L’esercizio del potere discrezionale del giudice di liquidare il danno in via equitativa, a lui conferito dagli artt. 1226 e 2056 c.c., espressione del più generale potere di cui all’art. 115 c.p.c., dà luogo non già ad un giudizio di equità, ma ad un giudizio di diritto caratterizzato dalla cosiddetta equità giudiziale correttiva od integrativa, che, pertanto, presuppone che sia provata l’esistenza di danni risarcibili e che risulti obiettivamente impossibile o particolarmente difficile, per la parte interessata, provare il danno nel suo preciso ammontare; non è possibile, invece, in tal modo surrogare il mancato accertamento della prova della responsabilità del debitore o la mancata individuazione della prova del danno nella sua esistenza.
Lo ha ribadito la Suprema Corte di Cassazione – sezione seconda civile – con sentenza n. 17752 dell’8 settembre 2015
Il caso
Con atto notificato il 30.3.2004 una società (d’ora in poi società acquirente) conveniva in giudizio avanti al Tribunale di Sondrio, una società (d’ora in poi società venditrice) deducendo di avere convenuto con la medesima l’acquisto di due espositori, senza però che il relativo contratto avesse mai avuto esecuzione . Precisava di aver già corrisposto alla convenuta la somma di € 5164,56, a titolo di acconto per una precedente fornitura, per cui il saldo prezzo ammontava a € 624,23.
Le domande del giudizio di primo grado
Chiedeva dunque l’attrice la condanna della convenuta, società venditrice, all’adempimento del contratto o, in subordine, la risoluzione del contratto stesso per inadempimento della medesima convenuta, e la condanna al risarcimento dei danni che indicava in € 5.164,56.
Si costituiva la società venditrice chiedendo il rigetto della domanda siccome infondata. Sosteneva che le parti non avevano concluso alcun contratto avente ad oggetto i due espositori di cui faceva cenno l’attrice, in quanto la sua offerta relativa a tali manufatti non era stata accettata dall’attrice.
Faceva però presente di aver concluso , sempre con l’attrice, altro contratto in data 13.4.01 avente ad oggetto la fornitura e il montaggio di mobili per una sala mostra, al quale contratto aveva dato regolare esecuzione predisponendo gli arredi concordati; che la società acquirente non era receduta dal contratto, ma si era limitata a chiederne la sospensione; chiedeva quindi dichiararsi la risoluzione di tale contratto in data 13.4.01, per inadempimento della controparte.
La sentenza di primo grado
Il Tribunale adito, rigettava la domanda di parte attrice e dichiarava la risoluzione del contratto per grave inadempimento della medesima; stabilendo che l’acconto di € 5164,56 rimanesse alla convenuta, società venditrice, a titolo di risarcimento del danno, così liquidato in via equitativa.
La sentenza di appello
Avverso la sentenza proponeva appello la società acquirente chiedendone la riforma; resisteva la società appellata; l’adita Corte d’Appello di Milano, in riforma dell’impugnata sentenza, rigettava la domanda risarcitoria formulata dalla società venditrice che condannava a restituire all’appellante la somma di € 5165,57, oltre interessi. Sosteneva la corte milanese che la società venditrice, pur avendo dato la prova dell’esistenza del contratto in data 13.4.01 non aveva però provato l’ammontare dei danni subiti, né era possibile nella fattispecie liquidare il danno — come aveva fatto il primo giudice – in via equitativa , in quanto la prova del danno non era impossibile, né eccessivamente difficoltosa, non ricorrevano dunque i presupposti voluti dall’art. 1226 c.c. Da qui il ricorso per cassazione.
Il ricorso per cassazione.
Per la cassazione di tale sentenza ricorre la società venditrice sulla base di due mezzi; resiste con controricorso la società acquirente, che ha formulato altresì ricorso incidentale sulla base di quattro mezzi, illustrati da memoria ex art. 378 c.p.c.
Il ricorso principale
Con il primo motivo del ricorso la società venditrice denuncia il vizio di motivazione, lamentandosi che il giudice distrettuale, dopo aver riconosciuto la conclusione, la validità e l’efficacia del contratto del 12.4.2001, nonché la sua risoluzione per inadempimento della società acquirente, ha tuttavia ritenuto che essa società venditrice non aveva dato la prova dei danni subiti. In realtà tale prova era stata data tramite i testi escussi i quali avevano confermato l’esistenza di questi danni consistenti nell’approvvigionamento di materiali per predisporre la struttura dell’arredamento convenuto, poi rimasti invenduti.
