L’inversione dell’onere della prova, in mancanza di apposito patto ex art. 2698 c.c., può risultare anche dal comportamento processuale della parte. Tuttavia, affinché ciò si verifichi, non è sufficiente che la parte sulla quale non grava l’onere deduca od anche offra la prova, occorrendo, invece, la inequivoca manifestazione della parte medesima di voler rinunciare ai benefici ed ai vantaggi che le derivano dal principio che regola la distribuzione dell’onere stesso e di subire le conseguenze dell’eventuale fallimento della prova dedotta od offerta.
Lo ha ribadito la Suprema Corte di Cassazione – sezione prima civile – con sentenza n. 21103 del 19 ottobre 2015
Il caso
Il Tribunale di Roma, accogliendo l’opposizione proposta dai ricorrenti (società e fideiussori) in monitorio, revocava il decreto ingiuntivo emesso nei loro confronti, avente ad oggetto il pagamento ad un Istituto di Credito della somma di lire 828.383.109, oltre interessi al tasso prime rate ABI, quale saldo passivo complessivo dei diversi conti correnti, intrattenuti dalla società ingiunta con la Banca ricorrente. Il primo Giudice, premesso che in seguito all’opposizione, la Banca era gravata dall’onere di provare la sussistenza del rapporto dedotto in lite e l’entità del suo credito in linea capitale e per interessi, ha rilevato che la Banca non aveva ottemperato all’ordine di esibizione documentale, sicché la sua pretesa risultava priva di qualsiasi riscontro probatorio.
La sentenza di appello
La Corte di appello accoglieva l’appello proposto dalla banca e, ferma la disposta revoca del decreto opposto, condannava gli ingiunti in solido al pagamento in favore della Banca della somma di euro 293.000,47, oltre interessi al tasso legale.
Le argomentazioni della Corte territoriale
Ha osservato la Corte di merito che il primo Giudice non ha tenuto conto di tre dati essenziali per l’applicazione di detti principi al caso deciso:
- a) gli opponenti non hanno mosso alcuna contestazione, anzi hanno anche esplicitamente riconosciuto, l’esistenza dei rispettivi rapporti di conto corrente e di fideiussione;
- b) gli stessi in citazione introduttiva hanno mosso contestazioni specifiche esclusivamente in ordine alla contabilizzazione di interessi;
- c) essi hanno proposto istanza di esibizione dei contratti e degli estratti conto, chiedendo l’accertamento dell’esatto ammontare del proprio debito o credito, assumendo così l’onere della prova contraria.
Inoltre, sempre secondo il giudici di appello, il Tribunale non ha tenuto conto della circostanza che all’udienza fissata per l’esibizione della documentazione richiesta la Banca aveva chiesto un rinvio per il deposito della documentazione richiesta, prima al G.I. e quindi allo stesso CTU, giustificando la richiesta con la difficoltà tecnica di reperimento dei documenti; e che dalla relazione di CTU risultava che effettivamente gli estratti conto furono, almeno parzialmente, esibiti e prodotti in data 7.03.2001 al CTU, che poté utilizzarla per redigere i calcoli richiesti dal G.I. Tale deposito – a parere della Corte territoriale, ancorchè tardivo rispetto al termine assegnato, non può essere equiparato alla mancata ottemperanza all’ordine giudiziale, per gli effetti che possano derivarne ex art. 116 c.p.c.; né i medesimi elementi possono essere considerati inutilizzabili – concludono i giudici di appello – vuoi perché non è stata dichiarata, prima della loro produzione, alcuna decadenza ai sensi dell’art. 208 c.p.c., vuoi perché l’unica conseguenza che la legge collega al mancato rispetto dell’ordine è la possibilità di trarne, nel concorso con gli altri elementi di prova, presunzioni sfavorevoli alla parte non ottemperante. Presunzioni che nel caso sono superate dalla sopravvenuta produzione. Da qui il ricorso per cassazione interposto dagli originari ingiunti.
Il motivo (unico) posto a base del ricorso per cassazione
Con l’unico motivo di ricorso i ricorrenti denunciano violazione degli artt. 2697 c.c. e 210 c.p.c. e formulano il seguente quesito ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c., applicabile ratione temporis: «se la mancata produzione in giudizio (almeno parziale) dei documenti di cui era stata anche ordinata l’esibizione alla Banca su cui gravava l’onere della prova, possa costituire, in mancanza di altre prove, adempimento dell’onere della prova ex art. 2697 c.c. e quindi se le prove documentali che la Banca ha omesso di fornire, quanto meno parzialmente, possano legittimamente far ritenere fondata la domanda attrice e provare i fatti che costituiscono il fondamento del diritto che si vuole far valere in giudizio».
Il ricorso viene dichiarato inammissibile.
Per i giudici di legittimità, i ricorrenti hanno omesso di impugnare ritualmente l’affermazione della sentenza impugnata secondo la quale «essi hanno proposto istanza di esibizione dei contratti e degli estratti conto, chiedendo l’accertamento dell’esatto ammontare del proprio debito o credito, assumendo così l’onere della prova contraria».
