L’art. 3 della legge 7 ottobre 1969, n. 742, stabilendo che la sospensione dei termini processuali non si applica, tra le altre, alle controversie previste dall’art. 429 cod. proc. civ. (sostituito dall’art. 409 per effetto dell’art. 1 della legge 11 agosto 1973, n. 533), si riferisce alle controversie individuali di lavoro e non, invece, a tutte le controversie che sono regolate dal rito del lavoro, facendo tale norma richiamo alla natura della causa e non al rito da cui essa è disciplinata.
Lo ha stabilito la Suprema Corte di Cassazione – sezione sesta civile – con ordinanza n. 22389 del 2 novembre 2015
Il caso
Con ricorso in data 21 marzo 2012, una Banca proponeva opposizione avverso l’ordinanza emessa dal Garante per la protezione dei dati personali con cui era stato ad essa ingiunto il pagamento della somma di euro 100.000 per avere trattato dati personali senza fornire idonea informativa agli interessati.
La sentenza di primo grado.
Con sentenza in data 23 gennaio 2014, l’adito Tribunale dichiarava priva di giuridica efficacia l’ordinanza impugnata, avendo riscontrato il superamento del termine per la decisione dell’iter sanzionatorio.
La motivazione della sentenza di primo grado
Secondo il Tribunale, premesso che l’art. 18 della legge n. 689 del 1981 non fissa alcun termine per la decisione dell’autorità amministrativa sul ricorso del trasgressore, ma che un termine per la decisione risulta fissato dalla legge n. 241 del 1990, il silenzio della P.A. protrattosi nella vicenda per due anni, violando l’obbligo legale di cui all’art. 2 della legge n. 241 del 1990 ed il diritto soggettivo del privato alla definizione tempestiva del procedimento, ha determinato la consumazione del potere della P.A. di adottare il provvedimento sanzionatorio. Da qui il ricorso per cassazione.
Il primo motivo di ricorso
Il primo mezzo denuncia violazione dell’art. 112 cod. proc. civ. e degli artt. 22 e 23 della legge n. 689 del 1981, lamentando il vizio di extrapetizione, per avere il Tribunale dichiarato la giuridica inefficacia dell’ordinanza-ingiunzione per una ragione non dedotta dall’opponente.
La Suprema Corte ritiene il motivo fondato.
Secondo gli Ermellini, per costante orientamento (Cass., Sez. lav., 16 aprile 2010, n. 9178), il giudizio di opposizione avverso ordinanza-ingiunzione di pagamento di somma di denaro a titolo di sanzione amministrativa è strutturato, nelle sue linee generali, in conformità al modello del giudizio civile ordinario e risponde agli inerenti principi, in particolare della domanda, della corrispondenza tra chiesto e pronunciato e del divieto della pronunzia d’ufficio su eccezioni rimesse esclusivamente all’iniziativa di parte, nonché ai limiti della modificazione della causa petendi, che, in tale giudizio, resta individuata sulla base dei motivi di opposizione. Ne consegue che il giudice, salve le ipotesi di inesistenza, non ha il potere di rilevare ragioni di invalidità del provvedimento opposto o del procedimento che l’ha preceduto non dedotte nell’atto di opposizione, nemmeno sotto il profilo della disapplicazione del provvedimento stesso.
La Banca non ha prospettato il vizio ritenuto sussistente dal Tribunale
Nella specie – proseguono i giudici di piazza Cavour – dalla lettura del ricorso introduttivo emerge per tabulas che la Banca opponente ha dedotto vari motivi di doglianza sull’omessa informativa all’interessato in relazione alla raccolta di dati personali effettuata attraverso il sistema di videosorveglianza installato presso una filiale; sull’omessa informativa all’interessato in relazione alla raccolta di dati personali effettuata attraverso il sistema di rilevazione biometrica associata ad immagini, installato presso la medesima filiale; sull’omessa notificazione del trattamento per avere omesso di notificare i trattamenti di dati personali -, ma non ha prospettato il vizio ritenuto sussistente dal Tribunale, ossia il superamento del termine per la decisione dell’iter sanzionatorio.
L’eccezione di tardività del ricorso sollevata dalla controricorrente.
La Banca controricorrente ha dedotto la tardività del deposito del ricorso, avvenuto il 17 settembre 2014 a fronte di una notifica dell’atto di impugnazione perfezionatasi il 29 luglio 2014.
