I principi enunciati dalla Corte di cassazione nel 2008 con la sentenza n.26972 non stanno a significare che le somme da attribuirsi in risarcimento dei danni non patrimoniali alla vittime di lesioni personali debbano essere sempre e indiscriminatamente ridotte rispetto a quanto prima avveniva. Sono stati invece elaborati in vista della finalità opposta, di razionalizzare la complessa materia del risarcimento dei danni non patrimoniali, richiamando gli interpreti alla necessità di commisurare le somme attribuite all’effettiva esistenza ed entità dei danni, soprattutto in materia di danno alla persona ed all’integrità fisica, le cui conseguenze pregiudizievoli di carattere non patrimoniale sono indubbiamente molteplici, complesse e suscettibili di ampliamento “a cascata”. Da qui la sollecitazione a verificare che le varie voci di danno e la gamma dei pregiudizi che la realtà, e la fantasia degli interpreti, hanno saputo o sapranno ipotizzare quali conseguenze della lesione dell’integrità fisica (non solo il dolore fisico e psichico, che presentano rispetto al danno biologico un’autonomia concettuale chiara e facilmente individuabile; ma soprattutto il danno esistenziale e il danno alla vita di relazione nei loro molteplici risvolti – familiari, affettivi, amicali, sociali, ecc. – il cd. danno alla qualità della vita, anche nelle sue più indirette e lontane manifestazioni, e simili) abbiano un’effettiva consistenza quali pregiudizi autonomi e diversi dai meri risvolti del danno biologico, sì da meritare un risarcimento aggiuntivo; e d’altro canto non si riducano a disagi o fastidi di carattere futile ed immeritevole di giuridica considerazione, quali “le minime intrusioni nella propria sfera personale inevitabilmente scaturenti dalla convivenza” che “il dovere di solidarietà, di cui all’art. 2 Cost., impone a ciascuno di tollerare”.
Lo ha stabilito la Suprema Corte di Cassazione – sezione terza civile – con sentenza n. 16197 del 30 luglio 2015
Il caso
Con atto di citazione del 2002 un danneggiato ha convenuto davanti al Tribunale competente il conducente, il proprietario e la compagnia di assicurazioni di un autocarro che il 5 agosto 1998 – omettendo di arrestarsi ad un segnale di STOP – ha provocato lo scontro con l’automobile condotta e di proprietà dell’attore, il quale ha riportato gravissime lesioni personali.
L’attore ha chiesto la condanna dei convenuti al risarcimento dei danni, quantificati in € 3.144.202,98, detratto l’importo anticipato dalla compagnia assicuratrice (€ 723.039,65).
Si è costituita la compagnia di assicurazioni e ha resistito alle domande, deducendo il concorso di colpa dell’infortunato.
Nel corso del giudizio sono intervenuti i genitori dell’attore chiedendo il risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali da essi personalmente subiti.
Esperita l’istruttoria anche tramite CTU sulla dinamica del sinistro e sulla persona dell’attore, il Tribunale ha dichiarato unico responsabile dell’incidente il conducente l’autocarro ed ha condannato i convenuti in via solidale al pagamento della somma complessiva di € 1.898.490,00 in favore dell’infortunato, di cui è stata accertata l’inabilità permanente in misura pari al 90% del totale; di € 22.418,00 in favore del padre e di € 46.917,69 in favore della madre, oltre al rimborso delle spese di CTU e del 50% delle spese processuali.
Proposto appello principale dai danneggiati e incidentale dalla compagnia assicuratrice, con sentenza 4 maggio – 22 agosto 2011 n. 495, la Corte di appello ha confermato la sentenza di primo grado quanto all’accertamento della responsabilità; ha ridotto ad €. 1.469.364,63 la somma complessivamente spettante all’infortunato, riunendo in un’unica voce i danni biologici e i danni morali; ha incrementato ad € 93.186,69 la somma spettante alla madre del danneggiato ed ha confermato nel resto la sentenza di primo grado, compensando le spese di appello.
