Il limite rappresentato dalla pena complessiva inflitta in sede di cognizione da ciascuna singola sentenza per tutti i fatti dalla stessa giudicati, destinati ad assumere il ruolo di reati satellite nella nuova rideterminazione del trattamento sanzionatorio globale, operata in sede esecutiva ex art. 81 capoverso cod. pen. con riguardo alle violazioni giudicate con più sentenze irrevocabili di condanna, non possa essere in ogni caso superato dal giudice dell’esecuzione investito della richiesta formulata dall’interessato ai sensi dell’art. 671 cod. proc. pen., per la decisiva ragione che la natura di istituto favorevole al reo della disciplina della continuazione può giustificare il superamento in executivis del giudicato sulla misura della pena irrogata da ogni singola sentenza, soltanto a vantaggio, e non in pregiudizio, del condannato, al quale è in definitiva demandata l’individuazione dei titoli di condanna relativi ai reati che egli ha interesse a includere nella richiesta di riconoscimento della continuazione, sulla base di una valutazione fondata sulla legittima aspettativa dell’intangibilità – in peius – del giudicato formatosi sul trattamento sanzionatorio inflitto in forza delle sentenze di condanna in concreto sottoposte al vaglio del giudice dell’esecuzione.
Lo ha stabilito la Suprema Corte di cassazione, con sentenza n. 19593 del 28 gennaio 2015
Il caso
Con ordinanza del 13 novembre 2013, la corte di appello di Potenza, in funzione di giudice dell’esecuzione, accoglieva l’istanza presentata da (Omissis), diretta ad ottenere l’applicazione della disciplina del reato continuato in executivis, in relazione a quattro sentenze.
Richiamati i principi enunciati in tema di continuazione dalla giurisprudenza di legittimità, ravvisata tra tutti i fatti l’identità del disegno criminoso, la citata corte riteneva violazione più grave quella giudicata con la quarta sentenza con cui era stata inflitta la pena di anni tre e mesi otto di reclusione ed euro 800 di multa e, sull’assunto dell’irrilevanza del trattamento sanzionatorio originariamente previsto per i cosiddetti reati satellite, procedeva ad una nuova determinazione degli aumenti per la continuazione aumentando la pena di anni uno e mesi sei di reclusione ed euro 400 di multa “per ciascuno dei quattro episodi (uno interno già riconosciuto nella sentenza del 20 gennaio 2012 e tre esterni)” in relazione alle sentenze residue. Determinava quindi la pena in anni sei mesi sei di reclusione ed euro 1733,33 di multa.
Perché l’imputato propone ricorso.
Avverso tale pronuncia hanno proposto ricorso l’imputato, a mezzo del difensore di fiducia, ed il Procuratore generale della Repubblica di Potenza denunciando violazione di legge per avere il giudice dell’esecuzione violato il disposto dell’art. 671, comma 2, codice di rito irrogando una pena maggiore della somma di quelle inflitte con ciascuna delle sentenze di condanna esaminate, senza motivare in relazione agli aumenti applicati a titolo di continuazione.
Anche il procuratore generale della Repubblica di Potenza deduceva la violazione dell’art. 671, comma 2, codice di rito negli stessi termini del difensore della condannata. La corte accoglie i ricorsi.
Per gli Ermellini, funzione della continuazione è quella di mitigare la pena inflitta con separate sentenze essendosi ritenuta meritevole di più benevolo trattamento sanzionatorio la minore capacità a delinquere di chi si determina a commettere gli illeciti in forza di un singolo impulso, anziché di spinte criminose indipendenti e reiterate.
Riconoscimento del vincolo della continuazione in sede di esecuzione e divieto di reformatio in pejus
Prosegue la Suprema Corte affermando che, coerentemente la norma che ha riconosciuto l’applicabilità della continuazione anche in sede esecutiva, laddove la stessa non sia stata esclusa dal giudice della cognizione, pone come limite che la pena che consegue dall’applicazione della continuazione in executivis non sia “superiore alla somma di quelle inflitte con ciascuna sentenza”.
Il principio di diritto richiamato dalla Corte di legittimità.