Con il secondo motivo viene eccepita la violazione dell’art. 1226 c.c.; secondo la ricorrente erano presenti i presupposti voluti dalla legge ai fini di una liquidazione equitativa del danno.
Perché la Suprema Corte ritiene infondati entrambi i motivi di ricorso
Per i giudici della Cassazione, non è stata colta la vera ratio decidendi del giudice distrettuale, il quale non ha negato l’avvenuta prova del danno (an debeatur), ma ha solo affermato che nella fattispecie, mancavano i presupposti per la sua liquidazione (quantum) in via equitativa, con specifico riferimento alla somma di € 5.164,57, già liquidata dal primo giudice.
La liquidazione del danno in via equitativa
Proseguono gli Ermellini affermando che l’esercizio del potere discrezionale di liquidare il danno in via equitativa, conferito al giudice dagli artt. 1226 e 2056 c.c. presuppone che sia provata l’esistenza di danni risarcibili e che risulti obiettivamente impossibile o particolarmente difficile, per la parte interessata, provare il danno nel suo preciso ammontare (Cass. Sez. 6 – L, Ordinanza n. 27447 del 19/12/2011).
Ora, secondo la corte territoriale, nella fattispecie la prova di alcune circostanze (importo dei materiali e dei manufatti ecc. ) non era impossibile e nemmeno eccessivamente difficoltosa per la società venditrice ai fini di una precisa liquidazione del danno, per cui non sussistevano gli estremi per una liquidazione equitativa del danno così come previsto dagli artt. 1226 e 2056 c.c.
Il principio di diritto
I giudici di piazza Cavour ricordano che l’esercizio del potere discrezionale del giudice di liquidare il danno in via equitativa, a lui conferito dagli artt. 1226 e 2056 c.c., espressione del più generale potere di cui all’art. 115 c.p.c., dà luogo non già ad un giudizio di equità, ma ad un giudizio di diritto caratterizzato dalla cosiddetta equità giudiziale correttiva od integrativa, che, pertanto, presuppone che sia provata l’esistenza di danni risarcibili e che risulti obiettivamente impossibile o particolarmente difficile, per la parte interessata, provare il danno nel suo preciso ammontare; non è possibile, invece, in tal modo surrogare il mancato accertamento della prova della responsabilità del debitore o la mancata individuazione della prova del danno nella sua esistenza. ( Cass.Sez. 3, Sentenza n. 10607 del 30/04/2010; Cass. 3, Sentenza n. 20990 del 12/10/2011)
Il ricorso incidentale
La società acquirente, con il primo motivo si denunzia la violazione o falsa applicazione dell’ art. 134 c.p.c.: “omessa indicazione dei motivi della sentenza ; la sentenza del Tribunale è nulla perché contenente un inserimento fotostatico della comparsa conclusionale della controparte “.
La Suprema Corte, nel rigettare il motivo, evidenzia che in ogni caso il primo giudice ha autonomamente dato conto delle ragioni di fatto e di diritto del suo convincimento, sia pure riferendosi per relationem agli scritti della convenuta; e che, peraltro, che anche nell’ipotesi d’invalidità della sentenza di primo grado, la Corte d’Appello avrebbe comunque motivato in via autonoma la decisione stessa.
Con il secondo motivo la ricorrente incidentale denuncia la violazione e falsa applicazione dell’ art. 1326 c.c.; confuta la tesi dell’esclusione dell’avvenuta stipula del 2° contratto; sostiene che in realtà doveva ritenersi concluso anche il contratto avente ad oggetto la fornitura dei 2 espositori, in quanto la società acquirente aveva imputato l’acconto (che già aveva versato per il primo contratto) alla nuova fornitura e nessuna contestazione era stata mossa da controparte.
Anche tale motivo di ricorso viene rigettato sul presupposto che all’offerta della società acquirente mancava una pedissequa accettazione della società venditrice la cui accettazione non conforme costituiva in realtà una nuova proposta che controparte non aveva accettato.