Il danneggiato propone dieci motivi di ricorso per cassazione.
Preliminarmente, il danneggiato eccepisce l’inammissibilità del controricorso per il fatto che l’atto è stato redatto e depositato dalla s.p.a. Generali Business Solutions, qualificatasi come mandataria della s.p.a. Assicurazioni generali in forza di procura notarile del 14 dicembre 2009 ed in persona dei procuratori speciali di cui ad altra procura notarile in data 30 marzo 2010, sul rilievo che i suddetti rogiti notarili di conferimento del mandato e di nomina dei procuratori non sono stati prodotti in giudizio, contestualmente al controricorso; sicché non è possibile verificare quale ne fosse il contenuto. Donde la nullità – inefficacia della procura alle liti, conferita da GBS ai difensori costituiti nel presente giudizio, in mancanza di atto idoneo a giustificare i poteri, sostanziali e processuali, che sarebbero stati conferiti a GBS dalla parte direttamente interessata.
Se la procura ad litem viene rilasciata da un soggetto che agisce in nome e per conto del titolare del diritto, deve essere prodotta la relativa procura ove conferita per atto notarile.
Per la Suprema Corte deve essere dichiarata inammissibile l’impugnazione proposta a nome e per conto di una società per azioni, per difetto di idonea procura alle liti, nel caso in cui la procura sia stata rilasciata, in nome e per conto della società, da altro soggetto che si qualifichi come rappresentante della stessa per averne ricevuto apposito mandato con atto notarile, qualora tale atto non sia stato prodotto in giudizio, pur se ne siano stati indicati gli estremi.
In tal caso infatti – secono gli Ermellini – non è possibile verificare l’effettiva sussistenza ed il contenuto dei poteri rappresentativi asseritamente conferiti; né, in particolare, se ed in che limiti sia stata conferita la rappresentanza sostanziale relativamente al rapporto dedotto in giudizio, considerato che la rappresentanza processuale, con la relativa facoltà di nomina dei difensori, può essere attribuita solo a colui che sia investito anche di un potere rappresentativo di natura sostanziale (Cass. civ. 25 settembre 2007 n. 19922; Cass. civ. 21 ottobre 2013 n. 23786, a proposito dell’atto di appello; Cass. civ. S.U. 8 maggio 1998 n. 4666, quanto alla necessità che la rappresentanza processuale sia conferita unitamente alla rappresentanza sostanziale).
Il primo ed il secondo motivo di ricorso
Con il primo e il secondo motivo i ricorrenti lamentano che la Corte di appello abbia violato il principio per cui il risarcimento dei danni non patrimoniali deve essere integrale ed effettivo, nel capo in cui ha riassorbito il risarcimento dei danni morali nella somma attribuita all’infortunato in risarcimento del danno biologico: somma che ha ritenuto comprensiva di tutte le conseguenze non patrimoniali delle lesioni, anziché procedere alla c.d. personalizzazione del danno e del relativo compenso, sì da tenere conto, in aggiunta al danno biologico, delle molteplici e dolorose limitazioni che le lesioni hanno apportato alla sua vita affettiva e relazionale.
Il terzo ed il quarto motivo di ricorso
Il terzo ed il quarto motivo sollevano analoghe censure quanto all’omessa liquidazione dei danni c.d. esistenziali, consistenti nel grave pregiudizio arrecato dal sinistro alle attività extralavorative, alla vita affettiva, alla sessualità, alla perdita da parte dell’infortunato delle opportunità di costituirsi una famiglia e delle conseguenti gratificazioni affettive.
La Corte accoglie tutti i e quattro i motivi.
