L’art. 2051 cod. civ., nel qualificare responsabile chi ha in custodia la cosa per i danni da questa cagionati, individua un criterio di imputazione della responsabilità che prescinde da qualunque connotato di colpa, sicché incombe al danneggiato allegare, dandone la prova, il rapporto causale tra la cosa e l’evento dannoso, indipendentemente dalla pericolosità o meno o dalle caratteristiche intrinseche della prima; il caso fortuito, rappresentato da fatto naturale o del terzo, è connotato da imprevedibilità ed inevitabilità, da intendersi però da un punto di vista oggettivo e della regolarità causale (o della causalità adeguata), senza alcuna rilevanza della diligenza o meno del custode: quando è rappresentato dalla condotta del danneggiato, è connotato dall’esclusiva efficienza causale nella produzione dell’evento e non occorre che essa sia eccezionale o imprevedibile; a tal fine, deve essere valutata tenendo anche conto del dovere generale di ragionevole cautela riconducibile al principio di solidarietà espresso dall’art. 2 Cost.
Lo ha stabilito la Suprema Corte di Cassazione – sezione terza civile – con ordinanza n. 9640 depositata il 19 aprile 2018
Il caso
Un soggetto danneggiato evocò in giudizio l’Amministrazione comunale chiedendo che, in qualità di custode di un parco locale, fosse condannata al risarcimento dei danni da lui subiti a seguito di una caduta a terra verificatasi mentre praticava la corsa sportiva all’interno dell’area verde ed era inciampato su un irrigatore non funzionante, reso invisibile dall’erba.
Il Tribunale respinse la domanda.
La Corte d’Appello di Perugia ha rigettato l’impugnazione. Da qui il ricorso per cassazione.
I motivi di ricorso
1. Con il primo motivo, il ricorrente deducendo, ex art. 360 n° 3 cpc, la violazione e falsa applicazione degli artt. 113 cpc e 2051 c.c, lamenta che la Corte territoriale, mal interpretando le norme richiamate, aveva escluso la colpa dell’ente locale in totale assenza della prova del caso fortuito da ascrivere alla sua condotta: assume che attraverso le prove raccolte era stato dimostrato che l’irrigatore sul quale era inciampato non era visibile perché non in funzione, rimasto nascosto dall’erba malgrado fosse fuori della sua sede, non segnalato e, soprattutto, che non sussisteva alcun divieto di praticare la corsa sul prato.
2. Con il secondo motivo, ex art. 360 n° 5 cpc , il ricorrente si duole dell’omesso esame di fatti decisivi per l’affermazione della responsabilità del Comune, e cioè la destinazione del prato e la posizione dell’irrigatore, fuori dell’alloggiamento, nonché quella in cui egli si trovava al momento dell’incidente.
L’orientamento della Suprema Corte.
Gli Ermellini ricordano che, con orientamento ormai consolidato, ”l’art. 2051 onera il danneggiato di provare il nesso causale tra la cosa in custodia e danno, ossia di dimostrare che l’evento si è prodotto come conseguenza normale della particolare condizione, potenzialmente lesiva, posseduta dalla cosa, mentre resta a carico del custode, offrire la prova contraria alla presunzione “iuris tantum” della sua responsabilità, mediante la dimostrazione positiva del caso fortuito, cioè del fatto estraneo alla sua sfera di custodia, avente impulso causale autonomo, idoneo ad escluderla”.
I giudici di Piazza Cavour evidenziano inoltre che “il caso fortuito può essere integrato dalla stessa condotta del danneggiato (che abbia usato un bene senza la normale diligenza o con affidamento soggettivo anomalo) quando essa si sovrapponga alla cosa al punto da farla recedere a mera occasione o ‘teatro’ della vicenda produttiva di danno, assumendo efficacia causale autonoma e sufficiente per la determinazione dell’evento lesivo, così da escludere qualunque rilevanza alla situazione preesistente.”(cfr. Cass. 2478/2018; Cass. 2481/2018; Cass. 2480/2018; Cass. 2482/2018).
