“Integra violazione del principio del contraddittorio la condotta degli arbitri i quali, avendo disciplinato il procedimento con la fissazione di termini alle parti per le loro allegazioni ed istanze istruttorie, li abbiano considerati come termini perentori, come quelli di cui agli art. 183 e 184 c.p.c., dichiarando di conseguenza decaduta la parte che non li abbia rispettati dalla facoltà di proporre i quesiti e le istanze istruttorie, senza, tuttavia, che esistesse né alcuna previsione in tal senso nella convenzione d’arbitrato o in un atto scritto separato, né la previa qualificazione dei termini come perentori nel regolamento processuale che gli arbitri si siano dati, né comunque una specifica avvertenza al riguardo rivolta alle parti al momento della concessione di quei termini, in tal modo essendo essi rimasti ingiustificatamente inadempienti al loro dovere di conoscere compiutamente i punti di vista di tutte le parti del procedimento”.
Lo ha affermato la Suprema Corte di Cassazione – sezione prima civile – con sentenza n. 1099 del 21 gennaio 2016
Il caso
Una promissaria acquirente proponeva ricorso per la cassazione della sentenza pronunciata dalla Corte d’appello di Napoli, che aveva respinto l’impugnazione volta alla declaratoria di nullità ex art. 829 c.p.c. di lodo arbitrale.
Il lodo, reso nell’ambito di un contratto preliminare di compravendita immobiliare, aveva accertato la prescrizione di tutti i diritti derivanti alla promissaria acquirente dal preliminare del 6 febbraio 1995, eccezione sollevata dalla promittente venditore.
Nell’impugnazione del predetto lodo, l’impugnante ne ha denunciato la violazione del principio del contraddittorio, per avere gli arbitri dichiarato la promissaria acquirente, la quale pure aveva intrapreso la procedura arbitrale, decaduta dalla facoltà di articolare i propri quesiti e le proprie richieste istruttorie; l’omessa pronuncia sulle domande della promissaria acquirente; l’erronea declaratoria di tardività delle proprie istanze istruttorie; l’assunzione della decisione secondo diritto invece che secondo equità, in violazione della clausola compromissoria; la carenza di motivazione; la pronuncia sulle spese di lite senza poteri al riguardo.
La decisione della Corte territoriale
L’impugnazione del lodo è stata respinta con sentenza del 13 aprile 2012, avendo la corte del merito ritenuto che il collegio arbitrale, esercitando la sua facoltà di regolare lo svolgimento del giudizio secondo il principio del contradditorio, avesse legittimamente fissato precisi termini per l’articolazione di deduzioni e prove, termini che, sebbene del tutto idonei ad assicurare alle parti ragionevoli ed equivalenti possibilità di difesa, non erano stati rispettati dalla promissaria acquirente. Ha, quindi, ritenuto il lodo esaustivamente motivato con riguardo alla ritenuta prescrizione decennale dei diritti della promissaria acquirente.
L’accertamento del maturare di detto termine prescrizionale segue, secondo la corte territoriale, il principio generale secondo cui anche nel giudizio di equità gli arbitri devono rispettare il principio civilistico che sancisce l’estinzione di ogni diritto per prescrizione quando il titolare non lo esercita per il tempo determinato dalla legge, ai sensi dell’art. 2934 c.c.; fra l’altro, essendo la promissaria acquirente rimasta nel possesso del bene durante l’intero periodo ultradecennale, con conseguente incontestata percezione dei frutti civili, risulta così ridotto tra le parti lo squilibrio degli effetti patrimoniali derivanti dal contratto stesso. Infine, il collegio arbitrale ha fatto corretto uso del potere-dovere di pronunciare anche sulle spese del giudizio.
Il motivi del ricorso per cassazione.
Con il primo motivo, la ricorrente si duole della violazione degli art. 816-bis e 829, n. 9 e 12, c.p.c., oltre che del vizio di motivazione omessa, per non avere la corte territoriale dichiarato la nullità del lodo nonostante la violazione del principio del contraddittorio, posto che gli arbitri non avevano precisato alle parti la perentorietà dei termini da essi fissati per la formulazione dei quesiti e la proposizione delle istanze istruttorie, mentre la clausola compromissoria prevede che gli arbitri avrebbero deciso “senza formalità di rito secondo equità”. Nei termini fissati dagli arbitri con la loro ordinanza, essa ricorrente non aveva ritenuto di depositare alcunché, in quanto in disaccordo con l’entità dei compensi dagli arbitri, fissati nella medesima interamente a suo carico.