Con il terzo motivo si denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 115, 116, 210, c.p.c. ; “errata valutazione della prova precostituita”: si tratta del documento (capitolato) del 13.4.2001 prodotto in sola copia fotostatica dalla società venditrice per provare i danni che era stato disconosciuto. Mancata considerazione che l’ordine di esibizione dell’originale era rimasto inevaso, impedendo così alla parte di poter proporre rituale querela di falso. La corte avrebbe poi erroneamente attribuito efficacia vincolante ad una mera trattava contrattuale.
Stesso esito processuale per il terzo motivo del ricorrente incidentale. Invero – secondo i giudici di piazza Cavour – tale censura non appare pertinente rispetto la ratio decidendi posta a fondamento della decisione: il giudicante ha ribadito infatti che il disconoscimento del predetto documento era intervenuto tardivamente in quanto non era stato effettuato alla prima udienza di comparizione. Egli ha poi sottolineato: ” in ogni caso — la prova della conclusione del contratto si rinviene … dall’istruttoria orale e non dal documento di cui sopra, la cui eventuale mancata valenza probatoria non avrebbe effetto sulla ricostruzione della vicenda quale è stata formulata dal primo giudice e quale viene ora recepita anche dalla Corte”
Infine, con il quarto motivo si denuncia il vizio di motivazione con riferimento al fatto che non sono state prese in esame le ragioni da essa addotte che impedivano di considerare il documento del 13.4.2001 alla stregua di un valido ed efficace contratto, mentre invece si tratta di una mera trattativa contrattuale, al più di “un contratto preparatorio”.
Anche tale doglianza non è fondata. La Suprema Corte rileva profili d’inammissibilità in quanto tale documento non è stato trascritto (in spregio del principio di autosufficienza del ricorso) e mancanza del “momento di sintesi” ex art. 366 bis c.p.c.„ aggiungendo che la Corte territoriale ha congruamente motivato, richiamandosi alle risultanze istruttorie (dichiarazione dei testi ecc.) per cui tale doglianza non può avere rilievo in questa sede di legittimità.
Da qui il rigetto del ricorso principale e di quello incidentale con compensazione della spese di lite.
Una breve riflessione
La sentenza in rassegna ribadisce un principio di massima importanza in tema di liquidazione equitativa del danno.
Nel ricordare che non si tratta di un giudizio di equità ma di un giudizio di diritto, la Suprema Corte intende puntualizzare proprio il nodo della questione: il giudice non può procedere alla liquidazione del danno per fare “giustizia” nel caso concreto, ma deve pur sempre seguire le norme di diritto.
E le norme di diritto prevedono che chi agisce in giudizio deve innanzitutto provare l’an ed il quantum della pretesa.
La valutazione equitativa del giudice non interviene nel momento dell’an, ma solo nel momento del quantum. Ma interviene non per supplire alla inerzia della parte che la invoca, ma solo per supplire ad una situazione di impossibilità oggettiva di determinare l’ammontare del danno nel suo preciso ammontare.
Adesso, dovrebbe essere più chiaro il concetto di “giudizio di diritto caratterizzato dalla cosiddetta equità giudiziale correttiva od integrativa” cui i giudici di legittimità fanno riferimento in motivazione.
Correggere o integrare presuppone già la esistenza di un elemento che, per l’appunto, viene corretto o integrato. Senza la preesistenza di tale elemento, non vi è nulla da correggere o da integrare e, di conseguenza, non può avere luogo alcuna valutazione equitativa del danno.
Dunque, chi invoca la liquidazione equitativa del danno deve provare l’esistenza di danni risarcibili e deve altresì dimostrare che risulti obiettivamente impossibile o particolarmente difficile, per la parte interessata, provare il danno nel suo preciso ammontare.
Ciò che è dunque vietato è surrogare, attraverso l’adozione della liquidazione equitativa del danno, il mancato accertamento della prova della responsabilità del debitore o la mancata individuazione della prova del danno nella sua esistenza.
In conclusione, l’interpretazione della Suprema Corte impone, o, se si preferisce, esige dalla parte processuale l’assolvimento dell’onere probatorio secondo i criteri codicistici, non solo dell’an della pretesa, ma anche del quantum della pretesa. In mancanza dell’assolvimento anche solo di tale ultimo onere (relativo al quantum), pur risultando provato l’an della pretesa, non vi potrà essere spazio per una liquidazione equitativa del danno. Ciò che è esattamente successo nella fattispecie in esame.
avv. Filippo Pagano (f.pagano@clouvell.com)
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