Le norme del cd. rito Fornero, nel consentire che il giudice della fase sommaria possa essere anche la stessa persona fisica che istruisce e decide la fase successiva, non viola gli articoli 3, 24 e 111 Cost., non essendo compromessa la imparzialità del giudice.
Lo ha stabilito la Corte Costituzionale con sentenza 29 aprile – 13 maggio 2015, n. 78
Il caso
Il Tribunale ordinario di Milano veniva chiamato a pronunciarsi su una istanza di ricusazione ex art. 51, primo comma, numero 4), del codice di procedura civile, proposta nei confronti di un magistrato che, ai sensi dell’art. 1, comma 51, della legge 28 giugno 2012, n. 92 (Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita), era stato designato a decidere sulla opposizione avverso l’ordinanza (di rigetto dell’impugnativa del licenziamento di una lavoratrice) da lui stesso emessa .
L’ordinanza di rimessione
Il Tribunale sollevava in via incidentale, premessane la rilevanza e la non manifesta infondatezza in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione, questione di legittimità dei predetti artt. 51, primo comma, numero 4), cod. proc. civ., e 1, comma 51, della legge n. 92 del 2012, «nella parte in cui non prevedono l’obbligo di astensione per l’organo giudicante (persona fisica) investito del giudizio di opposizione ex art. 51, comma 1 [rectius: art. 1, comma 51], l. n. 92 del 2012 che abbia pronunciato l’ordinanza ex art. 1, comma 49»
I motivi della rimessione alla Corte Costituzionale
Per il giudice a quo «la morfologia strutturale dell’istituto processuale introdotto dalla l. 92/2012 corrisponde […] integralmente al codice genetico tipico dei procedimenti bifasici, in cui l’unico processo di merito è scandito da due fasi: una preliminare sommaria, e una (eventuale: se c’è opposizione) a cognizione piena»., per cui «si versa, in buona sostanza, nell’ambito delle forme procedimentali che prevedono provvedimenti interinali a contenuto decisorio, cedevoli nel corso del successivo giudizio di merito», con riguardo alle quali «è notoriamente escluso che possa trovare applicazione l’obbligo dell’astensione, tant’è che, quando il legislatore ha voluto esprimere una riserva, lo ha fatto in modo espresso».
Il valore impugnatorio del giudizio di opposizione.
Per il remittente, la fase di opposizione nell’esaminato processo, «pur non istituendo, in senso tecnico, un “grado” di giudizio», potrebbe «di fatto […] assume[re] valore impugnatorio con contenuto sostanziale di revisio prioris instantiae».
Da qui il sospetto che «la dinamica procedimentale così confezionata» comporti «violazione dell’art. 3, primo comma, della Costituzione, per la irragionevole diversità di disciplina rispetto all’ipotesi, sostanzialmente simile, prevista dall’art. 669-terdecies, secondo comma, cod. proc. civ., che ha introdotto un caso di incompatibilità del giudice in una ipotesi abbastanza analoga, per essere adottata quale tertium comparationis». E la possibilità che contrasti, altresì, con gli artt. 24 e 111 Cost., «per la lesione del diritto alla tutela giurisdizionale, sotto il profilo di esclusione della imparzialità del giudice».
Le norme costituzionali che si assumono violate:
- − l’art. 3, primo comma, della Costituzione, per l’assunta irragionevolezza della diversità di disciplina rispetto alla (sostanzialmente) simile ipotesi prevista dall’art. 669-terdecies, secondo comma, cod. proc. civ. che – con riferimento all’istituto del reclamo nel procedimento cautelare – stabilisce l’incompatibilità tra il giudice che ha emesso il provvedimento reclamato e il giudice (in composizione collegiale, del quale il primo non può far parte) designato alla trattazione e alla decisione del proposto reclamo;
- ‒ gli artt. 24 e 111 Cost., per la ravvisata lesione del diritto alla tutela giurisdizionale sotto il profilo di esclusione dell’imparzialità del giudice (parametri dedotti con tutte e quattro le ordinanze di rimessione).
I rimedi avverso la sentenza del giudice di prime cure ed avverso la sentenza del giudice di appello.
Per la Corte delle leggi, la stessa disciplina normativa prevede il rimedio impugnatorio tipico del reclamo (comparabile all’appello) avverso la sentenza del giudice di prime cure (adottata all’esito dell’opposizione) e quello del ricorso per cassazione nei riguardi della sentenza di secondo grado – si è, nel frattempo, consolidata, comunque, in termini di diritto vivente, per effetto dell’intervento ermeneutico della Corte di cassazione a sezioni unite civili (ordinanza 18 settembre 2014, n. 19674), poi ribadito dalla sesta sezione civile – sottosezione L (ordinanza 20 novembre 2014, n. 24790) e dalla sezione lavoro (sentenze 17 febbraio 2015, n. 3136 e 16 aprile 2015, n. 7782) della stessa Corte.
