Alla prova della non conoscenza del procedimento – che in precedenza doveva essere fornita dal condannato – l’art. 175 del codice di procedura penale novellato ha chiaramente sostituito una sorta di presunzione iuris tantum di non conoscenza, ponendo “a carico” del giudice l’onere di reperire negli atti l’eventuale dimostrazione del contrario, ovvero, più in generale, l’onere di accertare che il condannato avesse avuto effettivamente conoscenza del procedimento e avesse volontariamente e consapevolmente rinunziato a comparire.
Lo ha stabilito la Suprema Corte di Cassazione con sentenza n. 20526 del 18 maggio 2015
Il caso
Una donna condannata con sentenza irrevocabile, avanzava richiesta ex art. 670 c.p.p. volta in via principale a far dichiarare l’invalidità della notifica della sentenza di condanna emessa nei suoi confronti e non esecutivo quindi il titolo; in subordine ad ottenere la restituzione nel termine per impugnare.
Il Tribunale, adito quale giudice dell’esecuzione, rilevava che la condannata era stata arrestata in flagranza del reato di rapina, l’arresto era stato convalidato anche se non era seguita l’applicazione di misura, e in sede di convalida la donna aveva eletto domicilio presso il difensore di ufficio nominatole, presente, con l’assistenza di interprete che le aveva spiegato i suoi diritti, le sue facoltà e le conseguenze del relativo esercizio, oltre che la natura e il contenuto dell’accusa.
Pertanto, considerato che le notifiche a seguire effettuate nei suoi confronti, compresa quella relativa all’estratto contumaciale, erano state tutte ritualmente effettuate al difensore domiciliatario, secondo il Tribunale non ricorreva il presupposto dell’invalidità della notifica della sentenza per ritenere la non esecutività del titolo. E che, parimenti, per le stesse ragioni, non sussistevano i presupposti per disporre la chiesta restituzione nel termine per impugnare. Pertanto, con ordinanza, rigetta in toto l’istanza della condannata. Da qui il ricorso per cassazione.
I motivi di ricorso
La condannata si duole
- della mancanza di motivazione in ordine al rigetto della questione sulla formazione di valido titolo esecutivo, in presenza di notificazioni inidonee a dimostrare l’effettiva conoscenza, per atti formali, del processo in capo all’imputata, non potendo la stessa desumersi dalle informazioni ricevute relative alla sola fase procedimentale iniziale, delle indagini;
- della violazione degli artt. 161, 157, comma 2, e 548, comma 3, cod. proc. pen., e vizi di motivazione, in relazione all’interpretazione accolta dell’istituto della restituzione in termini che, diversamente da quanto sostenuto, postula la presunzione di non effettiva conoscenza in capo al contumace.
La Suprema Corte rigetta il primo motivo di ricorso ed accoglie il secondo.
Quanto al primo motivo, la Suprema Corte rileva che la notifica dell’estratto contumaciale risultava valida sotto ogni aspetto, perché ritualmente effettuata a mani del difensore presso cui l’imputata aveva eletto domicilio e perché tale elezione doveva ritenersi formalmente valida essendo stata accompagnata dalla esplicazione, ad opera dell’interprete, del significato dell’atto, alla presenza dello stesso difensore indicato quale domiciliatario.
Quanto, invece, al secondo motivo, secondo gli Ermellini, le relative censure sono fondate.
La presunzione di incolpevole mancanza di conoscenza del processo.
Secondo la Suprema Corte, il Tribunale ha ritenuto che l’arresto in flagranza, l’udienza di convalida tenuta con l’assistenza di interprete, unitamente alla elezione di domicilio presso il difensore di ufficio presente, bastassero a vincere la presunzione di incolpevole mancanza di conoscenza del processo, poiché nella situazione data sarebbe stato onere dell’imputata mantenere i contatti con il difensore di ufficio, domiciliatario.
La corretta interpretazione dell’articolo 175 c.p.p.