Con il secondo motivo, la ricorrente si duole della violazione degli art. 816-bis e 829, n. 9, c.p.c., oltre che del vizio di motivazione omessa ed illogica, per non avere la corte territoriale rilevato la nullità del lodo in mancanza della concessione alle parti, ad opera degli arbitri, anche di un termine per articolare la prova contraria.
Con il terzo motivo, deduce la violazione dell’art. 829, n. 4, c.p.c., oltre che il vizio di motivazione insufficiente e contraddittoria, per avere la corte territoriale escluso l’eccesso di potere degli arbitri, i quali hanno ecceduto dai limiti della convenzione di arbitrato, avendo deciso secondo diritto e non secondo equità, né avendo considerato che le questioni in tema di prescrizione non rientrano tra i principi informatori della materia civile. Inoltre, il collegio arbitrale non prese affatto in considerazione la circostanza relativa alla percezione dei frutti civili, nell’ambito di un giudizio di equità; percezione che, peraltro, non aveva comunque eliminato lo squilibrio tra le parti, atteso che, di contro, la società aveva non solo incamerato la caparra di L. 129.100.000, ma aveva poi venduto a terzi il bene, incassandone l’intero prezzo.
Con il quarto motivo, la ricorrente si duole della violazione degli art. 2944 e 2945 c.c., oltre che del vizio di motivazione illogica e contraddittoria, per non avere la corte territoriale considerato che la prescrizione fu interrotta per effetto del riconoscimento del diritto, consistito nella concessione del possesso ultradecennale del bene, sebbene si tratti di circostanza di fatto dalla corte del merito accertata e l’eccezione fosse stata proposta nella comparsa conclusionale in appello; nonché per effetto degli inviti a stipulare il contratto definitivo rivolti all’originario promissario acquirente (che aveva in seguito nominato la ricorrente) dalla parte promittente venditore, come essa stessa aveva dichiarato nel proprio atto di introduzione al procedimento arbitrale del 22 febbraio 2004.
Con il quinto motivo, la ricorrente si duole della violazione e falsa applicazione degli art. 814 e 829, n. 4 e 11, c.p.c., oltre che del vizio di motivazione insufficiente e contraddittoria, per non avere la corte territoriale dichiarato la carenza di potere degli arbitri nel pronunciare la condanna alle spese legali a favore della controparte, che non era stato affatto loro attribuito dalla clausola compromissoria, e per avere applicato quindi erroneamente la corte territoriale l’art. 91 c.p.c., laddove nel procedimento arbitrale la nomina del difensore è solo eventuale ed egli non si costituisce in senso proprio; nonché per avere essa mancato di rilevare l’illegittima attribuzione alla promissaria acquirente delle spese di funzionamento del collegio arbitrale, non dovute in quanto non accettate da tutte le parti.
La Corte di legittimità ritiene fondato il primo motivo
Evidenzia la Corte regolatrice che l’arbitrato in esame, di cui è incontroversa la natura rituale, è disciplinato ratione temporis dalle norme del codice di rito nel testo vigente successivamente alle modificazioni introdotte dal d.lgs. n. 40 del 2006.
A norma dell’art. 816-bis c.p.c., le parti possono stabilire nella convenzione d’arbitrato, oppure con atto separato anteriore all’inizio del procedimento, “le norme che gli arbitri debbono osservare nel procedimento”: in mancanza, “gli arbitri hanno facoltà di regolare lo svolgimento del giudizio nel modo che ritengono più opportuno”, ma essi “debbono in ogni caso attuare il principio del contraddittorio, concedendo alle parti ragionevoli ed equivalenti possibilità di difesa”.
Il principio del contraddittorio nel procedimento arbitrale.
Con riguardo, in generale, al principio del contraddittorio (che già in precedenza veniva ricondotto all’art. 816 c.p.c.), la Suprema Corte ha affermato che, anche nel procedimento arbitrale, l’omessa osservanza del contraddittorio non è un vizio formale, ma di attività, sicché la nullità che ne scaturisce ex art. 829, primo comma, n. 9, c.p.c. implica una concreta compressione del diritto di difesa della parte processuale: deve, cioè, aversi riguardo – affermano i giudici di piazza Cavour – al modo in cui le parti hanno potuto confrontarsi in giudizio in relazione alle pretese ivi esplicate, giacché il vizio di violazione del contraddittorio consegue alla concreta menomazione del diritto di difesa. Tale principio implica che alle parti del giudizio arbitrale deve essere assicurata la possibilità di esercitare su di un piano di eguaglianza le facoltà processuali loro attribuite, nel rispetto della regola audiatur et altera pars (fra le altre, Cass. 27 dicembre 2013, n. 28660).
Nel procedimento arbitrale, ove le parti non abbiano vincolato gli arbitri alle norme del codice di rito, non si applicano le preclusioni ex artt. 183 e 184 c.p.c.
