Licenziamento per giusta causa e favor lavoratoris

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In tema di licenziamento, le eventuali difformi previsioni della contrattazione collettiva non vincolano il giudice di merito, avendo egli il dovere, in primo luogo, di controllare la rispondenza delle pattuizioni collettive al disposto dell’art. 2106 cc e rilevare la nullità di quelle che prevedono come giusta causa o giustificato motivo di licenziamento condotte per loro natura assoggettabili, ex art. 2106 cc, solo ad eventuali sanzioni conservative. Tuttavia, non è possibile estendere il catalogo delle giuste cause o dei giustificati motivi soggettivi di licenziamento oltre quanto stabilito dall’autonomia delle parti nel senso che condotte pur astrattamente ed eventualmente suscettibili di integrare giusta causa o giustificato motivo soggettivo ai sensi di legge non possono rientrare nel relativo novero se l’autonomia collettiva le ha espressamente escluse, prevedendo per esse, con clausola migliorativa per il lavoratore, sanzioni meramente conservative.

Lo ha affermato la Suprema Corte di Cassazione – sezione lavoro – con sentenza n. 21679 del 5 settembre 2018

Licenziamento per giusta causa e favor lavoratoris

Licenziamento per giusta causa e favor lavoratoris

Il caso 

Un lavoratore, dipendente di una azienda automobilistica con inquadramento nel 5^ gruppo professionale, 2″ fascia CCNL 13.12.2011 e con mansioni di magazziniere presso il reparto centro di consolidamento, in data 6.3.2014 veniva licenziato per giusta causa a seguito di contestazione disciplinare del 26.2.2014 con la quale gli era stato addebitato di essere stato sorpreso dai carabinieri, durante la pausa di lavoro, in possesso di 25 grammi di hashish, al fine di spaccio, custoditi nella tuta di lavoro, mentre stava rientrando in azienda, tanto è che era stato arrestato con grave discredito del nome commerciale della società per l’eco della notizia che vi era stato, anche in ambiente extra-lavorativo, come era emerso dall’articolo del 19.2.2014 sul quotidiano locale “L’inchiesta”, intitolato «Operaio (Omissis) con “fumo” nella tuta da lavoro, libero, obbligo di firma».

L’impugnazione del licenziamento

Impugnato il licenziamento innanzi al Tribunale di Cassino, con ordinanza del 19.1.2015 venivano rigettate le domande avanzate dal lavoratore e, a seguito di opposizione, con sentenza depositata il 9.5.2016 veniva dichiarato risolto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condannata la società a pagare al dipendente un’indennità risarcitoria pari a 20 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.

Il reclamo

Proposti autonomi reclami ex art. 1 c. 58 legge n. 92/2012, sia dalla società che dal dipendente, la Corte di appello di Roma confermava la gravata sentenza compensando le spese di lite.

La decisione della Corte territoriale

A fondamento della decisione i giudici di seconde cure rilevavano che: a) correttamente il Tribunale aveva considerato ammissibili le circostanze dedotte dal lavoratore per la prima volta con il ricorso in opposizione; b) era condivisibile la tesi della società secondo la quale se il lavoratore non fosse stato arrestato dai Carabinieri, sarebbe rientrato in azienda detenendo un discreto  quantitativo di sostanza stupefacente (circa 25 grammi di hashish); c) tale quantitativo, tuttavia, non consentiva di affermare neppure in via presuntiva il fine di spaccio, mentre restava rilevante soltanto la condotta di detenzione di sostanza stupefacente per uso personale, quale condotta certamente extra-lavorativa, tenuta nell’arco temporale di “non lavoro” in quanto dedicato alla pausa pranzo; d) la peculiarità di tale comportamento, che si distingueva dal mero fatto extra-lavorativo, presentava indubbiamente elementi di maggiore gravità rispetto al fatto extra-lavorativo; e) correttamente dal primo giudice era stata esclusa la proporzionalità per fatto addebitato e sanzione espulsiva adottata ed il vincolo fiduciario aveva subito un pregiudizio ma non tale da giustificare l’estinzione del rapporto di lavoro con la massima sanzione espulsiva; f) il fatto in esame, disciplinarmente rilevante, non poteva essere ricondotto all’art. 32 del CCNL perché potenzialmente, in caso di consumo di gruppo della sostanza, sarebbero state pregiudicate l’igiene e la sicurezza dell’intera azienda e non dello stabilimento e perché la società aveva ricevuto un oggettivo discredito, essendo stato il lavoratore arrestato con la tuta portante il marchio (Omissis), con la sostanza custodita nella tasca della tuta, durante la pausa pranzo e durante il rientro in azienda.