Per i giudici di Piazza Cavour la Corte territoriale:
- ha premesso di volersi uniformare ai principi enunciati dalla Corte di cassazione a sezioni unite con le sentenze del novembre 2008 (in particolare, con la n. 26972 del 2008), di cui ha citato testualmente la massima secondo cui, nella liquidazione dei danni non patrimoniali da lesione della salute, il giudice deve tener conto di tutti i pregiudizi concretamente subiti dalla vittima, “ma senza duplicare il risarcimento attraverso l’attribuzione di nomi diversi a pregiudizi identici; con la conseguenza che è inammissibile, perché costituisce una duplicazione risarcitoria, la congiunta attribuzione alla vittima del risarcimento sia per il danno biologico, sia per il danno morale, inteso quale sofferenza soggettiva, il quale costituisce necessariamente una componente del primo (posto che qualsiasi lesione della salute implica necessariamente una sofferenza fisica o psichica), come pure la liquidazione del danno biologico separatamente da quello c.d. estetico, da quello alla vita di relazione e da quello c.d. esistenziale;
- ha soggiunto che le c.d. tabelle milanesi hanno proposto, fin dal 2009, una liquidazione congiunta del danno non patrimoniale da lesione permanente dell’integrità fisica suscettibile di accertamento medico legale, nonché del danno non patrimoniale in termini di dolore e sofferenza soggettiva – pregiudizi liquidati separatamente fino al 2008 – e, sulla base di queste sole premesse, ha ridotto ad € 883.498,00 onnicomprensivi la somma che il Tribunale aveva quantificato in 990.844,00 (Ricorso, p. 13), senza tenere conto di alcun criterio di personalizzazione e senza specificare per quali ragioni la somma liquidata dal Tribunale dovrebbe ritenersi eccessiva, in relazione ai danni subiti dall’infortunato.
L’erroneità della interpretazione della sentenza a sezioni unite n.26972 del 2008.
La Suprema Corte condivide sul punto le doglianze del ricorrente circa l’erronea interpretazione della giurisprudenza della Corte di legittimità e l’illogicità della motivazione, in quanto l’esigenza di includere in un’unica somma le varie voci risarcitorie che compongono i danni non patrimoniali conseguenti all’inabilità fisica e quella di evitare duplicazioni risarcitorie, non valgono ad escludere che la somma complessivamente liquidata al danneggiato debba essere integralmente satisfattiva.
L’errore della Corte territoriale
Per gli Ermellini, la Corte di merito si è limitata a sostituire ai criteri di valutazione dei danni non patrimoniali in vigore alla data in cui è stata emessa la sentenza di primo grado i meno favorevoli criteri di cui alle tabelle milanesi approvate nel 2009 – non in vigore alla data dell’incidente, né alla data della domanda giudiziale, né a quella della decisione di primo grado – senza alcun riferimento alle specificità del caso e omettendo di prendere in esame la sussistenza o meno degli estremi per la personalizzazione della liquidazione.
La funzione delle tabelle elaborate dalle Corti.
Per i giudici di legittimità, le tabelle elaborate dalle Corti svolgono indubbiamente un’utile funzione al fine di evitare eccessive disparità di trattamento e di garantire un certo grado di certezza e di prevedibilità delle decisioni, in una materia in cui non esistono parametri obiettivi di valutazione.
La necessità di una “calibrazione” delle tabelle.
Esse (le tabelle) offrono, tuttavia, criteri meramente indicativi di valutazione e debbono essere sempre attentamente calibrate con riguardo alle peculiarità del caso, soprattutto quando il mutamento dei criteri giurisprudenziali di valutazione sia sopravvenuto in corso di causa.
Le tabelle del Tribunale di Milano non hanno cancellato il danno morale per riassorbirlo nel danno biologico.
Proprio con riferimento ad un caso simile si è chiarito – proseguono i giudici di piazza Cavour – che le tabelle del Tribunale di Milano, modificate nel 2009 e applicabili dai giudici di merito su tutto il territorio nazionale, non hanno cancellato il danno morale per riassorbirlo nel danno biologico, ma hanno provveduto ad una liquidazione congiunta del danno non patrimoniale derivante da lesione permanente all’integrità psicofisica e del danno non patrimoniale derivante dalla stessa lesione in termini di dolore e sofferenza soggettiva.
