SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza del 26 aprile 2010, la Corte d’appello di Torino, in riforma della sentenza impugnata, ha dichiarato risolto per fatto e colpa della (concedente la licenza del marchio Omissis) s.p.a. il contratto di licenza di marchio concluso fra la medesima e la licenziataria (licenziataria Omissis) s.r.l., condannando la prima al risarcimento del danno in € 252.210,55, da rivalutare secondo gli indici Istat dal mese di ottobre 2003 e con interessi sulla somma anno per anno rivalutata, nonché alla restituzione della somma di € 15.884,48.
Ha ritenuto la corte territoriale che non siano stati provati gli allegati fatti di inadempimento di (licenziataria Omissis) s.r.l. al contratto di licenza del 10 dicembre 2002, contestati dalla (concedente la licenza del marchio Omissis) s.p.a. con la lettera del 15 ottobre 2003 di esercizio della facoltà di risoluzione di diritto ex art. 1456 c.c., dal momento che, in particolare, non sussiste inadempimento: a) all’obbligo di fornire alla fine di ogni campagna di vendita i listini dei prezzi in vigore ed ogni informazione che sarebbe stata chiesta circa la vendita dei prodotti, posto che non è dato sapere se fosse finita la campagna di vendita e non erano state avanzate richieste di listini o informazioni; b) all’obbligo di inviare l’estratto conto relativo al primo semestre del 2003, posto che non furono emesse fatture in tale periodo, tranne una di appena € 123,86, emessa l’ultimo giorno del primo semestre, onde è ragionevole ritenere che l’esistenza dell’unico documento fosse da comunicare insieme all’elenco delle fatture emesse nel secondo semestre 2003; c) all’obbligo di permettere l’accesso degli ispettori della concedente alla documentazione della controparte, posto che fu semplicemente richiesto alla prima di indicare una data diversa per l’accesso.
Ha aggiunto che le ulteriori violazioni allegate non sono idonee a condurre neppure all’accoglimento della subordinata domanda di risoluzione per inadempimento, atteso che esse nessuna incidenza ebbero sull’andamento del rapporto e furono pretestuosamente addotte solo dopo l’irrimediabile rottura della reciproca collaborazione.
Ha ritenuto, viceversa, provato l’inadempimento della concedente, che con il suo comportamento ha così impedito alla controparte l’ulteriore utilizzazione del marchio, liquidando il danno emergente ed il lucro cessante, oltre ad una somma a titolo di restituzione parziale delle royalties versate e non dovute.
Avverso questa sentenza propone ricorso la soccombente, affidato a sette motivi. Resiste con controricorso l’intimata.
MOTIVI DELLA DECISIONE
– La ricorrente censura la sentenza impugnata sulla base di sette motivi, come segue riassunti:
1) violazione e falsa applicazione dell’art. 1456 c.c., perché il contratto inter partes aveva previsto la clausola risolutiva espressa in caso d’inadempimento della licenziataria all’obbligo di trasmettere, alla fine di ogni campagna di vendita, i listini dei prezzi in vigore da essa applicati e le ulteriori informazioni sulla rete distributiva e le vendite: ma la corte territoriale ha ritenuto insussistente tale inadempimento, sull’assunto che sarebbe mancato il previo invito di (concedente la licenza del marchio Omissis) s.p.a.: laddove invece, per contratto, l’obbligo avrebbe dovuto essere spontaneamente assolto, onde la corte del merito ha sindacato inopinatamente le modalità di adempimento pattuite;
2) violazione degli art. 1218, 1456 e 2697 c.c., perché la sentenza impugnata ha ritenuto non provata la conclusione della campagna di vendita prevista nella predetta clausola contrattuale, laddove invece il creditore deve unicamente provare la fonte del suo diritto ed allegare l’altrui inadempimento, anche per il principio della vicinanza della prova;