Tuttavia, riguardo al caso in esame, i giudici di legittimità rilevano come la sentenza impugnata, da un lato, ha dato incongruamente rilievo alla condotta del custode, per escluderne la colpa e la responsabilità (pag. 3 sentenza: “in un prato di un parco le attività che non si possono compiere sono molteplici e sarebbe assurdo onerare l’ente gestore di elencare ciò che non si può fare in un prato e ciò che non si deve”) e, d’altro canto, ha omesso di valutare un fatto decisivo e cioè la destinazione del prato, se non alla corsa, almeno ad essere calpestato; tale circostanza è, infatti, decisiva ai fini della possibilità di configurare o meno la condotta dell’attore quale causa autonoma ed adeguata dell’evento.
Da qui l’accoglimento di entrambi i motivi di ricorso, la cassazione della sentenza impugnata con rinvio alla Corte di appello territoriale in diversa composizione che, nel riesaminare la controversia, dovrà attenersi al seguente
Principio di diritto
“l’art. 2051 cod. civ., nel qualificare responsabile chi ha in custodia la cosa per i danni da questa cagionati, individua un criterio di imputazione della responsabilità che prescinde da qualunque connotato di colpa, sicché incombe al danneggiato allegare, dandone la prova, il rapporto causale tra la cosa e l’evento dannoso, indipendentemente dalla pericolosità o meno o dalle caratteristiche intrinseche della prima; il caso fortuito, rappresentato da fatto naturale o del terzo, è connotato da imprevedibilità ed inevitabilità, da intendersi però da un punto di vista oggettivo e della regolarità causale (o della causalità adeguata), senza alcuna rilevanza della diligenza o meno del custode: quando è rappresentato dalla condotta del danneggiato, è connotato dall’esclusiva efficienza causale nella produzione dell’evento e non occorre che essa sia eccezionale o imprevedibile; a tal fine, deve essere valutata tenendo anche conto del dovere generale di ragionevole cautela riconducibile al principio di solidarietà espresso dall’art. 2 Cost.”.
Una breve riflessione.
La sentenza impugnata si pone nel solco di un orientamento che ormai può dirsi consolidato anche se essa supera il tradizionale criterio della colpa nella imputazione della responsabilità.
In proposito basterà fare riferimento alla nota sentenza della Corte di Cassazione, Sez. III, 6 luglio 2006, n. 15383 secondo cui “ai fini della causalità materiale nell’ambito della responsabilità aquiliana la giurisprudenza e la dottrina prevalenti fanno applicazione dei principi penalistici di cui agli artt. 40 e 41 c.p. Pertanto un evento dannoso è da considerare causato da un altro se, ferme restando le altre condizioni, il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo (c.d. teoria della condicio sine qua non): ma nel contempo non è sufficiente tale relazione causale per determinare una causalità giuridicamente rilevante, dovendosi, all’interno delle serie causali così determinate, dare rilievo a quelle soltanto che, nel momento in cui si produce l’evento causante non appaiono inverosimili (c.d. teoria della causalità adeguata o della regolarità causale”: Cass. 16/12/2004, n. 2343; Cass. 26/03/2004, n. 6071; Cass. 3/12/2002, n. 17152; Cass. 29/07/2004, n. 14488; Cass. 19/08/2003, n. 12124; Cass. 22/10/2003, n. 15789; Cass. 15/01/2003, n. 484).
Secondo tale teoria della causalità adeguata, elaborata dalla dottrina tedesca (e sostanzialmente anche secondo la variante italiana della cosiddetta teoria della causalità umana) per l’imputazione oggettiva dell’evento occorrono due presupposti: uno positivo (la raffigurazione della condotta dell’agente come condizione necessaria) ed uno negativo, cioè la mancanza di fattori esterni eccezionali, da valutarsi non ex post, ma ex ante.
Detta causalità adeguata (nella sua tradizionale formulazione “positiva”) comporta che la rilevanza giuridica della “condicio sine qua non” è commisurata all’incremento, da essa prodotto, dell’obiettiva possibilità di un evento del tipo di quello effettivamente verificatosi.