Il ricorso per cassazione

Avverso la decisione di secondo grado ha proposto ricorso per cassazione il lavoratore sulla base di tre motivi, al quale ha resistito con controricorso la Casa automobilistica formulando ricorso incidentale sulla base di un motivo cui ha resistito a sua volta il lavoratore.

I motivi del ricorso principale

Con il primo articolato motivo il ricorrente principale lamenta:

1) ai sensi dell’art. 360 n. 3 cpc, la violazione e falsa applicazione dell’art. 111 Cost e dell’art. 132 n. 4 cpc;

2) ai sensi dell’art. 360 n. 5 cpc, il difetto di motivazione per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti;

3) ai sensi dell’art. 360 n. 3 cpc, la violazione e falsa applicazione dell’art. 18 commi 4 e 5 della legge n. 300/1970. Si censura il capo della sentenza relativo alle conseguenze della illegittimità, comunque accertata, del licenziamento di cui è causa e la motivazione apparente e viziata da una manifesta e irriducibile inconsistenza, tale da rendere incomprensibile il percorso argomentativo seguito sulla tesi che ad essere interessati dal pregiudizio alla disciplina, alla morale, all’igiene e alla sicurezza, sia stata l’intera azienda e non il solo stabilimento.

Con il secondo motivo il lavoratore si duole, ai sensi dell’art. 360 n. 3 cpc, della violazione e falsa applicazione dell’art. 1 del D.Igs 8.4.2003 n. 66 e dell’art. 4 del titolo secondo CCSL 13.12.2011 nonché della violazione degli artt. 2727 e 2729 cc, per non avere ritenuto la Corte di merito che, nel caso in esame, non si verteva in una ipotesi di “pausa pranzo” (qualificata come intervallo di non lavoro) ma di un lasso temporale pacificamente non rientrante nell’orario di lavoro, con la conseguenza che la condotta addebitata era da riferirsi puramente e specificamente ad un fatto extralavorativo; inoltre, sostiene che l’argomentazione circa lo sviluppo del comportamento del lavoratore, diretto a introdurre la sostanza stupefacente nello stabilimento, non sarebbe stata caratterizzata da indizi gravi, precisi e concordanti a fronte dell’unico dato certo costituito dall’acquisto di una modica quantità di stupefacente leggero, fuori dal luogo di lavoro.

Con il terzo motivo il ricorrente denunzia, ai sensi dell’art. 360 n. 3 cpc, la violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 cc, degli articoli 2014, 2015 e 2016, dell’art. 5 della legge n. 604/1966, dell’art. 128 della legge n. 300/1970 e degli artt. 112, 115 e 116 cpc, per avere erroneamente ritenuto la Corte di appello allegata e dimostrata la lesione degli interessi del datore di lavoro a seguito del comportamento disciplinarmente rilevante sotto l’aspetto materiale e immateriale, per non avere considerato che la circostanza dell’avere tenuta indossata la tuta era stata determinata dal fatto che l’azienda non aveva inteso corrispondere l’emolumento legato al cd. “tempo tuta” e per non avere rilevato la totale carenza di allegazione e prova con riferimento alla lesione del rapporto fiduciario di talché alla irrilevanza giuridica del fatto doveva corrispondere la insussistenza materiale dello stesso, con conseguente applicazione della tutela di cui all’art. 18 quarto comma legge n. 300/1970.

I motivi del ricorso incidentale

Con il ricorso incidentale la società lamenta l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia (art. 360 n. 5 cpc), costituito dal non avere correttamente valutato la Corte di merito la potenzialità lesiva del comportamento contestato (detenzione di sostanza stupefacente con rientro in fabbrica del quantitativo di droga acquistato) che era idoneo, sulla base di precedenti giurisprudenziali di legittimità, a giustificare la sanzione espulsiva.