3) violazione e falsa applicazione dell’art. 1456 c.c., in quanto la sentenza impugnata, nonostante che controparte abbia omesso di trasmettere alla concedente l’estratto conto relativo alle fatture di vendita emesse nel primo semestre del 2003, come imposto dal contratto, ha tuttavia escluso l’inadempimento di (licenziataria Omissis) s.r.l. al riguardo, per il fatto che si è accertata l’emissione di un’unica fattura in quel semestre, onde, secondo la corte del merito, sarebbe stato ragionevole ritenere che l’esistenza dì questo unico documento, emesso l’ultimo giorno del primo semestre, fosse da comunicare con il semestre successivo: la circostanza, tuttavia, era emersa in sede di c.t.u. e la concedente la ignorava, allorché aveva esercitato la facoltà di risoluzione di diritto; mentre la valutazione della gravità esula dalle valutazioni di cui alla norma predetta;
4) violazione e falsa applicazione degli art. 1220 e 1456 c.c., per avere la sentenza impugnata escluso l’inadempimento di (licenziataria Omissis) s.r.l. all’obbligo di permettere l’esame delle scritture contabili e dei documenti relativi alle vendite dei prodotti, sol per avere la medesima inviato, in risposta alla missiva della concedente in data 7 ottobre 2003 che preannunziava l’accesso per il successivo giorno 17, una lettera in data 9 ottobre, nella quale chiedeva un differimento dell’accesso, senza, tuttavia, indicare una diversa data utile, tal che la ricorrente si era vista costretta ad avvalersi della clausola risolutiva espressa anche per tale inadempimento; ma, a fronte della costituzione in mora di cui alla propria lettera del 7 ottobre 2003, l’avversa missiva del 9 ottobre successivo non costituiva offerta non formale di adempimento, attesa la ricordata mancanza di una data in cui poter eseguire l’ispezione convenuta;
5) omessa o insufficiente motivazione, avendo la corte del merito omesso di considerare i profili di inadempimento (in particolare, la vendita dei prodotti al di fuori dai canali convenuti ed il pagamento delle royalties) ai fini della domanda subordinata di risoluzione ex art. 1453 c.c., respinta dalla corte del merito con motivazione tautologica;
6) violazione e falsa applicazione degli art. 1223 e 1243 c.c., non avendo la sentenza impugnata provveduto a compensare il danno liquidato con i vantaggi ottenuti comunque dalla licenziataria, che, come accertato dalla c.t.u., aveva commercializzato abbigliamento per un ricavo complessivo di € 91.155,23;
7) violazione e falsa applicazione dell’art. 1223 c.c., avendo la corte del merito concesso anche gli interessi legali sulla somma rivalutata anno per anno, senza alcuna prova del pregiudizio da parte del creditore che giustificasse la liquidazione di detti interessi.
– I primi due motivi, da trattare congiuntamente in quanto fra di loro connessi, sono infondati.
La corte del merito ha ritenuto insussistente l’inadempimento all’obbligo della licenziataria di trasmettere, alla fine di ogni campagna di vendita, i listini dei prezzi in vigore da essa applicati e le ulteriori informazioni sulla rete distributiva e sulle vendite, perché non risultava provata la conclusione della cd. campagna e non risultavano mai richieste le informazioni.
Si tratta di un’interpretazione della clausola negoziale, laddove essa – per come riferita nel ricorso e nella sentenza – prevede che “la licenziataria dovrà, alla fine di ogni campagna di vendita, fornire alla concedente i listini del prezzi ed ogni informazione che le verrà richiesta in ordine alla distribuzione ed alla vendita del prodotti”.
La clausola è stata interpretata dalla corte del merito nel senso che occorresse la previa conclusione della c.d. campagna di vendita e la richiesta di informazioni, evenienze entrambe non provate.
Orbene, la sentenza impugnata, in tal modo, non ha sindacato affatto le modalità di adempimento convenute fra le parti, mentre sia l’interpretazione così svolta, sia l’accertamento in fatto operato non possono essere riproposti al giudice di legittimità.