La suprema Corte si rifa al principio secondo cui “il limite rappresentato dalla pena complessiva inflitta in sede di cognizione da ciascuna singola sentenza per tutti i fatti dalla stessa giudicati, destinati ad assumere il ruolo di reati satellite nella nuova rideterminazione del trattamento sanzionatorio globale, operata in sede esecutiva ex art. 81 capoverso cod. pen. con riguardo alle violazioni giudicate con più sentenze irrevocabili di condanna, non possa essere in ogni caso superato dal giudice dell’esecuzione investito della richiesta formulata dall’interessato ai sensi dell’art. 671 cod. proc. pen., per la decisiva ragione che la natura di istituto favorevole al reo della disciplina della continuazione può giustificare il superamento in executivis del giudicato sulla misura della pena irrogata da ogni singola sentenza, soltanto a vantaggio, e non in pregiudizio, del condannato, al quale è in definitiva demandata l’individuazione dei titoli di condanna relativi ai reati che egli ha interesse a includere nella richiesta di riconoscimento della continuazione, sulla base di una valutazione fondata sulla legittima aspettativa dell’intangibilità – in peius – del giudicato formatosi sul trattamento sanzionatorio inflitto in forza delle sentenze di condanna in concreto sottoposte al vaglio del giudice dell’esecuzione” (Sez. 1, Sentenza n. 44240 del 2014).
Perché la Corte territoriale ha errato.
Per la Suprema corte, “l’applicazione di questi incontroversi principi al caso di specie dimostra l’errore in cui è incorsa la Corte di appello di Potenza, avendo applicato autonomi aumenti in continuazione relativamente a sentenze per cui la continuazione era stata già riconosciuta e valutata dal giudice della cognizione nella determinazione della pena finale, e così giungendo ad un risultato pregiudizievole per il condannato in violazione della regola di cui all’art. 671, comma 2, cod. proc. pen. perché, a fronte di una pena complessiva, derivante dalla sommatoria materiale delle pene irrogate con ciascuna sentenza, pari ad anni cinque e mesi otto di reclusione ed euro 1500 di multa, ha irrogato una pena superiore a detta sommatoria”.
Una breve riflessione
La vicenda processuale oggetto di esame da parte della Suprema Corte è davvero singolare.
Un imputato chiedeva, in sede di esecuzione, il riconoscimento del vincolo della continuazione tra quattro sentenze di condanna che lo riguardavano ed il giudice, nell’accogliere l’istanza, rideterminava la pena in maniera tale che la pena complessivamente irrogata (a seguito del riconoscimento del vincolo) fosse addirittura superiore alla somma delle condanne inflitte con ciascuna sentenza.
Il giudice dell’esecuzione rideterminava la pena seguendo la lettera del codice (quanto alla determinazione della pena per il reato più grave ed agli aumenti per ciascun reato satellite), ma il risultato finale era che la pena complessivamente irrogata (a seguito della rideterminazione) fosse addirittura superiore alla somma delle condanne per cui era stata richiesto ed ottenuto il riconoscimento del vincolo della continuazione.
Come dire, l’imputato chiedeva il riconoscimento per avere una riduzione della pena complessivamente inflitta ma, ironia della sorte, l’istanza veniva sì accolta però con una sostanziale reformatio in peius del complessivo trattamento sanzionatorio.
Ed è proprio rispetto a tale profilo che la Suprema Corte censura l’operato del giudice dell’esecuzione, avendo la Corte territoriale vanificato la legittima aspettativa del condannato all’intangibilità – in peius – del giudicato formatosi sul trattamento sanzionatorio inflitto in forza delle sentenze di condanna in concreto sottoposte al vaglio del giudice dell’esecuzione.
Il particolare curioso è che il giudice dell’esecuzione ha accolto l’istanza ed ha seguito alla lettera la legge ma, ciononostante, l’ha violata. Anzi, ha violato un principio immanente al sistema penale, ovverossia quello del divieto di reformatio in peius della sentenza di condanna e, più in generale, del complessivo trattamento sanzionatorio irrogato.
Possiamo pertanto concludere che, se è vero che il giudice è soggetto soltanto alla legge (art. 101 comma 2° Cost.), è altrettanto vero che vi sono dei principi, in ogni campo del diritto, così come nel diritto penale, che non possono mai essere sacrificati. Il principio di cui all’articolo 101 della Carta Costituzionale presuppone che la legge, che il giudice deve osservare, sia costituzionalmente legittima e comunque si ponga in linea con i precetti comunitari e costituzionali.
Gacchè la norma che disciplina le modalità di determinazione della pena nel caso di riconoscimento del vincolo della continuazione in sede di esecuzione non è costituzionalmente illegittima, ma non può essere applicata allorquando, attraverso la sua puntuale e letterale applicazione, vengano violati altri principi universalmente riconosciuti. Come quello, appunto, del divieto di reformatio in peius.
avv. Filippo Pagano (f.pagano@clouvell.com)
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