Lo ha stabilito la Corte di cassazione penale sez. VI con sentenza 7 gennaio 2015 n. 2329.
La questione di diritto è quella dell’impugnabilità dell’ordinanza con la quale sia stata rigettata la richiesta di esclusione della parte civile, richiesta fondata non sulla contestazione del suo diritto sostanziale a costituirsi, ma sulle concrete modalità con cui la costituzione in giudizio è intervenuta.
La Corte d’appello, la cui sentenza è stata oggetto di esame da parte della Corte di cassazione, aveva ritenuto tale ordinanza non impugnabile, richiamando due pronunce della Suprema Corte: Sez. 4^ sent. 7291 del 21.11.2002, e Sez. 5^ sent. 2071 del 25.11.2008. Così facendo, però – secondo la Suprema Corte – ha sovrapposto due tematiche diverse: quella della impugnabilità e quella della specificità del motivo di impugnazione.
Difatti, il caso oggetto di esame è non quello dell’impugnazione della statuizione positiva dell’esclusione della parte civile, che provenga dalla persona offesa che si era costituita parte civile ed era stata estromessa (Sez. 7^, ord. 10880 del 11.10.2012, dep. 7.3.2013), bensì quello dell’impugnazione dell’imputato che abbia visto respingere la sua richiesta di esclusione della parte civile che si è costituita.
Le Sezioni Unite della Suprema Corte, con sentenza n. 12 del 19.5.1999, hanno chiarito che mentre l’ordinanza dibattimentale di (positiva) esclusione della parte civile è sempre e definitivamente inoppugnabile, quella di inammissibilità o rigetto della richiesta di esclusione è impugnabile da parte dell’imputato, unitamente all’impugnazione della sentenza.
Secondo la suprema Corte ciò accadrebbe in quanto “una volta esclusa nel giudizio di primo grado, la persona offesa che intendeva esercitare l’azione civile nel processo penale non è più parte dello stesso, che infatti si svolge regolarmente in sua assenza, sicchè sarebbe sistematicamente del tutto anomala un’impugnazione tardiva”. Tra l’altro, tale scelta non pregiudica alcun diritto della persona offesa la quale può sempre esercitare la propria azione civile nella sede civile. Diversamente accade per l’imputato il quale è parte fisiologica e necessaria del processo ed ha dunque un permanente interesse a contrastare decisioni in ipotesi erronee che hanno un’immediata incidenza sul capo della decisione afferente le questioni civili pertinenti al fatto di reato per cui si procede.
Pertanto – conclude la Corte – “la stabilità decisoria dell’ordinanza dibattimentale ammissiva della parte civile (…) deve ritenersi in ogni caso provvisoria, “allo stato degli atti”, idonea perciò a giustificare una limitata preclusione endoprocessuale, la cui ratio è quella di garantire, in base ad intuitive esigenze di economia processuale, l’ordinato e progressivo svolgimento del giudizio in presenza di una parte eventuale, senza l’instaurazione di fasi incidentali produttive di stasi nel processo penale. E’ viceversa consentito, con la sentenza di merito soggetta a sua volta agli ordinari mezzi di gravame, il controllo da parte del giudice dei presupposti di legittimità formale e sostanziale per l’esercizio dell’azione civile nel processo penale – sia la legitimatio ad causam, sia la legitimatio ad processum, sia l’osservanza delle formalità e dei termini prescritti dalla legge a pena d’inammissibilità – e per il conseguente riconoscimento del “diritto” della parte civile al risarcimento del danno”.
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avv. Filippo Pagano (f.pagano@clouvell.com)
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