Il danno morale va tenuto distinto dal danno biologico
Inoltre – prosegue la Suprema Corte – la fattispecie del danno morale, da intendersi come “voce” integrante la più ampia categoria del danno non patrimoniale, trova conferma e rinnovata espressione in recenti interventi normativi, quali il D.P.R. 3 marzo 2009, n. 37 e il D.P.R. 30 ottobre 2009, n. 181, che distinguono, concettualmente ancor prima che giuridicamente, tra la “voce” di danno c.d. biologico e la “voce” di danno morale; che da tale distinzione il giudice del merito non può prescindere, trovando essa la sua giustificazione in una fonte abilitata a produrre diritto (Cass. civ. Sez. 3, 12 settembre 2011 n. 18641; Cass. civ. Sez. 3, 12 dicembre 2008 n. 20191, che parimenti esclude l’applicabilità di meccanismi semplificativi di liquidazione di tipo automatico, tramite la rigida quantificazione del danno morale in una quota minore e proporzionale del danno alla salute).
Il danno morale non è ricompreso nel danno biologico.
Chiariscono gli Ermellini che il danno morale, pur costituendo un pregiudizio non patrimoniale al pari di quello biologico, non è ricompreso in quest’ultimo e va liquidato autonomamente, non solo in forza di quanto normativamente stabilito dall’art. 5, lettera c), D.P.R. 3 marzo 2009, n. 37, ma in ragione della differenza ontologica fra le due voci di danno, che corrispondono a due momenti essenziali della sofferenza dell’individuo: il dolore interiore e la significativa alterazione della vita quotidiana (Cass. civ. Sez. 3, 3 ottobre 2013 n. 22585; Cass. civ. Sez. Lav. 16 ottobre 2014 n. 21917).
Le tabelle non hanno efficacia vincolante ed inderogabile.
In sintesi, le tabelle di liquidazione offrono i parametri di base ai quali attenersi, in vista di valutazioni tendenzialmente unitarie; ma l’esigenza dell’integrale e adeguato risarcimento dei danni impedisce di attribuire loro efficacia vincolante e inderogabile ed impone di valutarne l’adeguatezza ad assicurare al danneggiato l’integrale risarcimento, tenuto conto delle peculiarità del caso.
La sentenza impugnata, sostengono i guidici della Cassazione, ha ridotto in misura consistente la somma attribuita al danneggiato dal Tribunale in risarcimento dei danni non patrimoniali sulla base di mere affermazioni di principio e dell’astratta considerazione di nuovi e diversi valori tabellari – non in vigore, si ripete, né alla data del sinistro, né a quelle della domanda e della prima pronuncia giudiziale – senza alcuna verifica e senza alcuna illustrazione delle ragioni per cui la valutazione del Tribunale dovrebbe ritenersi inadeguata.
Una interpretazione “autentica” della sentenza a sezioni unite del 2008.
E’ appena il caso di ricordare – proseguono i medesimi giudici – che i principi enunciati dalla Corte di cassazione nel 2008 non stanno a significare che le somme da attribuirsi in risarcimento dei danni non patrimoniali alla vittime di lesioni personali debbano essere sempre e indiscriminatamente ridotte rispetto a quanto prima avveniva. Sono stati invece elaborati in vista della finalità opposta, di razionalizzare la complessa materia del risarcimento dei danni non patrimoniali, richiamando gli interpreti alla necessità di commisurare le somme attribuite all’effettiva esistenza ed entità dei danni, soprattutto in materia di danno alla persona ed all’integrità fisica, le cui conseguenze pregiudizievoli di carattere non patrimoniale sono indubbiamente molteplici, complesse e suscettibili di ampliamento “a cascata”.