La sospensione dei termini feriali non si applica alle controversie individuali di lavoro, mentre si applica alle altre controversie regolate dal rito del lavoro.
Secondo i giudici di piazza Cavour, è bensì vero che le controversie previste dall’art. 152 del d.lgs. n. 196 del 2003 sono regolate dal rito del lavoro (ex art. 10 del d.lgs. 1°settembre 2011, n. 150), ma da ciò non discende l’inapplicabilità della sospensione feriale dei termini, e ciò in forza del principio secondo cui l’art. 3 della legge 7 ottobre 1969, n. 742, stabilendo che la sospensione dei termini processuali dal 1° agosto al 15 settembre non si applica, tra le altre, alle controversie previste dall’art. 429 cod. proc. civ. (sostituito dall’art. 409 per effetto dell’art. 1 della legge 11 agosto 1973, n. 533), si riferisce alle controversie individuali di lavoro e non, invece, a tutte le controversie che sono regolate dal rito del lavoro, facendo tale norma richiamo alla natura della causa e non al rito da cui essa è disciplinata;
Le controversie in materia di protezione dei dati personali sono regolate dal rito del lavoro ma ad esse si applica la sospensione dei termini feriali.
Di conseguenza, gli Ermellini escludono che, nelle controversie, regolate dal rito del lavoro, in materia di applicazione delle disposizioni del codice in materia di protezione dei dati personali, il termine di venti giorni per il deposito in cancelleria del ricorso per cassazione, stabilito dall’art. 369 cod. proc. civ., sia sottratto alla regola generale della sospensione dei termini processuali durante il periodo feriale.
Una breve riflessione
A leggere la sentenza in rassegna ed il principio dalla medesima ribadito, ci si accorgerà come la questione trattata ed affrontata sia tutt’altro che di secondaria importanza.
Difatti, molte sono le materie assoggettate al cd. rito del lavoro:
- l’opposizione a ordinanza ingiunzione (art. 6 D.lgs. 150/2011);
- le controversie in materia di opposizione al verbale di accertamento di violazione del codice della strada di cui all’articolo 204-bis del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (art. 7 D.lgs. 150/2011);
- le controversie in materia di stupefacenti (art. 8 D.lgs. 150/2011);
- le controversie in materia di recupero degli aiuti di Stato (art. 9 D.lgs. 150/2011);
- le controversie in materia di trattamento dei dati personali (art. 10 D.Lgs. 150/2011);
- le controversie agrarie (art. 11 D.Lgs. 150/2011);
- le controversie in materia di registro dei protesti (art. 12 D.Lgs. 150/2011);
- le controversie in materia di riabilitazione del debitore protestato (art. 13 D.Lgs. 150/2011).
Dette controversie sono assoggettate al rito del lavoro ma non riguardano rapporti lavoro. Di conseguenza, soggiacciono alla sospensione dei termini feriali.
Certo è che, stando così le cose, non si comprende quale sia la utilità pratica di non assoggettare a sospensione dei termini le controversie relative ai rapporti di lavoro. Forse, nelle intenzioni del legislatore del 1969 vi era il comprensibile intento di evitare pericolose stasi nei procedimenti che riguardavano i diritti del lavoratore rispetto agli altri giudizi cd. ordinari. Nei fatti, la esclusione della sospensione dei termini nei procedimento relativi a controversie individuali di lavoro, oggi, non ha più ragion d’essere posto che il rito del lavoro si è dimostrato inadeguato a soddisfare le esigenze di celerità. Ed allora, non si comprende perché mai le controversie individuali di lavoro dovrebbero essere escluse dalla disciplina della sospensione dei termini ed invece le altre controversie non di lavoro ma assoggettate al rito del lavoro dovrebbe soffrire la sospensione dei termini.
La scelta, di politica legislativa, di semplificare i riti (D.lgs. 150/2011) risponde alla esigenza di speditezza. Ma la speditezza non si sposa con la sospensione dei termini feriali. E considerato che le ferie sono un diritto sacrosanto dei lavoratori, e quindi anche dei magistrati e degli avvocati, forse sarebbe il caso di ridurre le ipotesi di deroga alla sospensione dei termini ai soli procedimenti in cui vi sia una reale urgenza. Una semplificazione, sotto tale profilo, determinerebbe maggiore certezza nell’applicazione delle norme e ridurrebbe le occasioni di contenzioso.
avv. Filippo Pagano (f.pagano@clouvell.com)
managing partner at clouvell (www.clouvell.com)