Qualora il giudice dell’esecuzione definisca dinanzi a sé la causa introdotta come opposizione agli atti esecutivi, senza dare corso al giudizio di merito ai sensi dell’art. 618 cod. proc. civ, il vizio consistente nell’omessa concessione del termine per l’introduzione del giudizio di merito trova rimedio nell’art. 289 c.p.c., secondo il cui comma primo i provvedimenti istruttori che non contengono la fissazione dell’udienza successiva o del termine entro il quale le parti debbono compiere gli atti processuali possono essere integrati su istanza di parte o d’ufficio, entro il termine perentorio di sei mesi dall’udienza in cui i provvedimenti furono pronunciati, oppure dalla loro notificazione o comunicazione se prescritte.
Lo ha stabilito la Suprema Corte di Cassazione – sezione sesta civile – con sentenza n. 17887 del 9 settembre 2016
Il caso
Viene proposto ricorso per cassazione avverso due provvedimenti emessi dal giudice dell’esecuzione: il primo, a seguito di ricorso proposto da un Condominio, terzo pignorato, avverso l’ordinanza di assegnazione emessa a favore della creditrice pignorante contro la sua debitrice, (Omissis); il secondo, a seguito di istanza dello stesso Condominio col quale era stato chiesto di revocare il primo provvedimento. Con il primo, il giudice dell’esecuzione ha reputato inapplicabili le disposizioni contenute negli artt. 617 e/o 615 cod. proc. civ. e, senza instaurare il contraddittorio e senza concedere il termine per l’instaurazione del giudizio di merito, ha così deciso: “rigetta l’istanza”. Con il secondo, ha rigettato l’istanza di revoca del primo provvedimento, ed ha confermato quest’ultimo.
Il motivo di ricorso
Il ricorrente formula un unico motivo di ricorso per “violazione e falsa applicazione delle norme di diritto (artt. 360 n, 3 — 618 e segg. c.p.c.) con riferimento alle disposizioni di cui agli arti. 617 e 615 cpc” lamentando che, essendo state proposte opposizioni esecutive ai sensi degli artt. 615 e 617 cod. proc, civ., il relativo giudizio avrebbe dovuto essere trattato, dopo l’instaurazione del contraddittorio, secondo le norme del rito ordinario di cognizione.
Se il ricorso è inammissibile, non va integrato il contraddittorio.
La Suprema Corte precisa che, pur essendovi una situazione di difetto del contraddittorio per non essere stato il ricorso notificato alla debitrice esecutata, non ritiene necessario ordinare la notificazione a quest’ultima. E ciò in conformità all’orientamento, affermato in recenti pronunce della Corte di legittimità, per il quale nel giudizio di cassazione, il rispetto del principio della ragionevole durata del processo impone, in presenza di un’evidente ragione d’inammissibilità del ricorso o di sua manifesta infondatezza, di definire con immediatezza il procedimento, senza la preventiva integrazione del contraddittorio nei confronti di litisconsorti necessari cui il ricorso non risulti notificato, trattandosi di un’attività processuale del tutto ininfluente sull’esito del giudizio (cfr. Cass. S.U. n. 6826/10, nonché Cass. n. 690/12 e n. 15106/13).
Il ricorso viene dichiarato inammissibile.
Il ricorso, da qualificarsi come ricorso straordinario ai sensi dell’art. 111 Cost. e 360, ult. co., cod. proc. civ., viene dichiarato inammissibile.
Per gli Ermellini, difatti, è sì corretto l’assunto del ricorrente secondo cui il giudice dell’esecuzione non avrebbe potuto definire dinanzi a sé la causa introdotta come opposizione agli atti esecutivi, senza dare corso al giudizio di merito ai sensi dell’art. 618 cod. proc. civ. —e ciò, a prescindere dall’ammissibilità e/o dalla fondatezza del rimedio prescelto dall’opponente. Tuttavia, malgrado il giudice dell’esecuzione non abbia fissato il termine per l’inizio del giudizio di merito, i provvedimenti impugnati non sono definitivi, quindi suscettibili di ricorso straordinario per Cassazione ex art. 111 Cost. Essi – proseguono i giudici di legittimità – non hanno precluso l’accesso dell’odierno ricorrente, già opponente, alla tutela a cognizione piena.
L’introduzione del giudizio di merito è facoltativa.
Ricordano i giudici di piazza Cavour che il giudizio di opposizione agli atti esecutivi è soggetto alla disciplina degli artt. 617- 618 e.p.e. nel testo sostituito, con decorrenza dal 1° marzo 2006, dalla legge n. 52 del 2006. La seconda di tali norme prevede che il giudice dell’esecuzione fissa un termine perentorio per l’introduzione del giudizio di merito, previa iscrizione a ruolo a cura della parte interessata, osservati i termini a comparire di cui all’art. 163-bis c.p.c., o altri se previsti, ridotti della metà; la norma va letta in combinato disposto con l’art. 617 c.p.c. e con la prima parte dello stesso art. 618 c.p.c., che prevedono che sia il giudice dell’esecuzione a provvedere sull’istanza di sospensione del processo esecutivo ovvero di adozione di provvedimenti indilazionabili.