La nozione di giusta causa e di giustificato motivo

Ricordano i giudici di piazza Cavour che la giusta causa di licenziamento, così come il giustificato motivo, costituiscono una nozione che la legge -allo scopo di un adeguamento delle norme alla realtà da disciplinare, articolata e mutevole nel tempo- configura con disposizioni (ascrivibili alla tipologia delle cosiddette clausole generali) di limitato contenuto, delineanti un modulo generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa, mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama. Tali specificazioni – proseguono i giudici di legittimità – del parametro normativo hanno natura di norma giuridica e la loro disapplicazione è quindi deducibile in sede di legittimità come violazione di legge. L’accertamento della concreta ricorrenza, nel fatto dedotto in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e le sue specificazioni e della loro concreta attitudine a costituire giusta causa o giustificato motivo di licenziamento, è quindi sindacabile in cassazione, a condizione che la contestazione non si limiti ad una censura generica e meramente contrappositiva, ma contenga, invece, una specifica denunzia di incoerenza rispetto agli standars, conformi ai valori dell’ordinamento, esistenti nella realtà sociale (Cass. 23.9.2016 n. 18715; Cass. n. 8367/2014; Cass. n.5095/2011).

L’approccio multifattoriale

Per i giudici della Suprema Corte, nell’approccio che è stato definito dalla dottrina <multifattoriale>, secondo il quale la condotta disciplinarmente rilevante deve essere collocata nel contesto complessivo in cui è avvenuta, possono poi emergere una serie di circostanze, soggettive od oggettive, che consentano al giudice di escludere, in concreto e pur a fronte di un fatto astrattamente grave, l’idoneità dell’inadempimento a configurare giusta causa o giustificato motivo soggettivo, e quindi determinino una sproporzione tra la condotta così come effettivamente realizzata ed il licenziamento (Cass. 16.10.2015 n. 21017).

Sotto il profilo della tutela – proseguono gli Ermellini – “è stato affermato (cfr. Cass. 25.5.2017 n. 13178) che l’art. 18 della legge 20 maggio 1970 n. 300, come modificato dall’art. 1 comma 42 della legge 28 giugno 2012 n. 92, riconosce al IV comma la tutela reintegratoria in caso di insussistenza del fatto contestato, nonché nei casi in cui il fatto sia sostanzialmente irrilevante sotto il profilo disciplinare o non imputabile al lavoratore; la non proporzionalità della sanzione rispetto al fatto contestato ed accertato rientra nel IV comma quando questa risulti dalle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili che stabiliscano per esso una sanzione conservativa, diversamente verificandosi le “altre ipotesi” di non ricorrenza del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa per le quali il V comma dell’art. 18 prevede la tutela indennitaria cd. forte”.

La clausola migliorativa e l’autonomia collettiva

Ribadiscono i giudici della Corte di legittimità che “è pur vero che, per costante giurisprudenza di questa Corte Suprema, proprio perché quella di giusta causa o giustificato motivo è una nozione legale, le eventuali difformi previsioni della contrattazione collettiva non vincolano il giudice di merito. Egli –anzi ha il dovere, in primo luogo, di controllare la rispondenza delle pattuizioni collettive al disposto dell’art. 2106 cc e rilevare la nullità di quelle che prevedono come giusta causa o giustificato motivo di licenziamento condotte per loro natura assoggettabili, ex art. 2106 cc, solo ad eventuali sanzioni conservative. Ma ciò non gli consente di fare l’inverso, cioè di estendere il catalogo delle giuste cause o dei giustificati motivi soggettivi di licenziamento oltre quanto stabilito dall’autonomia delle parti (cfr. ex aliis Cass. N. 11027/2017; Cass. N. 9223/2015; Cass. N. 13353/2011; Cass. N. 19053/1995; Cass. N. 1173/1996), nel senso che condotte pur astrattamente ed eventualmente suscettibili di integrare giusta causa o giustificato motivo soggettivo ai sensi di legge non possono rientrare nel relativo novero se l’autonomia collettiva le ha espressamente escluse, prevedendo per esse, con clausola migliorativa per il lavoratore, sanzioni meramente conservative”.

Nel caso in esame – rilevano i giudici di piazza Cavour – “deve darsi atto che la Corte di merito -con adeguata motivazione- ha proceduto ad analizzare compiutamente l’episodio sia sul piano fattuale che circostanziale, specificando che il fatto contestato (detenzione di gr. 25 di hashish, non a fini di spaccio, durante la “pausa pranzo” al di fuori del luogo di lavoro ma con rientro verso lo stesso) avesse un suo incontestabile rilievo disciplinare, ma non tale da legittimare una risoluzione in tronco del rapporto”.