La ritenuta inversione della prova non è stata oggetto di censura in cassazione
Per gli Ermellini, i ricorrenti non avrebbero fatto alcun cenno sulla ritenuta inversione dell’onere della prova da parte della Corte territoriale, essendosi limitati a formulare il quesito sul presupposto che l’onere della prova gravasse sulla banca, senza tenere conto di quella ratio decidendi (corretta o meno che fosse) posta a fondamento della sentenza impugnata.
L’inversione volontaria dell’onere della prova
Ricordano i giudici di legittimità che l’inversione volontaria dell’onere della prova – pur possibile in relazione a un determinato comportamento processuale della parte (cfr. Sez. 3, Sentenza n. 14306 del 07/07/2005) – non risulta specificamente dedotta e censurata neppure nello svolgimento del motivo di ricorso.
Da qui la dichiarazione di inammissibilità del ricorso.
Una breve riflessione
La sentenza in rassegna offre un interessante spunto di riflessione in materia di riparto dell’onere probatorio e, segnatamente, a proposito della inversione volontaria dell’onere della prova.
Le norme cardine sono costituite dagli articoli 2697 e 2698 del codice civile.
Il primo dei due articoli recita che “chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento. Chi eccepisce l’inefficacia di tali fatti ovvero eccepisce che il diritto si è modificato o estinto deve provare i fatti su cui l’eccezione si fonda”.
L’articolo 2698 c.c. recita invece che sono “sono nulli i patti con i quali è invertito ovvero è modificato l’onere della prova, quando si tratta di diritti di cui le parti non possono disporre o quando l’inversione o la modificazione ha per effetto di rendere a una delle parti eccessivamente difficile l’esercizio del diritto”.
Secondo Cass. 7 luglio 2005, n. 14306, in tema di ripartizione dell’onere della prova la violazione dell’articolo 2697 codice civile – rilevante sotto il profilo di cui all’art. 360 n. 3 c.p.c. – si configura solo nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova a una parte diversa da quella che ne è gravata, secondo le regole dettate da quella norma, non anche quando, a seguito di una incongrua valutazione delle acquisizioni istruttorie il giudice abbia errato nel ritenere che la parte onerata abbia assolto tale onere, perché in questo caso vi sarà solo un erroneo apprezzamento sull’esito della prova, sindacabile in sede di legittimità solo per il vizio di cui all’art. 360 n. 5 c.p.c, (cfr. Cass. 14.2.2001 n.2155).
Ricordano inoltre gli Ermellini che la parte che intenda fare derivare dalle proprie affermazioni conseguenze giuridiche in proprio favore deve dare la dimostrazione dei fatti da essa affermati, senza poter pretendere che tale dimostrazione derivi come effetto dalle affermazioni medesime o che, in conseguenza di queste ultime, debba essere la controparte a fornire la prova della inesistenza di simili fatti (Cass. 26.03.03, n. 4462).
Quando si verifica la inversione (tacita) dell’onere della prova.
Vero è che l’inversione dell’onere della prova, in mancanza di apposito patto ex art. 2698 c.c., può risultare anche dal comportamento processuale della parte, ma è altrettanto vero che affinché ciò si verifichi, non è sufficiente che la parte sulla quale non grava l’onere deduca od anche offra la prova, occorrendo, invece, la inequivoca manifestazione della parte medesima di voler rinunciare ai benefici ed ai vantaggi che le derivano dal principio che regola la distribuzione dell’onere stesso e di subire le conseguenze dell’eventuale fallimento della prova dedotta od offerta (Cfr. Cass. 10.12.2002 n.17573; Cass. 26.01.00, n. 860).
Come dire, non basta che la controparte (non onerata ex art. 2697 c.c.) tenti di provare il contrario per ribaltare (o invertire) il riparto dell’onere ex art. 2697 c.c., occorrendo una in equivoca manifestazione della parte medesima in tal senso.
E nella sentenza in rassegna la Suprema Corte, nel dichiarare inammissibile il ricorso, lascia intravedere il proprio convincimento in ordine alla ritenuta inversione probatoria da parte della Corte territoriale. Sembra infatti che, sulla base dei dati offerti dalla sentenza, la semplice richiesta di emissione di ordine di esibizione nei confronti della Banca, onerata a provare il fatto, non possa costituire una manifestazione inequivoca di voler rinunciare ai benefici ed ai vantaggi derivanti dalla regole generale, ex art. 2697 c.c., di distribuzione dell’onere probatorio. Solo che, nella specie, i ricorrenti non hanno impugnato tale dictum.
Va da sé che, in concreto, non risulterà affatto agevole distinguere, nella gran parte dei casi, quando una manifestazione (apparente) di accettazione dell’inversione dell’onus probandi possa considerarsi inequivoca piuttosto che equivoca. Per prudenza, pertanto, sarà bene che chi non è onerato e, per eccesso di difesa, deduca mezzi di prova, espliciti espressamente che tale comportamento processuale non implica inversione dell’onere della prova. Anche se l’utilizzo di una tale formula (di stile) non eliminerà del tutto il rischio concreto che il giudice ritenga operante, ciononostante, l’inversione.
avv. Filippo Pagano (f.pagano@clouvell.com)
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