Da qui la sollecitazione a verificare che le varie voci di danno e la gamma dei pregiudizi che la realtà, e la fantasia degli interpreti, hanno saputo o sapranno ipotizzare quali conseguenze della lesione dell’integrità fisica (non solo il dolore fisico e psichico, che presentano rispetto al danno biologico un’autonomia concettuale chiara e facilmente individuabile; ma soprattutto il danno esistenziale e il danno alla vita di relazione nei loro molteplici risvolti – familiari, affettivi, amicali, sociali, ecc. – il cd. danno alla qualità della vita, anche nelle sue più indirette e lontane manifestazioni, e simili) abbiano un’effettiva consistenza quali pregiudizi autonomi e diversi dai meri risvolti del danno biologico, sì da meritare un risarcimento aggiuntivo; e d’altro canto non si riducano a disagi o fastidi di carattere futile ed immeritevole di giuridica considerazione, quali “le minime intrusioni nella propria sfera personale inevitabilmente scaturenti dalla convivenza” che “il dovere di solidarietà, di cui all’art. 2 Cost., impone a ciascuno di tollerare” (Cass. civ. n. 26972/2011).
Perché la Suprema Corte ritiene che il caso in esame non rientri in alcuno dei suddetti limiti.
Per gli Ermellini, il danneggiato, diciottenne alla data del sinistro, ha riportato un grado di invalidità permanente del 90%, con marcato danno psichico, comprensivo di grave deficit alla memoria, e gravissimo pregiudizio alla funzione deambulatoria.
Trattasi di lesioni in linea di principio idonee a far ipotizzare che l’infortunato abbia risentito sofferenze e danni esclusivamente morali di notevole entità e meritevoli di un compenso aggiuntivo, rispetto a quello che gli è stato attribuito per il solo danno biologico, il quale ultimo tiene conto solo delle limitazioni collegate alla perdita del “valore d’uso” del proprio corpo.
La relativa quantificazione avrebbe dovuto tenere conto della durata e dell’intensità del dolore, fisico e psichico (in relazione a numero, natura e complessità delle cure e soprattutto degli interventi chirurgici; alla limitazione delle opportunità di farsi una famiglia, di coltivare amicizie ed affetti; di svolgere attività sportive e ricreative e così via), opportunità tutte variabili da individuo a individuo in relazione all’età e alla natura delle lesioni, tenere conto solo in sede di personalizzazione dei valori di cui alle tabelle.
La carenza di motivazione, sul punto, della sentenza di merito.
La sentenza impugnata non ha dedicato una sola parola a tali aspetti, né alle ragioni per le quali non ha ritenuto di procedere neppure alla personalizzazione della somma spettante a titolo risarcitorio, in via correttiva dei rigidi valori tabellari, come previsto anche dalle tabelle milanesi del 2009.
Il quinto ed il sesto motivo di ricorso.
Il quinto ed il sesto motivo di ricorso denunciano violazione di legge, ed in particolare violazione degli art. 2056, 1223 e 1226 cod. civ., ed insufficiente od illogica motivazione, in relazione alla quantificazione del danno patrimoniale da lucro cessante, che è derivato al danneggiato dalla perdita totale della capacità lavorativa specifica.
Lamenta il ricorrente che la Corte di appello abbia ritenuto adeguata la liquidazione del Tribunale (€ 295.024,00), effettuata sulla base dei coefficienti di capitalizzazione delle rendite vitalizie fissati nella tabelle di cui al r.d. 9 ottobre 1922 n. 1403, tabelle che sono state redatte sulla base delle tavole di sopravvivenza della popolazione italiana elaborate nel 1901 e nel 1911, allorché la durata della vita media era inferiore di circa 25 anni alla media attuale ed il tasso di interesse annuo era calcolato al 4,5%, largamente superiore ai tassi applicabili dal 1999 in avanti.
Rileva che la Corte di appello ha dato atto, nella motivazione, di dover procedere all’attualizzazione della somma risultante dal calcolo tabellare di cui sopra, ma ha poi omesso di procedervi in termini realistici, ritenendo sufficiente allo scopo la mancata applicazione della riduzione corrispondente allo scarto fra vita fisica e vita lavorativa.