La natura bifasica del giudizio di primo grado nel rito impugnatorio dei licenziamenti.
Per la Corte Costituzionale, il carattere peculiare del rito impugnatorio dei licenziamenti, ridisegnato dal legislatore del 2012 sta nell’articolazione in due fasi del giudizio di primo grado. Nel contesto del quale «Quindi dopo una fase iniziale concentrata e deformalizzata – mirata a riconoscere, sussistendone i presupposti, al lavoratore ricorrente una tutela rapida ed immediata e ad assegnargli un vantaggio processuale […] ove il fondamento della sua domanda risulti prima facie sussistere alla luce dei soli atti di istruzione indispensabili – il procedimento si riespande, nella fase dell’opposizione, alla dimensione ordinaria della cognizione piena con accesso per le parti a tutti gli atti di istruzione ammissibili e rilevanti» (ordinanza n. 19674 del 2014). Dal che la conclusione che la fase di opposizione – non costituendo una revisio prioris instantiae della fase precedente ma solo «una prosecuzione del giudizio di primo grado» – non postula l’obbligo di astensione (del giudice che abbia pronunziato l’ordinanza opposta), previsto dall’art. 51, primo comma, numero 4), cod. proc. civ. con (tassativo) riferimento al magistrato che abbia conosciuto della controversia «in altro [e non dunque, nel medesimo] grado del processo».
Perché la Corte rileva che non sussiste il sospetto di illegittimità costituzionale delle norme denunciate.
Per la Corte delle leggi
- Non sussiste in primo luogo la violazione dell’art. 3 Cost., prospettata per l’asserita irragionevole disparità di trattamento della disciplina impugnata rispetto a quella del reclamo contro i provvedimenti cautelari di cui all’art. 669- terdecies cod. proc. civ. in quanto la disciplina processuale assunta dal rimettente a tertium comparationis − lungi dall’essere, come da sua prospettazione, «abbastanza analoga» − è, in realtà, ben differente da quella in esame: per essere, come detto, quest’ultima scandita da una prima, necessaria, fase sommaria e informale e da una successiva, eventuale, fase a cognizione piena; mentre, nell’ipotesi disciplinata dal richiamato art. 669-terdecies cod. proc. civ., il reclamo avverso l’ordinanza, con la quale è stata concessa o denegata la misura cautelare dal giudice monocratico del Tribunale, integra una vera e propria impugnazione che «si propone al collegio» del quale, appunto, «non può far parte il giudice che ha emanato il provvedimento reclamato».
- Non sussiste la violazione degli artt. 24 e 111 Cost. «per la lesione», come sinteticamente motivato dai rimettenti, «del diritto alla tutela giurisdizionale sotto il profilo di esclusione della imparzialità del giudice», e ciò in quanto, nel processo civile – al quale (diversamente da quanto sostenuto dalla difesa della ricusante) non sono applicabili le regole, in tema di incompatibilità relative al processo penale (sentenza n. 387 del 1999) − il principio di imparzialità del giudice, cui è ispirata la disciplina dell’astensione, si pone in modo diverso in riferimento, rispettivamente, alla pluralità dei gradi del giudizio ed alla semplice articolazione dell’iter processuale attraverso più fasi sequenziali, necessarie od eventuali (per tutte, ordinanza n. 220 del 2000).
Quando non vi è l’obbligo di astensione.
È stata così ritenuta costituzionalmente legittima la mancata previsione dell’obbligo di astensione ex art. 51, primo comma, numero 4), cod. proc. civ. con riguardo:
- al giudice che abbia conosciuto della causa in fase cautelare, chiamato a partecipare alla sua decisione nel merito (ordinanza n. 359 del 1998 e sentenza n. 326 del 1997);
- al giudice delegato al fallimento chiamato a comporre il collegio in sede di reclamo avverso i provvedimenti da lui stesso emessi (sentenza n. 363 del 1998);
- al giudice che abbia trattato la fase sommaria e sia poi chiamato a decidere nel merito una causa possessoria (ordinanze n. 101 del 2004 e n. 220 del 2000);
- al giudice della esecuzione [che, prima della introduzione del nuovo art. 186-bis disp. att. cod. proc. civ., era] chiamato a conoscere della opposizione agli atti esecutivi ex artt. 617 e 618 cod. proc. civ. (ordinanza n. 497 del 2002);
- al giudice che, con la già richiamata ordinanza ex art. 186-quater cod. proc. civ., abbia deciso, nei limiti in cui ritiene già raggiunta la prova (sull’istanza della parte di pagamento di somme ovvero di consegna o rilascio di beni), a conoscere il prosieguo della causa ai fini della successiva decisione (ordinanza n. 168 del 2000).