È noto, infatti, che, in tema di interpretazione del contratto, il sindacato di legittimità non può investire il risultato interpretativo in sé, che appartiene all’ambito dei giudizi di fatto riservati al giudice di merito, ma afferisce solo alla verifica del rispetto dei canoni legali di ermeneutica e della coerenza e logicità della motivazione addotta, con conseguente inammissibilità di ogni critica alla ricostruzione della volontà negoziale operata dal giudice di merito che si traduca in una diversa valutazione degli stessi elementi di fatto da questi esaminati (da ultimo, Cass. 10 febbraio 2015, n. 2465).
D’altro canto, anche l’accertamento svolto e l’apprezzamento, operato dal giudice di merito, dei fatti della controversia e delle prove non può essere in questa sede riproposto, atteso che è inammissibile la prospettazione, innanzi alla Corte, di una mera spiegazione di tali fatti e delle risultanze istruttorie con una logica alternativa, pur se supportata dalla possibilità o dalla probabilità di corrispondenza alla realtà fattuale, occorrendo invece che essa appaia come l’unica possibile e venga adeguatamente denunziata ex all’art. 360, l° comma, n. 5 c.p.c. (per le cause cui era applicabile la versione della norma anteriore a quella ora in vigore).
Né la corte territoriale ha violato le norme in tema di onere della prova, dal momento che la possibilità per il creditore di limitarsi a provare la fonte del suo diritto ed allegare l’altrui inadempimento, da tempo da questa Corte affermata, lascia permanere sul medesimo l’onere di dimostrare l’integrazione dei fatti costitutivi della pretesa, com’è, nella specie, l’avvenuta conclusione della cd. campagna di vendita: che, per quanto appena esposto, la sentenza impugnata ha reputato essere un presupposto per il sorgere dell’obbligo informativo in questione e che, con accertamento ad essa riservato, ha escluso fosse stata in fatto dimostrata.
Anche il richiamo al principio della vicinanza della prova, dalla ricorrente accennato, non coglie nel segno, dal momento che la conclusione della cd. campagna di vendita è fatto esterno alla immediata ed esclusiva sfera della licenziataria, onde ben avrebbe potuto, senza aggravio eccessivo per l’assolvimento dell’onere probatorio medesimo, essere dimostrato con ogni mezzo dall’interessata, e tenuto conto che il principio di vicinanza della prova non è invocabile in relazione ad una circostanza comune ad entrambe le parti.
– Il terzo motivo è infondato.
Mentre con riguardo all’interpretazione delle clausole contrattuali ed all’apprezzamento delle circostanze di fatto deve richiamarsi quanto esposto al punto che precede, non sussiste, poi, la denunziata violazione dell’art. 1456 c.c. e del pacifico e condivisibile principio, dalla ricorrente richiamato, secondo cui esula da tale disposizione l’accertamento della gravità dell’inadempimento per gli interessi del creditore, di cui all’art. 1455 c.c.
La corte territoriale, invero, non ha affermato di ritenere l’inadempimento in questione di scarsa rilevanza, bensì lo ha escluso. Essa, nel reputare “ragionevole” la comunicazione dell’unico documento del semestre insieme all’elenco delle fatture emesse nel semestre successivo, ha fatto invece nella sostanza applicazione del principio, pur ivi non espressamente menzionato, previsto dall’art. 1375 c.c., che impone ai contraenti il comportamento secondo buona fede.
Anche in presenza di clausola risolutiva espressa, i contraenti sono tenuti a rispettare il principio generale della buona fede ed il divieto di abuso del diritto, preservando l’uno gli interessi dell’altro. Il potere di risolvere di diritto il contratto avvalendosi della clausola risolutiva espressa, in particolare, è necessariamente governato dal principio di buona fede, da tempo individuato dagli interpreti sulla base del dettato normativa (art. 1175, 1375, 1356, 1366, 1371, c.c., ecc.) come direttiva fondamentale per valutare l’agire dei privati e come concretizzazione delle regole di azione per i contraenti in ogni fase del rapporto (precontrattuale, di conclusione e di esecuzione del contratto).
