Nel caso di lavoro prestato oltre il sesto giorno consecutivo, occorre distinguere il danno da “usura psico-fisica”, conseguente alla mancata fruizione del riposo dopo sei giorni di lavoro, dall’ulteriore danno alla salute o danno biologico, che si concretizza, invece, in una “infermità” del lavoratore determinata dall’attività lavorativa usurante svolta in conseguenza di una continua attività lavorativa non seguita dai riposi settimanali e che nella prima ipotesi, a differenza che nella seconda ipotesi, il danno sull'”an” deve ritenersi presunto.
Lo ha ribadito la Corte Suprema di Cassazione – sezione lavoro – con sentenza n. 17510 del 3 settembre 2015
Il caso
La corte d’appello di Lecce, con sentenza del 4/3/11, confermando la sentenza del 30/10/08 del tribunale della stessa sede, condannava una società al pagamento delle somme indicate per ciascun lavoratore, oltre accessori e spese legali, a titolo di risarcimento del danno da mancati riposi stabiliti dal regolamento CEE n. 3820 del 1985, richiamato oggi dall’art. 174 del nuovo codice della strada (riposo minimo di 11 ore giornaliere e riposo settimanale di 45 ore consecutive), e non fruiti benché gli stessi fossero stati addetti per cinque giorni alla settimana alla guida di mezzi destinati al trasporto di passeggeri su percorsi più lunghi di 50 chilometri.
In particolare, la corte territoriale ha confermato la decisione del tribunale che -ritenendo peraltro che le soste inoperose fuori residenza intervallavano corse del turno e non potevano essere considerati riposo- aveva quantificato i mancati riposi sulla base di CTU espletata sulla base di documenti prodotti dalle parti (alcuni dei quali direttamente al consulente), traendo argomenti di prova dalla mancata ottemperanza all’ordine di esibizione di documenti disposta nei confronti del datore di lavoro.
Il danno da usura psicofisica ed il danno biologico.
La Corte territoriale ha quindi ritenuto presunto il danno subito dai lavoratori, qualificato come danno da usura psicofisica e non come danno biologico, liquidando il danno in via equitativa, utilizzando come parametro di riferimento la retribuzione prevista dalla contrattazione collettiva di settore per la maggiorazione del lavoro straordinario, notturno e festivo. Da qui il ricorso per cassazione del datore di lavoro.
Il primo motivo di ricorso
Con il primo motivo si deduce vizio di motivazione della sentenza impugnata sull’entità del danno, per aver quantificato il danno equitativamente in difetto di prova.
Per i giudici della Suprema Corte il motivo è infondato in quanto (cfr., da ultimo, Cass. Sez. L, Sentenza n. 2886 del 10/02/2014, Rv.630472) il danno da stress, o usura psicofisica, si inscrive nella categoria unitaria del danno non patrimoniale causato da inadempimento contrattuale e, in linea generale, la sua risarcibilità presuppone la sussistenza di un pregiudizio concreto sofferto dal titolare dell’interesse leso, sul quale grava l’onere della relativa allegazione e prova, anche attraverso presunzioni semplici.
Il danno derivante dal mancato riposo settimanale.
Con specifico riferimento al lavoro prestato oltre il sesto giorno consecutivo, peraltro, i giudici di piazza Cavour hanno ritenuto (Sez. L, Sentenza n. 16398 del 20/08/2004, Rv.576013) di distinguere il danno da “usura psico-fisica”, conseguente alla mancata fruizione del riposo dopo sei giorni di lavoro, dall’ulteriore danno alla salute o danno biologico, che si concretizza, invece, in una “infermità” del lavoratore determinata dall’attività lavorativa usurante svolta in conseguenza di una continua attività lavorativa non seguita dai riposi settimanali e che nella prima ipotesi, a differenza che nella seconda ipotesi, il danno sull'”an” deve ritenersi presunto (così anche Sez. L, Sentenza n. 2455 dei 04/03/2000, Rv.534580).
La copertura costituzionale dell’interesse del lavoratore.
