Nel ricorso per Cassazione il vizio della violazione e falsa applicazione di legge di cui all’art. 360, primo comma n. 3, cod. proc. civ., deve essere dedotto, a pena d’inammissibilità, mediante la specifica indicazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata che motivatamente si assumano in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina. In mancanza, non è consentito alla Corte di Cassazione di adempiere al proprio compito istituzionale di verificare il fondamento della denunziata violazione.
Lo ha ribadito la Suprema Corte di Cassazione – sezione terza civile – con sentenza n.11868 del 9 giugno 2015.
Il caso.
Con ricorso del gennaio 2007, un locatore ha chiesto al Tribunale di Foggia intimazione di sfratto per morosità nei confronti del conduttore, per mancato pagamento dei canoni di locazione relativi ai mesi di novembre e dicembre 2006 e degli aggiornamenti relativi agli anni precedenti, con contestuale citazione per la convalida, chiedendo la risoluzione del contratto di locazione per inadempimento.
Il conduttore ha resistito, chiedendo in via riconvenzionale la condanna del locatore alla restituzione di somme pagate in eccesso a titolo di canoni di locazione, per l’importo complessivo di 1.608,00.
Il Tribunale ha accolto le domande attrici, sul rilievo che, pur avendo il conduttore sanato la mora prima della notificazione della citazione per la convalida, il pagamento è avvenuto oltre venti giorni dopo la scadenza contrattuale. Ha ordinato il rilascio dell’immobile.
Proposto appello dal conduttore, con sentenza 21 ottobre 2011 n. 915, notificata il 14 dicembre 2011, la Corte di appello di Bari, in riforma della sentenza di primo grado, ha respinto la domanda di risoluzione ed ha condannato il locatore a pagare la somma di 1.343,49, oltre interessi e spese di causa.
Quest’ultimo propone quattro motivi di ricorso per cassazione.
Il ragionamento della Corte territoriale.
La Corte di appello ha respinto la domanda del locatore sul rilievo che il conduttore ha versato i canoni arretrati in parte prima della notificazione della citazione per la convalida dello sfratto ed in parte prima dell’iscrizione a ruolo della causa, sicché ha sanato la mora ai sensi dell’art. 55 legge 27 dicembre 1978 n. 392: norma applicabile al caso di specie, trattandosi di locazione abitativa.
Quanto alle somme dovute a titolo di aggiornamento dei canoni e di interessi, le ha ritenute compensate con il maggior credito del conduttore per l’avvenuto pagamento di somme superiori all’equo canone, quantificando il residuo credito in favore di lui nella somma sopra indicata di € 1.343,49, oltre interessi e spese di causa.
I motivi di ricorso.
Per la Suprema Corte, il primo e il secondo motivo di ricorso, che denunciano omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione su di un punto decisivo della controversia e violazione dell’art. 55 legge n. 392/1978, sono inammissibili per difetto di specificità, in quanto il ricorrente non chiarisce sotto quale profilo la citata norma debba ritenersi violata, né quali siano i vizi afferenti alla motivazione, che risulta invece ampia, articolata, logicamente e giuridicamente corretta.
Il principio di diritto al quale si rifà la Corte per decidere la controversia.
Per gli Ermellini, “nel ricorso per Cassazione il vizio della violazione e falsa applicazione di legge di cui all’art. 360, primo comma n. 3, cod. proc. civ., deve essere dedotto, a pena d’inammissibilità, mediante la specifica indicazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata che motivatamente si assumano in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina. In mancanza, non è consentito alla Corte di Cassazione di adempiere al proprio compito istituzionale di verificare il fondamento della denunziata violazione” (Cass. civ. Sez. 2, 12 febbraio 2004 n. 2707; Cass. civ. Sez. 1, 17 maggio 2006 n. 11501; Cass. civ. Sez. 3, 5 giugno 2007 n. 13066, fra le tante).
Perché il ricorso viene respinto.
E poiché nella vicenda in esame il ricorrente neppure specifica quale sia il fatto controverso e decisivo per il giudizio, in relazione al quale sarebbero prospettabili i dedotti vizi di motivazione, come prescritto dall’art. 360 n. 5 cod. proc. civ., nel testo applicabile alla fattispecie a seguito delle modificazioni introdotte dall’art. 2 d.lgs. 2 febbraio 2006 n. 40, dovendosi intendere per “fatto” non una “questione” o un “punto” della sentenza, ma un fatto vero e proprio e, quindi, un fatto principale, ex art. 2697 cod. civ., (cioè un fatto costitutivo, modificativo, impeditivo o estintivo), od anche un fatto secondario (cioè dedotto in funzione di prova di un fatto principale), purché controverso e decisivo (Cass. civ. 5 febbraio 2011 n. 2805; Cass. civ. 8 ottobre 2014 n. 21152), la Suprema Corte dichiara inammissibile le relative censure.
Una breve riflessione
La sentenza in rassegna è talmente lineare da apparire quasi priva di reale interesse per il giurista. Viceversa, essa riveste notevole importanza perché racchiude, esplicandolo, un principio davvero interessante, così come interessanti sono tutti i principi che la Suprema Corte esprime a proposito del contenuto del ricorso per cassazione.
Ed in sintesi il lettore non potrà non notare, leggendo la motivazione della sentenza in rassegna, come la Corte Suprema abbia “bacchettato” il ricorrente per non aver chiarito sotto quale profilo la norma citata debba ritenersi violata, né quali siano i vizi afferenti alla motivazione, che risulta invece ampia, articolata, logicamente e giuridicamente corretta.
Uno dei vizi deducibili in sede di legittimità è proprio il vizio della violazione e falsa applicazione di legge di cui all’art. 360, primo comma n. 3, cod. proc. civ..
La Suprema Corte chiarisce che tale vizio deve essere dedotto, a pena d’inammissibilità, mediante la specifica indicazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata che motivatamente si assumano in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina.
Diversamente – prosegue la Corte – non è consentito ai giudici di legittimità di adempiere al proprio compito istituzionale, ovverossia di verificare il fondamento della denunziata violazione.
Come dire, il ricorrente non può dolersi della erronea o falsa applicazione di una norma e limitarsi ad indicarla, ma deve, a pena di inammissibilità, indicare ed evidenziare il contrasto tra la motivazione in diritto della sentenza gravata e l’orientamento giurisprudenziale e dottrinale per così dire “violato”.
Affermazione, quella della Corte Suprema, tanto semplice quanto profonda, perchè in effetti, ciò che essa “insegna” sembra quasi scontato tanto da apparire come superfluo in una sentenza, per di più, della Corte di legittimità.
Ma se si leggono simili sentenze, ciò significa che quel principio, in effetti, non è poi di così facile applicazione. A volte, infatti, individuare con sufficiente margine di precisione il contrasto tra la motivazione in diritto della sentenza ed una (diversa) esegesi che di quella norma viene fatta dalla giurisprudenza o dalla dottrina non è poi operazione “tecnica” semplice. Ed è per questo motivo che, a volte, si può incappare in una censura di inammissibilità del dedotto profilo.
E ciò soprattutto può accadere quando la motivazione della sentenza impugnata sia “avara” di motivazione e non consenta una facile lettura delle ragioni in diritto ivi contenute.
Insomma, il principio ribadito dalla sentenza è chiaro, anzi chiarissimo. Ma presupporrebbe che anche il contenuto della sentenza gravata si chiarissimo. E, purtroppo, non è sempre così.
avv. Filippo Pagano (f.pagano@clouvell.com)
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