Per gli Ermellini, all’origine della novella che aveva modificato l’art. 175 cod. proc. pen., applicabile ratione temporis alla vicenda processuale in esame, v’era la necessità di rimediare a quello che la Corte di Strasburgo aveva individuato come un “difetto strutturale” del sistema italiano, e cioè all’assenza di un meccanismo capace di porre rimedio alla situazione di colui che, a fronte di una mera presunzione legale di conoscenza, non poteva ritenersi avesse effettivamente, consapevolmente e volontariamente, rinunciato a comparire o a richiedere un giudizio di seconda istanza.
Il caso Sejdovic e l’invito della CEDU allo Stato Italiano.
La Suprema Corte ricorda, “a fini interpretativi, il fatto che il caso che diede occasione al perentorio invito rivolto con la sentenza Sejdovic (notificata il 10.10.2004) allo Stato italiano, di «garantire, con misure appropriate, la messa in opera del diritto» ad un equo processo non solo per quel particolare ricorrente, ma per tutte le persone fossero venute a trovarsi «in una situazione simile alla sua», concerneva un soggetto (il Sejdovic per l’appunto) che era stato ritualmente dichiarato latitante secondo l’ordinamento interno, per essersi volontariamente sottratto alla cattura: cosa che tuttavia non bastava, stando alle regole CEDU, a giustificare l’irrevocabilità della decisione, perché siffatta situazione non comportava in maniera non equivoca che l’imputato, pur potendo avere consapevolezza che lo si cercava per il delitto commesso, avesse altresì inteso rinunziare alle facoltà connesse all’effettivo esercizio del suo diritto di difesa nel successivo procedimento instaurato a suo carico”.
“Conoscenza effettiva” del procedimento e rinunzia “consapevole” del diritto a parteciparvi.
Per i giudici di Piazza Cavour, d’altro canto “conoscenza effettiva” del procedimento e rinunzia “consapevole” del diritto a parteciparvi, non possono, per consolidate elaborazioni sia a livello comunitario che a livello interno, essere riferite a fasi, meramente preprocessuali, quali quelle delle indagini di polizia o preliminari.
La conoscenza “effettiva” secondo l’interpretazione della CEDU.
Secondo la giurisprudenza CEDU la conoscenza “effettiva” del procedimento presuppone un atto formale di contestazione idoneo ad informare l’accusato della natura e dei motivi dell’accusa elevata a suo carico, al fine di consentirgli di difendersi nel “merito”.
Come viene assicurata, nell’ordinamento interno, la conoscenza effettiva del procedimento.
Per gli Ermellini, siffatta esigenza è assicurata dall’ordinamento interno dalla vocatio in iudícium, preceduta dall’avviso dell’art. 415-bis c.p.p. ove non si sia fatto ricorso a riti speciali e perciò “accelerati”. E sempre al giudizio sul merito dell’accusa è riferibile il diritto a partecipare e difendersi personalmente cui si contrappone la rinunzia a “comparire” di cui parla la norma in esame, giacché, perché s’abbia rinunzia occorre che vi sia diritto o altra situazione soggettiva azionabile, mentre nella fase prodromica alla formulazione dell’accusa in vista dell’esercizio dell’azione penale l’accusato può chiedere d’essere sentito, non reclamarne il diritto.
Perché la Corte Suprema accoglie il ricorso.
Per gli Ermellini, nella fattispecie al loro esame, all’esito dell’udienza di convalida la ricorrente era stata liberata, motivo per cui la consapevole rinuncia a partecipare al procedimento a suo carico non poteva comunque discendere da presunzioni basate sull’attribuzione all’imputata della capacità di prevedere che, nonostante il rigetto della richiesta del pubblico ministero di misura cautelare, le indagini a suo carico si sarebbero sviluppate in processo; né da presunzioni sul fatto che la sua elezione di domicilio presso il difensore di ufficio implicava anche il mantenimento in futuro di un qualche rapporto personale con esso e la volontà di non difendersi personalmente nel processo.
Il provvedimento impugnato, sul punto del rigetto della istanza di restituzione nel termine, avrebbe operato una riduzione “interpretativa” della portata della norma non consentita.
Il principio di diritto e la ratio della nuova formulazione dell’articolo 175 c.p.p.
