L’esercizio, durante il periodo di assenza dal lavoro per malattia o per infortunio, di attività, lavorative o no, tali da poter porre in pericolo, anche senza concreto ed effettivo pregiudizio, la guarigione entro il tempo di assenza giustificata, integra un inadempimento dell’obbligo derivante dal contratto di lavoro e precisamente la violazione dei doveri generali di correttezza e di buona fede e degli obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà, di gravità tale da giustificare il licenziamento, anche in difetto di previsione del contratto collettivo o del codice disciplinare. Viceversa, il licenziamento non è giustificato allorquando risulti accertato che l’attività lavorativa svolta per breve tempo dal lavoratore fosse compatibile con la malattia denunciata (massima redazionale).
Lo ha stabilito la Suprema Corte di Cassazione – sezione lavoro – con sentenza n. 21438 del 21 ottobre 2015
Il caso
Con sentenza del 9 aprile 2014 la Corte d’appello di Lecce, in riforma parziale della decisione emessa dal Tribunale di Taranto, rigettava la domanda proposta da un lavoratore contro la datrice di lavoro ed intesa a far dichiarare l’illegittimità del licenziamento intimatogli.
Le motivazioni della Corte territoriale
La Corte territoriale rilevava che la giusta causa del licenziamento era consistita nell’avere il lavoratore lavorato su un terreno di sua proprietà, nei giorni compresi tra il 20 e il 25 ottobre 2012, arando col trattore e coltivando altresì alberi di agrumi, mentre era assente dal suo posto di lavoro in azienda a causa di un infortunio del 12 precedente, che aveva causato la rottura della base della falange intermedia del secondo dito della mano sinistra. Il lavoratore si era recato sul fondo alla guida di un’autovettura, pur con un’ingessatura nel polso sinistro.
Sulla base delle risultanze processuali la Corte territoriale ha tratto il convincimento che l’attività svolta nel periodo destinato al riposo, seppure non aveva prodotto danno, era stata tuttavia idonea ad aggravare lo stato di salute ed a ritardare la guarigione, e ciò con un “altissimo grado di probabilità”, trattandosi della funzionalità di una mano. Da qui il ricorso per cassazione del lavoratore.
I motivi del ricorso per cassazione.
Col primo motivo il ricorrente lamenta la violazione degli artt.51, primo comma, n.4, e 158 cod. proc civ. in relazione all’art.360, primo comma, n.4, dello stesso codice, per avere in primo grado il medesimo giudice-persona fisica deciso tanto l’ordinanza di cui all’art.1, comma 49, 1. 28 giugno 2012 n.92 quanto la sentenza di cui al successivo comma 57.
La Corte di cassazione rigetta il motivo in quanto, come già ha affermato con sentenza della Suprema Corte 17 febbraio 2015 n.3136 e della Corte cost. n.78 del 2015, la fase dell’opposizione, ai sensi dell’art.1, comma 51, cit. non costituisce un grado diverso rispetto a quella che ha preceduto l’ordinanza, ma solo una prosecuzione del medesimo giudizio in forma ordinaria, sicché non è configurabile alcuna violazione riconducibile all’art.51, n.4, cod. proc. civ. nel caso in cui lo stesso giudice-persona fisica abbia conosciuto la causa in entrambe le fasi.
Col secondo motivo il ricorrente denuncia la violazione degli artt.2104, 2106, 2119 cod. civ., 1 e 3 1.15 luglio 1966 n.604, 18 1. 20 maggio 1970 n.300, affermando la liceità del comportamento del lavoratore il quale, pur assente dall’azienda per malattia, eserciti un’attività lavorativa presso terzi o comunque altrove, o anche un’attività extralavorativa. Nella specie – sostiene il lavoratore – rimossa una stecca ortopedica necessaria a sanare la frattura causata dall’infortunio, ben potè egli esercitare un lavoro compatibile con la malattia sofferta.
Col terzo motivo il medesimo prospetta “motivazione apodittica e quindi inesistente”, ossia violazione degli artt.111, sesto comma, Cost., 132, secondo comma. n.4, cod. proc. civ., 118 disp. att. cod. proc. civ., per omessa indicazione, da parte della Corte d’appello, degli elementi del proprio convincimento, “non supportato da alcuna disamina logico giuridica né tanto meno medico-legale”, sì da rendere non riconoscibile la ratio decidendi. Ma anche tali due motivi vengono ritenuti infondati.