La soluzione si spiega – proseguono gli Ermellini – in considerazione della circostanza che nella fattispecie l’interesse del lavoratore leso dall’inadempimento datoriale ha una diretta copertura costituzionale nell’art. 36 Cost., sicché la lesione dell’interesse espone direttamente il datore al risarcimento del danno non patrimoniale (a differenza di quanto avviene in altre diverse fattispecie -per le quali siffatta copertura non sussiste-, come in relazione al danno derivante dal mancato riconoscimento delle soste obbligatorie nella guida per una durata di almeno 15 minuti tra una corsa e quella successiva e, complessivamente, di almeno un’ora per turno giornaliero – previste del Regolamento n. 3820/85/CEE, nonché dall’ art. 14 del Regolamento O.I.L. n. 67 del 1939 e dall’art. 6, primo comma, lett. a) della legge 14 febbraio del 1958, n. 138-, esaminato dalla sentenza 2886/2014 su richiamata).
Perché, nel caso di specie, la Suprema Corte rigetta il primo motivo di ricorso.
Per i giudici della Suprema Corte, nella specie, la sentenza impugnata, con motivazione congrua ed immune da errori logici e giuridici, ha ritenuto dimostrata documentalmente la violazione della disciplina dei riposi giornalieri e settimanali ed ha riconosciuto il danno da usura, quale danno non patrimoniale distinto da quello biologico ed inerente la violazione del diritto al riposo costituzionalmente protetto, quale danno prodottosi per la protrazione della maggior penosità del lavoro imposta dai turni assegnati in un lungo arco temporale (di anni) senza ricorso adeguato a riposi compensativi.
Il secondo motivo di ricorso.
Con il secondo motivo il ricorrente deduce vizio di motivazione della sentenza impugnata sul danno, per aver presunto l’esistenza del danno in assenza di pluralità di fatti gravi precisi e concordanti.
Anche tale motivo viene ritenuto infondato.
Per i giudici di piazza Cavour, la corte territoriale, con motivazione corretta ed adeguata, ha accertato che l’adibizione del lavoratore a turni di lavoro senza riconoscimento dei riposi di legge, per come documentalmente emergente dall’istruttoria, ha determinato -in violazione dei limiti di legge- l’aumento della penosità del lavoro, rilevante tanto più in quanto protrattasi per lungo tempo (diversi anni), con efficienza lesiva costante (in quanto ancorata a turni omogenei, replicatisi nel tempo), con incidenza su diritti costituzionalmente protetti inerenti i diritti fondamentali della persona (rispetto ai quali dunque la valutazione della gravità dell’offesa e della serietà del pregiudizio, e quindi della sua risarcibilità, è già operata dall’ordinamento).
Altro principio di diritto ribadito dalla Suprema Corte.
Per gli Ermellini, dunque, la sentenza impugnata è in linea con il principio giurisprudenziale affermato secondo il quale l’attribuzione patrimoniale spettante al lavoratore a causa della perdita della cadenza settimanale del riposo, ex at.36, terzo comma Cost., – avente natura risarcitoria di un danno (usura psico-fisica) correlato ad un inadempimento del datore di lavoro – deve essere stabilita dal giudice secondo una motivata valutazione che tenga conto della gravosità delle varie prestazioni lavorative e di eventuali strumenti ed istituti affini della disciplina collettiva, nonché di clausole collettive che disciplinino il risarcimento riconosciuto al lavoratore nell’ipotesi “de qua”, non confondendosi siffatto risarcimento con la maggiorazione contrattualmente prevista per la coincidenza di giornate di festività con la giornata di riposo settimanale.
Il superiore principio è stato affermato da Cass Sez. L, Sentenza n. 8709 del 11/04/2007, Rv.596529, in fattispecie concernente dipendenti di società di autolinee con mansioni di guida espletate in turni comportanti attività lavorativa per sette o più giorni consecutivi, con conseguente slittamento del riposo settimanale, di media, una volta ai mese.
Il terzo motivo di ricorso
Con il terzo motivo il ricorrente deduce vizio di motivazione della sentenza impugnata, vizio di motivazione sull’entità del danno, per aver quantificato il danno equitativamente utilizzando senza motivazione la retribuzione relativa allo straordinario.