Quando vi è l’obbligo di astensione.
Sussiste, invece, l’obbligo di astensione quando il procedimento svolgentesi davanti al medesimo giudice sia solo «apparentemente “bifasico”» mentre, in realtà, esso «per la sostanziale identità di valutazioni da compiersi in entrambe le fasi […] si articola in due momenti, il secondo dei quali assume il valore di vera e propria impugnazione, e acquista, pertanto, i caratteri essenziali di “altro grado del processo”» (sentenza n. 460 del 2005).
La natura dell’opposizione nel rito Fornero
In questo caso, l’opposizione non verte sullo stesso oggetto dell’ordinanza opposta (pronunciata su un ricorso “semplificato”, e sulla base dei soli atti di istruzione ritenuti, allo stato, indispensabili), né è tantomeno circoscritta alla cognizione di errores in procedendo o in iudicando eventualmente commessi dal giudice della prima fase, ma può investire anche diversi profili soggettivi (stante anche il possibile intervento di terzi), oggettivi (in ragione dell’ammissibilità di domande nuove, anche in via riconvenzionale, purché fondate sugli stessi fatti costitutivi) e procedimentali, essendo previsto che in detto giudizio possano essere dedotte circostanze di fatto ed allegati argomenti giuridici anche differenti da quelli già addotti e che si dia corso a prove ulteriori.
Il che, appunto, esclude che la fase oppositoria (nell’ambito del giudizio di primo grado) – in cui la cognizione si espande in ragione non solo del nuovo apporto probatorio, ma anche delle ulteriori considerazioni svolte dalle parti, quantomeno in sede di discussione e nelle eventuali note difensive – possa configurarsi come la riproduzione dell’identico itinerario logico decisionale già seguito per pervenire all’ordinanza opposta. La quale − in esito alla fase di opposizione − è destinata, comunque, ad essere assorbita nella statuizione definitiva che conclude il primo grado del giudizio: decisione, quest’ultima, che può ben condurre ad un esito differente (rispetto a quello dell’ordinanza opposta) in virtù del nuovo materiale probatorio apportato al processo e del suo ampliamento soggettivo od oggettivo (nei limiti consentiti), anche alla luce della pressoché totale assenza di preclusioni e decadenze per le parti nell’ambito della prima fase.
Le conclusioni alle quali perviene la Corte Costituzionale
Pertanto, il fatto che entrambe le fasi di detto unico grado del giudizio possano essere svolte dal medesimo magistrato non confligge con il principio di terzietà del giudice e si rivela, invece, funzionale all’attuazione del principio del giusto processo, per il profilo della sua ragionevole durata. E ciò a vantaggio anche, e soprattutto, del lavoratore, il quale, in virtù dell’effetto anticipatorio (potenzialmente idoneo anche ad acquisire carattere definitivo) dell’ordinanza che chiude la fase sommaria, può conseguire una immediata, o comunque più celere, tutela dei propri diritti, mentre la successiva, ed eventuale, fase a cognizione piena è volta a garantire alle parti, che non restino soddisfatte dal contenuto dell’ordinanza opposta, una pronuncia più pregnante e completa.
Il dictum della Corte
La Corte Costituzionale, riuniti i giudizi, dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 51, primo comma, numero 4), del codice di procedura civile, e 1, comma 51, della legge 28 giugno 2012, n. 92 (Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita), sollevata, dal Tribunale ordinario di Milano − sezione nona civile e dallo stesso Tribunale, sezione prima civile e sezione specializzata in materia di impresa, in riferimento agli artt. 24 e 111 della Costituzione, con le quattro ordinanze indicate in epigrafe, e, dal solo Tribunale di Milano − sezione nona civile, in riferimento anche all’art. 3 Cost.
Una breve riflessione
La sentenza della Corte Costituzionale costituisce il naturale epilogo del percorso interpretativo già segnato dalla sentenza della Suprema Corte di Cassazione – Sezioni Unite Civili – n.19674 del 18.9.2014 e n.3136 del 17.202015.
E possiamo ragionevolmente supporre che, sulla questione, risulti sopito ogni contrasto.
Se le sezioni unite della Suprema corte di cassazione, prima, e la Corte Costituzionale, adesso, hanno stabilito che la fase impugnatoria è una prosecuzione della prima e che, per tale motivo, non sussiste alcuna incompatibilità tra il giudice che ha deciso la fase sommaria rispetto a quello che potrebbe decidere la fase cd. di merito (sempre del giudizio di primo grado), nessuno sarà tentato, nel futuro, dal poter sostenere il contrario, non foss’altro perché l’attenta analisi e disamina operata dai giudici di piazza Cavour e dai giudici del Palazzo della Consulta non lascia spazio a soluzioni o prospettazioni alternative.