Il principio di buona fede si pone allora, nell’ambito della fattispecie dell’art. 1456 c.c., come canone di valutazione sia dell’esistenza dell’inadempimento, sia del conseguente legittimo esercizio del potere unilaterale di risolvere il contratto, al fine di evitarne l’abuso ed impedendone l’esercizio ove contrario ad essa (ad esempio escludendo i comportamenti puramente pretestuosi, che quindi non riceveranno tutela dall’ordinamento).
Dunque, pure in presenza della clausola risolutiva espressa, per il contraente non inadempiente vige il precetto generale ex art. 1375 c.c., il quale gli impone in primis di valutare la condotta di controparte in tale prospettiva collaborativa; quindi, sarà il giudice a dover valutare le condotte in concreto tenute da entrambe le parti del rapporto obbligatorio, allorché sia adito con la domanda volta alla pronuncia dichiarativa ex art. 1456 c.c. (cfr. Cass. 6 febbraio 2007, n. 2553); e, se da tale valutazione risulti che la condotta del debitore, pur realizzando sotto il profilo materiale il fatto contemplato dalla clausola risolutiva espressa, è conforme al principio della buona fede, ciò lo condurrà ad escludere la sussistenza dell’inadempimento tout court e, quindi, dei presupposti per dichiarare la risoluzione del contratto.
L’inadempimento all’obbligazione, contrattualmente previsto come integrativo del potere di provocare in via potestativa la risoluzione del contratto, deve cioè essere effettivo, perché la previsione negoziale è da interpretare ed eseguire secondo buona fede.
Il tema, quindi, attiene non al requisito soggettivo della colpa, ma a quello oggettivo della condotta inadempiente, che in concreto manca, laddove essa – secondo una lettura condotta alla stregua del canone della buona fede – risulti in concreto inidonea ad integrare la fattispecie convenzionale, onde implausibile, secondo il medesimo canone, risulti l’esercizio del diritto di risoluzione da parte dell’altro contraente.
Ciò è quanto ha opinato la sentenza impugnata, laddove ha motivato nel senso che mancò l’inadempimento di (licenziataria Omissis) s.r.1., per il fatto che si era accertata l’emissione di un’unica fattura in quel semestre, onde sarebbe stato “ragionevole” – ossia giustificante il rinvio – ritenere che l’esistenza di questo unico documento, emesso l’ultimo giorno del primo semestre, fosse da comunicare con il semestre successivo.
– Il quarto motivo è infondato.
La corte del merito ha ritenuto che non poteva dirsi inadempiente la (licenziataria Omissis) s.r.l. all’obbligo di permettere l’esame delle scritture contabili e dei documenti di vendita, in quanto aveva soltanto chiesto un differimento dell’ispezione contrattualmente pattuita, ma non ne aveva affatto rifiutato lo svolgimento. In tal modo, la sentenza impugnata ha escluso che la licenziataria potesse, al riguardo, essere considerata in mora nell’adempimento dell’obbligazione di pati, trattandosi di manifestazione della volontà di permettere l’accesso: dunque, ha reputato ciò un’offerta seria ed affidabile della prestazione dovuta.
Tale ratio decidendi non è intaccata dal motivo. L’obbligazione dovuta, di cui si tratta, consisteva nella mera prestazione del consenso all’accesso per la presa in visione delle scritture e dei documenti contabili: onde il principio, affermato da questa Corte e richiamato dalla ricorrente, secondo cui l’offerta non formale, ai sensi dell’art. 1220 c.c., consiste in una qualsiasi condotta del debitore idonea a manifestare il serio intento di effettuare la prestazione, che deve essere posta a disposizione del creditore con modalità tali da consentirne concretamente la fruibilità (fra le tante, Cass., ord. 27 ottobre 2014, n. 22734), va adeguato all’oggetto della prestazione di pati: che può dirsi adeguatamente offerta al creditore, quando il debitore chieda di concordare la data per l’adempimento di quell’obbligazione e non vi siano evidenti ragioni per ritenere non seria tale richiesta; mentre, poi, la ricostruzione della vicenda costituisce un accertamento in fatto, non sindacabile in questa sede.
– Il quinto motivo è infondato.