In buona sostanza, il sistema di norme modificate dalla legge n. 52 del 2006 ha innovato rispetto al regime precedente, secondo il quale era lo stesso giudice dell’esecuzione che all’udienza disponeva la prosecuzione del giudizio (relativo all’opposizione agli atti esecutivi) con le forme della cognizione ordinaria. Le nuove norme hanno escluso l’automatismo della prosecuzione con la cognizione piena; il giudice dell’esecuzione, dopo avere provveduto sull’istanza di sospensione, si limita a fissare un termine per l’introduzione della causa di merito ed è quindi rimesso all’iniziativa della parte interessata l’effettivo inizio di tale giudizio nel termine fissato.
Il provvedimento di fissazione del termine è di natura, latu sensu, istruttoria.
Nella specie – chiariscono gli Ermellini, i provvedimenti impugnati sono stati emessi a seguito di un procedimento instaurato dinanzi al giudice dell’esecuzione, che però non si è in alcun modo conformato alle disposizioni di cui sopra, ponendo a fondamento del rigetto la circostanza che il processo esecutivo fosse oramai chiuso dinanzi a se. Malgrado ciò, egli avrebbe dovuto comunque consentire la tutela a cognizione piena; tuttavia, il provvedimento di fissazione del termine per l’inizio del giudizio di merito, concretandosi in una autorizzazione (peraltro dovuta ex lege) all’introduzione del giudizio di merito, siccome ricollegato alla precedente fase sommaria e diretto anche alla discussione sugli eventuali provvedimenti sommari adottati in quella fase, si connota come provvedimento lata sensu istruttorio, cioè sull’ordine del procedimento (così, tra le tante, Cass, ord. n. 20532/2009 e n. 15630/2010).
Il rimedio alla mancata fissazione del termine.
Il vizio consistente nell’omessa concessione del termine in parola – secondo i giudici della Suprema Corte – trova un rimedio nell’ordinamento, precisamente nell’art. 289 c.p.c., secondo il cui comma primo i provvedimenti istruttori che non contengono la fissazione dell’udienza successiva o del termine entro il quale le parti debbono compiere gli atti processuali, possono essere integrati su istanza di parte o d’ufficio, entro il termine perentorio di sei mesi dall’udienza in cui i provvedimenti furono pronunciati, oppure dalla loro notificazione o comunicazione se prescritte.
Cosa avrebbe dovuto fare il ricorrente nel caso di specie?
Per gli Ermellini, il ricorrente, dunque, avrebbe dovuto chiedere al giudice dell’esecuzione di integrare il provvedimento ai sensi dell’art. 289 c.p.c. ed, in caso di rifiuto, ovvero anche a prescindere dalla formulazione di un’istanza ai sensi dell’art. 289 c.p.c., avrebbe potuto iscrivere la causa di opposizione al ruolo contenzioso (cfr. Cass, ord. n. 20532/2009 cit.).
Riguardo a quest’ultima soluzione, i giudici di piazza Cavour fanno integrale rinvio alla motivazione di Cass. n. 22033/2011, che si è occupata funditus della questione.
In particolare – concludono gli Ermellini – se è vero che il giudice dell’esecuzione ha definito, davanti a sé, il giudizio col primo dei provvedimenti impugnati, per contro, tale provvedimento, essendo stato emesso da un giudice investito di una cognizione sommaria e, pertanto, destinata a sfociare in provvedimenti ridiscutibili secondo le regole della cognizione piena e, dunque, del tutto provvisori, non può “acquisire una forza diversa a cagione della sua irritualità e, quindi, non può considerarsi “definitivo” dell’azione, nonostante che l’irritualità consista proprio nella chiusura illegittima del procedimento. Questa chiusura, in buona sostanza, è essa stessa del tutto provvisoria e non definitiva” poiché riguarda solo la fase sulla quale il giudice doveva provvedere, in via del tutto provvisoria in vista della possibile evoluzione dell’azione con la cognizione piena; cognizione, nient’affatto preclusa al ricorrente, che si sarebbe potuto avvalere dei rimedi sopra richiamati.
Una breve riflessione.
Diverse ed interessanti sono le tematiche affrontate dalla sentenza in oggetto.
Interessante è il principio in forza del quale, a fronte di un ricorso per cassazione inammissibile o manifestamente infondato, non va disposta l’integrazione del contraddittorio per evidenti ragioni processuali ed in ossequio ai principi del giusto processo.
Analoghe ragioni processuali hanno sostenuto la scelta del legislatore del 2006 di rendere facoltativa (e non più automatica) la introduzione del giudizio di merito che segue la instaurazione del contraddittorio nella fase di opposizione all’esecuzione o agli atti esecutivi.
Ed anche la soluzione interpretativa adottata dagli Ermellini con la sentenza in rassegna appare ispirata a tali principi. I giudici di piazza Cavour evidenziano che nel caso di omessa fissazione del termine, il provvedimento del giudice dell’esecuzione non può dirsi viziato, né è emendabile attraverso un ricorso straordinario per Cassazione, potendo più semplicemente il ricorrente chiedere la integrazione del provvedimento, ex art. 289 c.p.c., ovvero, iscrivere direttamente la causa di opposizione al ruolo contenzioso.
In definitiva, il provvedimento che si assume “viziato” è di carattere latu sensu istruttorio, inidoneo, come tale, a passare in giudicato.
avv. Filippo Pagano (f.pagano@clouvell.com)
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