Senonché, una volta ritenuto che nella responsabilità aquiliana, il nesso di causalità materiale è regolato dalle norme penalistiche, non può poi decamparsi da esse allorché si tratti del caso fortuito, previsto dall’art. 45 c.p., che esclude la punibilità di “chi ha commesso il fatto per caso fortuito o forza maggiore”.
La dottrina e la giurisprudenza penalistiche tradizionali ritenevano che il caso fortuito presupponesse il nesso causale e che esso operasse nell’ambito della colpevolezza, quale causa di esclusione della stessa (ed in questi termini sembra muoversi anche la suddetta sentenza civile n. 3651/06). Sennonché, da oltre quarant’anni, la dottrina penalistica dominante ritiene che il fortuito costituisca una causa di esclusione del nesso causale in quanto l’art. 45 c.p., nel far seguire al verbo “ha commesso” la preposizione “per”, sta ad indicare “a causa di”.
In ogni caso la suddetta dottrina rileva, in modo pienamente condivisibile, che solo la concezione del fortuito come esclusione del nesso causale si coordina con il precedente art. 41 cpv. c.p., secondo cui le cause sopravvenute escludono il rapporto di causalità, quando sono state da sole sufficienti a determinare l’evento e soprattutto con il principio di regolarità causale o causalità adeguata.
Infatti, la considerazione oggettiva del fortuito, inteso come avvenimento obbiettivamente non prevedibile come verisimile, è l’unica compatibile con la teoria della causalità adeguata.
Sotto il profilo eziologico, il caso fortuito svolge a monte la stessa funzione che la “causalità adeguata” svolge a valle relativamente all’evento, ma pur sempre nell’ambito dell’elemento materiale e non in quello soggettivo: esclusione dell’imputabilità per imprevedibilità ed inevitabilità oggettiva (nel primo caso del fatto causante, nel secondo dell’evento causato).
In un sistema in cui il nesso causale tra il fatto e l’evento svolge un ruolo centrale, diventa fondamentale accertare se l’evento eziologicamente derivi in tutto o in parte dal comportamento dello stesso danneggiato, valutandone, quindi, l’eventuale apporto causale.
Come sopra detto, l’interruzione del nesso di causalità può essere anche l’effetto del comportamento sopravvenuto dello stesso danneggiato, quando il fatto di costui si ponga come unica ed esclusiva causa dell’evento di danno, sì da privare dell’efficienza causale e da rendere giuridicamente irrilevante il precedente comportamento dell’autore dell’illecito (cfr. Cass. 8.7.1998, n. 6640; Cass. 7 aprile 1988, n. 2737).
Un corollario di detto principio è la regola posta dall’art. 1227 c.c., comma 1, il quale nel contempo dà base normativa al suddetto principio, presupponendolo. Tale norma prevede la riduzione del risarcimento in presenza della colpa del danneggiato: essa è un approdo dei codici moderni.
In passato, invece, l’accertamento di una concorrente colpa del danneggiato faceva venir meno la responsabilità del danneggiante, tranne che sussistesse il dolo di costui.
Nei sistemi di common law si parlava di contributory negligence, contributory negligence ed attualmente di comparative negligence.
Secondo la dottrina classica, nel nostro ordinamento esisterebbe un principio di autoresponsabilità, segnatamente previsto dall’art. 1227 c.c., comma 1, oltre che da altre norme, che imporrebbe ai potenziali danneggiati doveri di attenzione e diligenza.
L’autoresponsabilità costituirebbe un mezzo per indurre anche gli eventuali danneggiati a contribuire, insieme con gli eventuali responsabili, alla prevenzione dei danni che potrebbero colpirli.
Senza entrare nella questione dell’esistenza nel nostro ordinamento del detto principio di autoresponsabilità, va solo rilevato che la dottrina più recente, condivisa dalla Suprema Corte, ha abbandonato l’idea che la regola di cui all’art. 1227 c.c., comma 1, sia espressione del principio di autoresponsabilità, ravvisandosi piuttosto un corollario del principio della causalità, per cui al danneggiante non può far carico quella parte di danno che non è a lui causalmente imputabile.