In particolare – prosegue la Suprema Corte – i giudici del merito hanno valutato il carattere extra-lavorativo della condotta, sia pur con la particolarità del caso concreto che prevedeva il rientro nello stabilimento; hanno precisato con argomentazioni congrue ed esenti da critiche che l’episodio in questione potesse essere comparato a quello del rinvenimento del dipendente trovato in stato di manifesta ubriachezza durante l’orario di lavoro, sanzionato con una misura conservativa; hanno escluso, per l’insieme delle specifiche circostanze oggettive e soggettive che avevano caratterizzato l’episodio, che il vincolo fiduciario fosse irrimediabilmente compromesso per la assenza di potenziale pregiudizialità derivante al datore di lavoro dal comportamento del dipendente.

Le critiche alla sentenza della Corte territoriale

Viceversa, i giudici di piazza Cavour criticano l’assunto dei giudici di seconde cure nella misura in cui non hanno ritenuto sussumibile nella previsione dell’art. 32 del CCNL di settore (che prevede una sanzione conservativa per il lavoratore che commetta “qualsiasi mancanza che porti pregiudizio alla disciplina, alla morale, all’igiene e alla sicurezza dello stabilimento”), opinando che ad essere coinvolta dal comportamento del lavoratore non era lo stabilimento ma l’intera azienda, vista <la possibile condivisione del “fumo” con altri colleghi di lavoro, essendo notorio il cd. passaggio di sigaretta da un soggetto ad altro nei fenomeni di consumo di gruppo, nell’ambito dell’intera azienda. Così come ritengono “non è senza errori l’affermazione della Corte territoriale che ha considerato la sussistenza dell’ulteriore stato lesivo, rappresentato dall’oggettivo discredito prodotto a danno della società per essere stato il lavoratore arrestato con la tuta portante il marchio della Casa automobilistica, con sostanza custodita nella tasca della tuta stessa, durante la pausa pranzo e nel mentre ritornava in azienda.

La nozione di stabilimento

Per i giudici di legittimità, premesso che per stabilimento deve intendersi l’edificio all’interno del quale si svolge l’attività lavorativa espletata dal dipendente mentre per azienda deve considerarsi, in termini più generali, tutto l’insieme delle attività finalizzate alla produzione dei beni materiali, quali gli impianti, gli uffici, la logistica (etc.), la ricostruzione adottata dalla Corte di merito risulta carente ed insussistente, sotto il profilo motivazionale, sia in ordine al presupposto da cui parte, circa la “possibile condivisione del fumo con altri colleghi”, ben potendo la detenzione, nel caso in esame, per il quantitativo della sostanza, essere finalizzata esclusivamente ad un consumo personale magari da attuarsi fuori l’ambiente lavorativo e fuori l’orario di lavoro, sia per l’asserito coinvolgimento di tutta l’azienda in un cd. fenomeno di consumo di gruppo e non del solo stabilimento cui era addetto il lavoratore, non risultando ciò avvalorato da alcun elemento di fatto.

Infine – concludono i giudici della Suprema Corte – quanto all’asserito discredito prodotto a danno della società, va rilevato che anche su questo punto manca un accertamento concreto in relazione a tale requisito (cfr. Cass. n. 20545/2015), perché con la diffusione meramente locale del quotidiano che aveva riportato la notizia, non risultava dimostrata alcuna lesione degli interessi di parte datoriale nella loro oggettività in considerazione di un episodio avente comunque carattere extralavorativo.

Da qui l’accoglimento del primo motivo del ricorso principale, con assorbimento dell’esame degli altri, e rigetto del ricorso incidentale.

Una breve riflessione

La sentenza in rassegna ribadisce un importante principio, e precisamente il rapporto tra la previsione dell’articolo 2106 del codice civile e quanto previsto, in funzione integrativa, dalla autonomia collettiva.

Analizza, dunque, il ruolo dell’interprete che non può essere vincolato dalle previsioni della contrattazione collettiva, laddove le relative pattuizioni possono essere ritenute nulle nella misura in cui prevedono come giusta causa o giustificato motivo di licenziamento condotte per loro natura assoggettabili, ex art. 2106 cc, solo ad eventuali sanzioni conservative.

Tuttavia, tale principio non vale nel senso inverso.

Difatti, condotte pur astrattamente ed eventualmente suscettibili di integrare giusta causa o giustificato motivo soggettivo ai sensi di legge non possono rientrare nel relativo novero se l’autonomia collettiva le ha espressamente escluse, prevedendo per esse, con clausola migliorativa per il lavoratore, sanzioni meramente conservative.

In definitiva, ci troviamo di fronte ad un’interessante applicazione del principio del favor lavoratoris in tema di licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo.

avv. Filippo Pagano (f.pagano@clouvell.com)

managing partner at clouvell (www.clouvell.com)

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