In particolare – proseguono gli Ermellini – ove le parti non abbiano vincolato gli arbitri all’osservanza delle norme del codice di rito, è consentito alle medesime di modificare ed ampliare i quesiti posti nella loro formulazione originaria, nell’ambito dei termini della clausola compromissoria, e di formulare istanze di prova, senza che trovino applicazione le preclusioni di cui agli art. 183 e 184 c.p.c., fermo il rispetto del principio del contraddittorio (Cass. 7 febbraio 2007, n. 2717; 3 maggio 2004, n. 8320; 21 luglio 2000, n. 9583; 4 luglio 2000, n. 8937; 14 febbraio 2000, n. 1620; 21 settembre 1999, n. 10192; 17 dicembre 1993, n. 12517).
La libertà delle forme che caratterizza il procedimento arbitrale.
In ragione della libertà delle forme che caratterizza il procedimento arbitrale – secondo i giudici di legittimità – l’essenziale rilevanza del principio del contraddittorio – che attiene all’ordine pubblico, come emerge dalla complessiva disciplina legale, che ripetutamente lo richiama (cfr. art. 808-ter, 2 ° coma, n. 5; 816-bis, l ° comma; 829, 1 ° comma, n. 9) – finisce, così, per diventare il vero crisma di legittimità del procedimento stesso e garanzia processuale inderogabile, la quale esige che ciascuna parte sia messa nella condizione di svolgere le proprie difese per tutto il corso del procedimento arbitrale, senza incorrere in decadenze “a sorpresa”.
Nei casi in cui, in particolare, agli arbitri non sia dalla clausola compromissoria demandato il compito di applicare le norme del codice di rito, essi sono tenuti, nell’autodisciplina del procedimento che abbiano disposto, a realizzare il contradditorio delle parti, assicurando loro la possibilità di svolgere l’attività assertiva e deduttiva, in qualsiasi modo e tempo, in rapporto agli elementi utilizzati dagli arbitri per la pronuncia, ognuna dovendo avere la possibilità di far valere le sue posizioni e di contrastare le ragioni avversarie, affinché sia garantita la dialettica processuale.
Se, quindi, non vi è dubbio che gli arbitri, nel regolare il miglior ordine del procedimento, possano assegnare alle parti dei termini per precisare i quesiti, depositare documenti ed istanze probatorie, produrre memorie ed esporre le loro repliche, nonché fissare tali termini a pena di decadenza, tuttavia è loro precluso di dichiarare inammissibile un atto o un’istanza, per inosservanza di uno di quei termini, ove non avessero anteriormente, nel modo e nel tempo congruo, stabilito e reso nota alle parti la regola in tal senso adottata.
Il principio di diritto affermato dalla Corte di Cassazione.
“Integra violazione del principio del contraddittorio la condotta degli arbitri i quali, avendo disciplinato il procedimento con la fissazione di termini alle parti per le loro allegazioni ed istanze istruttorie, li abbiano considerati come termini perentori, come quelli di cui agli art. 183 e 184 c.p.c., dichiarando di conseguenza decaduta la parte che non li abbia rispettati dalla facoltà di proporre i quesiti e le istanze istruttorie, senza, tuttavia, che esistesse né alcuna previsione in tal senso nella convenzione d’arbitrato o in un atto scritto separato, né la previa qualificazione dei termini come perentori nel regolamento processuale che gli arbitri si siano dati, né comunque una specifica avvertenza al riguardo rivolta alle parti al momento della concessione di quei termini, in tal modo essendo essi rimasti ingiustificatamente inadempienti al loro dovere di conoscere compiutamente i punti di vista di tutte le parti del procedimento”.
Da qui la cassazione della sentenza impugnata con rinvio della causa alla Corte d’appello di Napoli, in diversa composizione, perché decida l’impugnazione del lodo, alla stregua del principio sopra enunciato.
Una breve riflessione
Interessante il principio espresso dalla Suprema Corte in relazione al caso posto al esame.
Ciò che viene in rilievo è, alla fine, il principio di lealtà che deve informare il procedimento arbitrale, il quale non può prevedere, a carico della parte, delle decisioni “a sorpresa”.
Difatti, la Suprema Corte evidenzia chiaramente che non è in discussione il potere degli arbitri di fissare termini perentori. Ciò che è invece in discussione è la facoltà, da parte degli arbitri, di ritenere perentori quei termini senza che essi (arbitri) siano stati vincolati a seguire le regole del codice di rito, oppure senza ciascuna parte fosse stata adeguatamente informata, previamente, o con atto separato, della perentorietà del termine.
avv. Filippo Pagano (f.pagano@clouvell.com)
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