Riferisce di avere sottoposto alla Corte di appello la grave sottovalutazione del danno, in considerazione del fatto che il coefficiente di capitalizzazione della rendita corrispondente all’età dell’infortunato (18 anni) era del 19,383 in base alle tabelle del 1922, mentre è pari a 54,64 (per gli uomini) applicando i coefficienti di cui alle tabelle di mortalità della popolazione italiana del 1981, anch’essi ad oggi ampiamente superati.
Fa rilevare che la controparte non ha mai contestato i suddetti dati, e che ciò nonostante la Corte di merito li ha disattesi senza alcuna motivazione specifica, nonostante la grave sottovalutazione che ne è derivata, quanto al risarcimento della voce di danno in oggetto.
La Corte di cassazione accoglie anche questi motivi di ricorso.
Difatti, per i giudici di piazza Cavour, la Corte di appello ha ritenuto di avere sufficientemente motivato la sua decisione, avendo richiamato il principio enunciato dalla Suprema Corte, secondo cui – ove il giudice di merito utilizzi il criterio della capitalizzazione del danno patrimoniale futuro, adottando i coefficienti di capitalizzazione della rendita fissati nelle tabelle di cui al R.D. 9 ottobre 1922, n. 1403 – egli deve adeguare detto risultato ai mutati valori reali dei due fattori posti a base delle tabelle adottate: cioè deve tenere conto dell’aumento della vita media e della diminuzione del tasso di interesse legale, ed a tale scopo, onde evitare una divergenza tra il risultato del calcolo tabellare ed una corretta e realistica capitalizzazione della rendita, prima ancora di “personalizzare” il criterio adottato al caso concreto, deve “attualizzare” lo stesso, o aggiornando il coefficiente di capitalizzazione tabellare o non riducendo più il coefficiente a causa dello scarto tra vita fisica e vita lavorativa (Cass. civ. Sez. 3, 2 marzo 2004 n. 4186; Idem, 2 luglio 2010 n. 15738).
Ha ritenuto, cioè, che agli effetti dell’attualizzazione, sia indifferente il ricorso all’aggiornamento del coefficiente di capitalizzazione, oppure alla soppressione della riduzione corrispondente allo scarto fra vita fisica e vita lavorativa: il che invece non sempre si verifica.
La corretta quantificazione del danno patrimoniale da lucro cessante per perdita totale della capacità lavorativa specifica.
Occorre per contro accertare – secondo la Suprema Corte – caso per caso se, tenuto conto dell’età dell’infortunato, del grado di invalidità, della data del sinistro e della sua liquidazione e di ogni altra circostanza rilevante, la mancata detrazione della percentuale di abbattimento della rendita per lo scarto fra vita fisica e vita lavorativa sia sufficiente criterio di attualizzazione, cioè valga a coprire adeguatamente la differenza fra l’importo determinato in base al r.d. del 1922 e quello a cui il danneggiato ha diritto in considerazione degli attuali coefficienti. Nella specie, la motivazione sul punto è del tutto carente, nonostante le specifiche contestazioni del danneggiato ed i calcoli da lui effettuati con l’atto di appello circa la rilevante differenza fra la somma liquidata sulla base dei vecchi coefficienti e quella a cui il danneggiato avrebbe diritto nel caso di effettiva e concreta attualizzazione della somma spettante.
La valutazione equitativa non equivale a liquidazione arbitraria.
La Suprema Corte ricorda che la valutazione equitativa dei danni che non possano essere quantificati nel loro preciso ammontare non deve essere una liquidazione arbitraria, cioè del tutto sganciata dall’effettiva entità del pregiudizio economico risentito dal danneggiato e manifestamente inadeguata allo scopo, e che ad essa occorre procedere con riferimento a parametri di valutazione il più possibile attendibili e razionali. Tali non sono, ad oggi, i dati espressi dalle tabelle di capitalizzazione delle rendite vitalizie, risalenti al 1922.