Anche tale motivo viene ritenuto infondato in quanto il criterio di liquidazione del danno prescelto, fa corretto riferimento alla maggior penosità della prestazione lavorativa non accompagnata dai prescritti riposi giornalieri e settimanali e, correlativamente, al maggior valore economico della prestazione eccedente i limiti di legge, richiamando il compenso previsto dalla contrattazione per l’ipotesi – correttamente richiamabile proprio per la sua analogia con la fattispecie dei mancati riposi giornalieri- dello straordinario.
Liquidazione equitativa del danno e sua censura nel giudizio di legittimità
Per i giudici della Suprema Corte, la valutazione equitativa del danno, in quanto inevitabilmente caratterizzata da un certo grado di approssimatività, è suscettibile di rilievi in sede di legittimità, sotto il profilo del vizio della motivazione, solo se difetti totalmente la giustificazione che quella statuizione sorregge, o macroscopicamente si discosti dai dati di comune esperienza, o sia radicalmente contraddittoria (cfr. Sez. 3, Sentenza n. 1529 del 26/01/2010, Rv. 611250),.
L’orientamento delle sezioni unite in tema di attività lavorativa di domenica.
Secondo le Sez. U (n. 1607 del 03/04/1989, Rv. 462388), nel caso di prestazione dell’attività lavorativa di domenica, senza fruizione del riposo in altro giorno della settimana, il mancato riposo settimanale, con l’usura psicofisica che ne deriva, costituisce per il lavoratore – cui per tale prestazione dev’essere corrisposta la retribuzione giornaliera (in quanto la paga normale compensa solo sei giorni la settimana) – uno specifico titolo di risarcimento, che è autonomo rispetto al diritto alla maggiorazione per la penosità del lavoro domenicale; tale risarcimento, in mancanza di criteri legali o di principi di razionalità che ne impongano la liquidazione in una somma pari ad un’altra retribuzione giornaliera, dev’essere liquidato in concreto dal giudice del merito, alla stregua di una valutazione che – anche mercé l’utilizzazione di strumenti ed istituti previsti dalla contrattazione collettiva – tenga conto della gravosità delle varie prestazioni lavorative, non essendo il danno per il sacrificio del riposo settimanale determinabile in astratto. Da qui il rigetto del ricorso.
Una breve riflessione
La sentenza in rassegna offre diversi spunti di riflessione a proposito dei mancati riposi settimanali.
La particolarità della decisione consiste nella distinzione tra il danno da “usura psico-fisica”, conseguente alla mancata fruizione del riposo dopo sei giorni di lavoro, danno ritenuto presunto riguardo l’an e determinabile in via equitativa, dall’ulteriore danno alla salute o danno biologico, che si concretizza, invece, in una “infermità” del lavoratore determinata dall’attività lavorativa usurante svolta in conseguenza di una continua attività lavorativa non seguita dai riposi settimanali.
In tale ultima ipotesi il danno non è presunto quanto all’an ma dovrà essere provato dal lavoratore in base agli ordinari criteri di riparto dell’onere probatorio.
La Suprema Corte, nell’affrontare il thema decidendum, non rinuncia a sottolineare che nel caso di prestazione di attività lavorativa di domenica, senza fruizione del riposo in altro giorno della settimana, il mancato riposo settimanale, con l’usura psicofisica che ne deriva, costituisce per il lavoratore – cui per tale prestazione dev’essere corrisposta la retribuzione giornaliera (in quanto la paga normale compensa solo sei giorni la settimana) – uno specifico titolo di risarcimento, che è autonomo rispetto al diritto alla maggiorazione per la penosità del lavoro domenicale.
Dunque, i giudici di piazza Cavour ci tengono ad evidenziare che la maggiorazione della retribuzione prevista per il lavoro domenicale non include o assorbe il risarcimento del danno da usura psicofisica conseguente a illegittima adibizione a mansioni lavorative di domenica, senza riposo in altro giorno della settimana.
In definitiva, i giudici di legittimità, con la sentenza in esame, tracciano, a proposito della questione esaminata, una netta linea di demarcazione tra ciò che è fisiologico e ciò che è patologico; tra ciò che ha una copertura costituzionale e ciò che non lo ha; tra ciò che è presunto e ciò che deve essere provato.
Una sentenza che, mentre rende giustizia al lavoratore, lancia un monito al datore di lavoro.
avv. Filippo Pagano (f.pagano@clouvell.com)
managing partner at clouvell (www.clouvell.com)