Per la Suprema Corte “alla prova della non conoscenza del procedimento – che in precedenza doveva essere fornita dal condannato – l’art. 175 novellato ha chiaramente sostituito una sorta di presunzione iuris tantum di non conoscenza (Sez. 6, Sentenza n. 23549 del 09/05/2006, Kera), ponendo perciò “a carico” del giudice l’onere di reperire negli atti l’eventuale dimostrazione del contrario (in tal senso, sostanzialmente: Sez. 1, 21.2.2006, Halilovic, rv. 233515; Sez. 1, 2.2.2006, Russo, rv. 233137) ovvero, più in generale, l’onere di accertare che il condannato avesse avuto effettivamente conoscenza del procedimento e avesse volontariamente e consapevolmente rinunziato a comparire (tra molte: Sez. 1, 6.4.2006, Latovic; Sez. 3, n. 17761 del 12.4.2006, Ricci; Sez. 2, n. 15903 del 14/02/2006, Ahemed).
Conclusioni
Conclude la Corte affermando che “solo un valido, reale, rapporto fiduciario di difesa avrebbe potuto far presumere una reale “conoscenza” in capo all’imputato delle notificazioni effettuate a mani del suo legale (sul punto vedi, tra molte, Sez. 1, Sentenza n. 28619 del 25/05/2006, Filipi; Sez. 1, Sentenza n. 19127 del 16/05/2006, Gdoura; Sez. 5, Sentenza n. 25618 del 23/05/2006, Mosele), mentre, in assenza di elementi seri e conducenti in ordine a detta effettiva conoscenza, la colpa della situazione che avrebbe generato la mancanza di conoscenza, seppure dovesse ammettersi esistente, non assume rilievo”.
Una breve riflessione
La sentenza in evidenza è molto interessante perché afferma un principio in favore del condannato ed offre una lettura garantista, ribaltando quello che, sotto il vigore della norma nella precedente formulazione, era l’interpretazione seguita.
In tale ottica appare molto significativo che, sulla base della norma ex art. 175 c.p.p., venga posta una presunzione, juris tantum, di non conoscenza, mentre, per converso, viene posto “a carico” del giudice l’onere di reperire negli atti l’eventuale dimostrazione del contrario.
Dunque, non deve essere il condannato a dover fornire la prova di non aver avuto conoscenza essendo sufficiente solo che lui lo dichiari; deve essere il giudice, sulla base degli elementi processuali a lui disponibili dimostrare il contrario e quindi vincere la presunzione (relativa).
Ed è proprio quel che si è verificato nella vicenda in esame.
Difatti, <<solo un valido, reale, rapporto fiduciario di difesa avrebbe potuto far presumere una reale “conoscenza” in capo all’imputato delle notificazioni effettuate a mani del suo legale >>, né, osserva la Corte, depone in senso contrario la sussistenza di una colpa in capo al condannato “che avrebbe generato la mancanza di conoscenza”.
Come dire, non rileva la eventuale colpa; rileva la circostanza che agli atti del processo manchino elementi tali da far ritenere una reale conoscenza, in capo all’imputato, delle notificazioni effettuate.
Da ultimo occorre però rilevare come tale interpretazione risulti disallineata rispetto al dato testuale dell’articolo 625-ter del codice di procedura penale rubricato “rescissione del giudicato” a mente del quale “il condannato o il sottoposto a misura di sicurezza con sentenza passata in giudicato, nei cui confronti si sia proceduto in assenza per tutta la durata del processo, può chiedere la rescissione del giudicato qualora provi che l’assenza è stata dovuta ad una incolpevole mancata conoscenza della celebrazione del processo”.
Difatti, il dato normativo, stando al suo tenore letterale, richiede l’assenza di colpa. Viceversa, nel caso trattato dalla Suprema Corte, la sussistenza di eventuale colpa non rileverebbe ai fini della restituzione nel termine.
Vero è che ci troviamo di fronte a due istituti diversi (l’uno la rescissione del giudicato e l’altro la restituzione nei termini), ma non vi è dubbio che la interpretazione offerta dalla Suprema Corte, in aderenza alle “prescrizioni” della Corte di Strasburgo, contrasti e non poco con una norma di diritto interno sulla quale, a questo punto, possono sollevarsi seri dubbi di costituzionalità.
avv. Filippo Pagano (f.pagano@clouvell.com)
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