Pertanto la colpa, cui fa riferimento l’art. 1227 c.c., va intesa non nel senso di criterio di imputazione del fatto (perché il soggetto che danneggia se stesso non compie un atto illecito di cui all’art. 2043 c.c.), bensì come requisito legale della rilevanza causale del fatto del danneggiato.
La regola di cui all’art. 1227 c.c. va inquadrata esclusivamente nell’ambito del rapporto causale ed è espressione del principio che esclude la possibilità di considerare danno risarcibile quello che ciascuno procura a sè stesso (Cass. civ. 26/04/1994, n. 3957; Cass. 08/05/2003, n. 6988).
La colpa, cui fa riferimento l’art. 1227 c.c., va intesa non nel senso di criterio di imputazione del fatto (perché il soggetto che danneggia se stesso non compie un atto illecito di cui all’art. 2043 c.c.), bensì come requisito legale della rilevanza causale del fatto del danneggiato.
Proprio perché è rimasta superata la teoria del principio di autoresponsabilità del danneggiato, la colpevolezza del comportamento del creditore-danneggiato, pur richiesta dall’art. 1227 c.c. , comma 1, è l’unico elemento di selezione dei vari possibili comportamenti – eziologicamente idonei – del danneggiato, qualunque possa essere l’interpretazione dell’obbligo giuridico, cui si richiama l’art. 41 c.p.c. , comma 2, allorché il danno trovi la sua causa nel comportamento omissivo di altro soggetto.
Così ristretta nella funzione la portata della colpa del creditore-danneggiato, stante la genericità dell’art. 1227 c.c., comma 1, sul punto, la colpa sussiste non solo in ipotesi di violazione da parte del creditore-danneggiato di un obbligo giuridico, ma anche nella violazione della norma comportamentale di diligenza, sotto il profilo della colpa generica.
Se tanto avviene in caso di concorso del comportamento colposo del danneggiato nella produzione del danno, tenuto conto di quanto sopra esposto su detto istituto, per eguale ragione il comportamento commissivo o omissivo colposo del danneggiato, che sia sufficiente da solo a determinare l’evento, esclude il rapporto di causalità delle cause precedenti.
In questa ottica, la diligenza del comportamento dell’utente del bene di cui altri assume la custodia, e segnatamente del parco, va valutata anche in relazione all’affidamento che era ragionevole porre nell’utilizzo ordinario di quello specifico bene, con riguardo alle specifiche condizioni di luogo e di tempo.
Per il principio dell’affidamento il fatto che una persona agisca come membro di un determinato gruppo sociale comporta l’assunzione della responsabilità di saper riconoscere ed affrontare determinati pericoli secondo lo standard di diligenza e capacità del gruppo.
Qui non si tratta di introdurre – specularmente – in relazione alla posizione del custode l’elemento dell’esigibilità o meno di una diversa condotta, poiché l’inesigibilità, indipendentemente dal punto se abbia ingresso nella struttura dell’illecito civile, in ogni caso non potrebbe operare che nell’ambito dell’elemento soggettivo, come avviene nella struttura dell’illecito penale (ove peraltro la figura è controversa e non riconosciuta dalla giurisprudenza), con la conseguenza che essa sarebbe irrilevante in ipotesi di responsabilità oggettiva.
Qui il problema si pone solo in relazione al comportamento colposo o meno del danneggiato, il quale è connotato dall’affidamento, secondo criteri oggettivi e non soggettivi, che egli ripone nel ritenere esigibile da parte della pubblica amministrazione custode, una determinata condotta di custodia in relazione ad un determinato bene.
In questi termini il colpevole comportamento del danneggiato modula la corretta applicazione del principio della causalità adeguata ai fini del nesso causale, o escludendolo o dando un apporto concorrente.
Il superiore (più datato) orientamento fa dunque espresso riferimento alla nozione di “colpa”, nozione che, invece, la sentenza in rassegna ritiene ininfluente rispetto al criterio di imputazione della responsabilità che, per l’appunto “prescinde da qualunque connotato di colpa”.
Avv. Filippo Pagano (f.pagano@clouvell.com)
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