La sentenza impugnata ha accertato che le ulteriori violazioni allegate dalla licenziataria, diverse da quelle contestate dalla concedente con la lettera di manifestazione della volontà di avvalersi della clausola risolutiva espressa ex art. 1456 c.c., non sono tali da condurre all’accoglimento della subordinata domanda di risoluzione per inadempimento, in quanto prive di rilevanza nel rapporto e solo pretestuosamente addotte in seguito.
Si tratta di un accertamento di fatto, che, seppure succintamente motivato, dà ragione del convincimento raggiunto dal giudice del merito, nell’esercizio del potere di ricostruzione della vicenda e dei reciproci comportamenti ed inadempimenti, al medesimo riservato.
– Il sesto motivo è inammissibile, in quanto la ricorrente non deduce che la questione, di cui la sentenza non fa cenno, facesse parte del tema del giudizio e non costituisca, invece, questione nuova, inammissibilmente introdotta in questa sede, nella quale non sarebbe certo possibile accertare in punto di fatto i pretesi vantaggi conseguiti dalla controparte.
– Il settimo motivo è infondato.
Alla stregua dei principi generali regolanti la responsabilità per inadempimento, compete al soggetto danneggiato, sulla somma a lui spettante a titolo di risarcimento del danno, la rivalutazione monetaria, trattandosi di debito di valore, e, sull’importo rivalutato, gli interessi legali. Infatti, questa Corte (sin da Cass., sez. un., 17 febbraio 1995, n. 1712; più di recente, fra le altre, Cass. 18 febbraio 2010, n. 3931) ha chiarito che, qualora la liquidazione del danno sia effettuata “per equivalente” con riguardo a termini monetari che tengano conto della svalutazione intervenuta fino alla data della decisione definitiva, al danneggiato è poi dovuto anche il risarcimento del mancato guadagno che questi provi essergli stato provocato dal ritardato pagamento della suddetta somma: prova che, peraltro, può essere raggiunta mediante Criteri presuntivi ed equitativi, quale l’attribuzione degli interessi, non però da calcolare dalla data dell’illecito sulla somma liquidata per il capitale definitivamente rivalutata, ma con riferimento ai singoli momenti con riguardo ai quali la somma equivalente al bene perduto si incrementa nominalmente, in base ai prescelti indici di rivalutazione monetaria, ovvero in base ad un indice medio.
Il riconoscimento di interessi, dunque, si verifica in quanto essi svolgono una funzione compensativa, quale una delle possibili tecniche liquidatorie utilizzabili per reintegrare il patrimonio del danneggiato qual era all’epoca del prodursi del danno. Si tratta di una modalità liquidatoria del danno da lucro cessante, diverso ed ulteriore rispetto a quello emergente, cui è consentito al giudice di merito di fare ricorso, con l’unico limite costituito dall’impossibilità di calcolare gli interessi sulle somme integralmente rivalutate dalla data dell’illecito; essi, invero, sono da calcolare o al tasso legale sulla minor somma che ne avrebbe costituito l’equivalente monetario alla data di insorgenza del credito (coincidente con quella dell’evento dannoso), ovvero mediante l’attribuzione di interessi sulla somma liquidata all’attualità ma ad un tasso inferiore a quello legale medio nel periodo di tempo da considerare, ovvero attraverso il riconoscimento degli interessi legali sulla somma attribuita, ma a decorrere da una data intermedia, ossia computando gli interessi sull’importo progressivamente rivalutato anno per anno dalla data dell’illecito.
E l’accertamento di tale danno può aver luogo anche in base a criteri presuntivi collegati al rapporto tra remuneratività media del denaro e tasso di svalutazione nel periodo in considerazione, essendo ovvio che, in tutti i casi in cui il primo sia inferiore al secondo, un danno da ritardo non sarà normalmente configurabile. Ma, nella specie, la corte del merito, trattandosi di imprenditori, ha reputato configurabile il danno da lucro cessante, provvedendo a liquidarlo come esposto.
In conclusione, il ricorso va respinto.
– Le spese seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese di lite, liquidate in € 16.200,00, di cui e 200,00 per esborsi, oltre alle spese generali ed agli accessori, come per legge.