso

Una breve riflessione

La sentenza in rassegna si rivela di notevole interesse perché affronta una problematica non molto conosciuta ma, non per questo, meno insidiosa, che è quella relativa al divieto della scienza privata del giudice.

Come suggerisce la parola stessa, si tratta di un sapere privato (recte: conoscenze personali) che il giudice ha recepito aliunde e che, per tale motivo, essendo sfuggito al controllo, o meglio, al contraddittorio delle parti, non può essere utilizzato dal giudice ai fini del suo convincimento.

In tale ottica, si è posto il problema di verificare se il potere del giudice di rilievo d’ufficio dell’eccezione implica o meno il superamento del divieto della scienza privata del giudice medesimo.

Per la Suprema Corte di Cassazione – Sez. prima civile – sentenza 5923 del 13.03.2014, la risposta non può che essere negativa, ma occorre pur sempre che determinati fatti modificativi, impeditivi o estintivi risultino validamente acquisiti agli atti.

Come si concilia il potere istruttorio d’ufficio ex artt.421 e 437 con il potere dispositivo?

Come si legge in motivazione, in tema di potere istruttorio di ufficio del giudice, è comunque e sempre necessario il rispetto del principio dispositivo, non potendo detto potere esercitarsi

  • sulla base del sapere privato del giudice,
  • con riferimento a fatti non allegati dalle parti
  • o non acquisiti al processo in modo rituale,
  • dandosi ingresso alle cosiddette prove atipiche,
  • ovvero ammettendosi una prova contro la volontà delle parti di non servirsi di detta prova o, infine,
  • in presenza di una prova già espletata su punti decisivi della controversia, ammettendo d’ufficio una prova diretta a sminuirne l’efficacia e la portata.

Dunque, con la decisione in rassegna, la Suprema Corte contempera opposte esigenze:

  1. da un lato l’esigenza che il giudice non ponga a fondamento della propria decisione le sue conoscenze personali (divieto della scienza privata);
  2. dall’altro l’esigenza (accentuata nel rito del lavoro) di ampliare i poteri officiosi del giudice in materia di prove;
  3. dall’altro, infine, evitare che questo potere officioso possa confliggere con il principio dispositivo.

Comunque, restando aderenti al tema, con il principio di diritto espresso o meglio ribadito, la Suprema Corte vuole evitare che le conoscenze personali del giudice possano orientarlo in una certa direzione e possano, conseguentemente, costituire la fonte (o una fonte) del suo convincimento.

Ovviamente, la scienza privata è qualcosa di diverso dal fatto notorio, quest’ultimo potendo essere posto a fondamento della esistenza di un fatto.

Il fatto notorio è quel fatto che, rientrando nella comune esperienza e che le parti quindi non hanno bisogno di provare in quanto vero per la sua diffusione ed oggettività, può essere posto dal giudice a fondamento della propria decisione, in deroga al principio dispositivo, per il quale il giudice deve giudicare solo in base alle prove proposte dalle parti.

Il fatto (notorio), per poter essere posto a fondamento della decisione, deve avere notorietà generale, anche se sono ammessi i fatti di notorietà ristretti, ovvero circostanze comunemente note nel luogo, ove abitano le parti ed il giudice.

Alla luce di quanto sopra, apparirà più chiara la linea di demarcazione tra fatto notorio, scienza privata, potere officioso del giudice e principio dispositivo.

Si tratta, in definitiva, di quattro fenomeni che ruotano attorno ad un baricentro comune: la possibilità di poter controllare l’operato del giudice e criticarlo sulla base di fatti, atti o documenti che possano essere noti a tutti e non solo al giudice.

In realtà, per essere più precisi, il principio al quale si rifà la Suprema Corte è un corollario necessario dell’obbligo di motivazione di tutti i provvedimenti giurisdizionali, motivazione che deve essere non apparente (e tale sarebbe qualora essa si fondasse sulla scienza privata del giudice o, se si preferisce, sulle sue conoscenze personali o sulle conoscenze che egli ha tratto da casi analoghi ai quali non hanno però partecipato le parti del giudizio in questione).

Nei fatti, però, sarà veramente difficile attuare un tale principio. Tutte le persone, e quindi anche i giudici, hanno un proprio sapere personale, frutto della propria personale esperienza. Ma non è facile “cancellare” la memoria e non farsi condizionare da ciò che è il nostro patrimonio di conoscenze e di idee.

Ecco perché il principio ribadito dalla Suprema Corte può funzionare solo sulla “carta” ma non si potrà mai sapere quanto un giudice sia rimasto condizionato dalla propria percezione delle cose o dalle proprie conoscenze personali anche se di queste, nella motivazione, non ve ne sarà traccia.

avv. Filippo Pagano (f.pagano@clouvell.com)

managing partner at clouvell (www.clouvell.com)

 

 

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