Il principio di diritto
Per gli Ermellini, l’esercizio, durante il periodo di assenza dal lavoro per malattia o per infortunio, di attività, lavorative o no, tali da poter porre in pericolo, anche senza concreto ed effettivo pregiudizio, la guarigione entro il tempo di assenza giustificata, integra un inadempimento dell’obbligo derivante dal contratto di lavoro e precisamente la violazione dei doveri generali di correttezza e di buona fede e degli obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà, di gravità tale da giustificare il licenziamento, anche in difetto di previsione del contratto collettivo o del codice disciplinare, e ciò conformemente al consolidato orientamento (Cass. 5 agosto 2014 n.17625, 29 novembre 2012 n.21253, 21 aprile 2009 n.9474, 19 dicembre 2006 n.27104).
Il precedente giurisprudenziale (apparentemente di segno contrario) citato dal ricorrente.
Per i giudici di piazza Cavour, il precedente citato dal ricorrente in memoria (Cass. 18 febbraio 2015 n.3254) non è pertinente poiché nelle fasi di merito di quel processo i giudici avevano incensurabilmente accertato, anche sulla base di una consulenza tecnica, che l’attività lavorativa svolta per poco tempo dall’incolpato era “compatibile con la malattia” denunciata.
Col quarto motivo il ricorrente deduce la violazione degli artt.50, 51, 52 c.c.n.l. 18 dicembre 2009 per gli addetti all’industria chimica, i quali per la fattispecie qui in esame non prevedono il licenziamento.
Il motivo viene dichiarato improcedibile in quanto ai sensi dell’art.369, secondo comma, n.4, cod. proc. civ. insieme al ricorso per cassazione dev’essere depositato il contratto collettivo, nel testo integrale ( Cass. Sez. un. 23 settembre 2010 n.20075) sul quale l’impugnazione si fonda. Nel caso di specie il ricorrente non ha depositato il testo integrale del contratto ma si è limitato a dire genericamente che esso è “allegato da controparte nel proprio fascicolo di primo grado del giudizio”. Da qui il rigetto del ricorso.
Una breve riflessione
La sentenza in rassegna offre un interessante spunto di riflessione in quanto il principale tema trattato è molto dibattuto soprattutto nella giurisprudenza di merito dove si registrano decisioni di segno discordante l’una dall’altra.
Viceversa, sul fronte di legittimità, proprio alcuni mesi or sono la Suprema Corte – sezione lavoro – aveva pubblicato la sentenza n°4237 del 3 marzo 2015, consultabile al seguente link, con la quale ha affermato il principio in forza del quale il lavoratore che durante la malattia lavora in favore di terzi non può essere licenziato.
Il ricorrente nel caso in esame pone a base del proprio ricorso un altro precedente della Suprema Core (Cass. 18 febbraio 2015 n.3254) che però gli Ermellini ritengono non pertinente poiché nelle fasi di merito di quel processo i giudici avevano incensurabilmente accertato, anche sulla base di una consulenza tecnica, che l’attività lavorativa svolta per poco tempo dall’incolpato era “compatibile con la malattia” denunciata.
Ed effettivamente, anche nella sentenza n.4234 cit. la Suprema Corte afferma che non sussiste per il lavoratore assente per malattia un divieto assoluto di prestare – durante tale assenza – attività lavorativa in favore di terzi, purchè questa non evidenzi una simulazione di infermità, ovvero importi violazione al divieto di concorrenza, ovvero ancora, compromettendo la guarigione del lavoratore, implichi inosservanza al dovere di fedeltà imposto al prestatore d’opera.
In conclusione, alla luce dei precedenti sopra richiamati e dei principi in essi espressi, si può escludere che allo stato ci troviamo di fronte ad interpretazioni contrastanti. Lungi dal sussistere un contrasto, il dato dirimente è, pertanto, la (eventuale) compromissione della guarigione del lavoratore oppure l’allungamento dei tempi di guarigione. Se sussiste la compromissione o l’allungamento dei tempi, si può concludere che la sanzione espulsiva sia proporzionale al fatto. Viceversa, se l’attività “parallela” o “contestuale” non abbia avuto alcuna incidenza causale con la guarigione e non abbia influito sui relativi tempi, allora il fatto, pur potendo assumere i connotati di un illecito disciplinare, purtuttavia non potrà trovare uno sbocco nella sanzione espulsiva.
avv. Filippo Pagano (f.pagano@clouvell.com)
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