Eppure, se il ragionamento non fa una piega dal punto di vista giuridico, non possiamo non rilevare l’enorme numero di “voci” che si sono alzate contro il sospetto di imparzialità del giudice, voci alcune delle quali “qualificate” che hanno sollevato la questione tanto da portarla all’attenzione della Corte delle leggi.
Se, per un attimo, e solo a titolo di dibattito e di scambio di opinioni, ci sganciamo dal pur corretto percorso argomentativo offerto dai giudici della Suprema Corte e della Corte Costituzionale, non possiamo non rilevare, di contra, come sia davvero difficile che un giudice che abbia già espresso una opinione all’esito della fase sommaria, possa essere imparziale al pari di un altro giudice che non ha mai affrontato la questione.
La Corte Costituzionale, per fugare ogni dubbio ed allontanare il sospetto di imparzialità adombrato dai giudici remittenti, lancia un messaggio chiaro, ovverossia che si tratta di una fase in più, a tutela del lavoratore.
Il problema, però, è che, tranne le ipotesi (davvero non numerose) in cui nella prosecuzione del giudizio venga offerto una rinnovato o arricchito quadro probatorio, appare difficile che l’”imprinting” avuto dal giudice in occasione del “primo” esame, lo possa lasciare totalmente indifferente e realmente imparziale nella successiva fase. Che poi tale fase sia una “prosecuzione” piuttosto che una impugnazione vera e propria è questione più terminologica che sostanziale. Che il giudice possa farsi una prima idea sulla base di materiale “sommario” non sempre costituisce un vantaggio per il lavoratore, giacchè, ad avviso di chi scrive, potrebbe nascere, in capo al giudicante, una sorta di sano pregiudizio che sarà difficile superare nella successiva fase a cognizione piena, proprio in forza di quell’”imprinting” cui facevamo prima riferimento.
Quasi paradossalmente, potrebbe accadere che la “necessaria” esistenza di un accertamento sommario si riveli svantaggioso per il lavoratore tutte le volte in cui, a causa della sommarietà del rito stesso, egli non riesca a poter provare compiutamente i fatti ma, il giudice si sarà fatto una prima impressione che poi sarà difficile mutare nel prosieguo del giudizio.
Sul punto, la Corte Costituzionale precisa che nel processo civile non sono applicabili le regole, in tema di incompatibilità, relative al processo penale, ma così facendo non evidenzia che anche la “materia penale” è stata oggetto di ridefinizione da parte della Corte europea, a partire dalla interpretazione della portata del diritto ad un processo equo garantito dall’art. 6, il quale al § 1 limita siffatta garanzia alle controversie sui diritti e doveri di carattere civile e “sulla fondatezza di ogni accusa penale”.
Per la giurisprudenza europea, infatti, il concetto di “accusa penale” ha portata autonoma, indipendente dalle categorizzazioni utilizzate dagli ordinamenti giuridici nazionali degli Stati membri (Adolf c. Austria, § 30). L’“accusa” penale, nel senso della Convenzione, va intesa come la notifica ufficiale, promanante dall’autorità competente, della contestazione di un’infrazione penale, che può avere ripercussioni importanti sulla situazione dell’accusato (Deweer c. Belgio, §§ 42 e 46, e Eckle c. Germania, § 73).
La Corte europea, nel celebre caso Engel (Engel ed altri c. Paesi Bassi, §§ 82-83), ha enunciato i tre criteri di riconoscimento della natura penale di un determinato procedimento o di una determinata sanzione:
- la qualificazione (formale o sostanziale) del diritto interno;
- la natura dell’infrazione;
- la severità della pena.
Ciò tanto è vero che anche nei procedimenti disciplinari è stato rinvenuta la nozione di “accusa penale” in ragione delle conseguenze scaturenti dalla sanzione stessa (perdita del posto di lavoro).
Allora, alla luce di quanto sopra, non vi è dubbio che, una lettura comunitariamente orientata delle norme poste al vaglio della Corte Costituzionale, avrebbe dovuto, proprio valorizzando la nozione di accusa penale elaborata dai giudici europei, consigliare una riconsiderazione dell’istituto della astensione e ricusazione nella dedotta materia del licenziamento inducendo i giudici delle leggi, quanto meno limitatamente alla fattispecie del rito Fornero, a ritenere che, a cagione della gravità delle conseguenze che un licenziamento comporta, il giudice della fase successiva a quella sommaria non possa essere lo stesso giudice, persona fisica, che ha deciso la fase sommaria.
avv. Filippo Pagano (f.pagano@clouvell.com)
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