Il settimo e l’ottavo motivo di ricorso.
La Suprema Corte accoglie anche il settimo e l’ottavo motivo che denunciano ancora violazione delle norme in tema di quantificazione dei danni e vizi di motivazione, con riguardo all’incompleto ristoro delle spese che il danneggiato dovrà sopportare per l’assistenza personale, non essendo autosufficiente né in grado di provvedere a se stesso, a seguito del sinistro.
L’appellante aveva quantificato la somma spettante a questo titolo in oltre € 700.000,00, in considerazione della retribuzione da corrispondere al personale di servizio per l’intera giornata e per tutti gli anni che gli restano da vivere.
La Corte di appello ha liquidato la somma di € 150.000,00 con la motivazione che “…da un lato spese immediate di assistenza non sono ragionevolmente prevedibili, data l’ancor relativamente giovane età dei genitori del danneggiato (rispettivamente 63 e 64 anni), pacificamente dedicatisi alla cura dello sfortunato figlio…, e che il danno può essere determinato nella somma sopra indicata “…anche in ragione del fatto che il mancato utilizzo di detta somma può consentire adeguate forme di impiego del capitale”.
Il danno futuro per l’assistenza personale
Rilevano i giudici di piazza Cavour che la Corte di appello non ha escluso che il danneggiato necessiti di assistenza continua, tale da giustificare quanto meno l’impegno di una persona per l’intera giornata (oltre alle sostituzioni per i periodi di riposo) e che quindi abbia diritto al rimborso delle relative spese. Ma ha ritenuto che i relativi oneri economici e personali possano essere legittimamente trasferiti dal danneggiante a carico degli anziani genitori dell’infortunato.
L’impegno affettivo e personale dei genitori – chiarisce la Corte Suprema – sarà presumibilmente sempre presente, ad integrare il lavoro di apposito personale e a vigilare sullo stesso; ma non lo si può trasformare in un vero e proprio obbligo di supplire con il proprio lavoro personale e a proprie spese alla carenza di assistenza specifica, come nella sostanza avverrebbe tramite la negazione all’infortunato di una somma idonea ad affrontare la spesa di tale assistenza.
Si può indubbiamente tenere conto in certa misura del contributo dei familiari alla cura dell’infortunato, ma la somma attribuita in risarcimento deve essere comunque adeguata a coprire le spese indispensabili per il personale di supporto, anche in presenza dei genitori, ed in particolare in previsione degli anni in cui questi potrebbero venire a mancare.
A tale scopo la somma spettante in risarcimento va determinata con riferimento ai dati desumibili dalle leggi e dal mercato in ordine all’entità delle retribuzioni spettanti al personale di assistenza.
Né si può richiedere che l’infortunato – inabile al 90% e di professione commesso di negozio – o gli anziani genitori di lui, si dedichino a cospicui e remunerativi investimenti finanziari al fine di far fruttare oltre misura l’esigua somma anticipata dai responsabili, come ipotizzato dalla Corte di merito.
Il nono e il decimo motivo di ricorso.
La Suprema Corte, infine, rigetta il nono motivo di ricorso, che lamenta vizi di motivazione nel capo in cui la Corte di appello ha negato al danneggiato il rimborso delle spese di riabilitazione (concesso dal Tribunale) non può essere accolto. Ciò in quanto la Corte di appello ha rilevato che dette spese avrebbero potuto essere evitate, ricorrendo alle prestazioni del Servizio Sanitario Nazionale, ed il ricorrente non risulta avere dimostrato il contrario, nelle competenti sedi di merito.
Quanto al decimo motivo di ricorso, con cui il ricorrente lamenta che la Corte di appello, come già il Tribunale, gli abbia negato il rimborso della spesa che dovrà affrontare per l’acquisto di una nuova abitazione, priva di barriere architettoniche e adeguata alle sue gravi infermità, esso viene parimenti rigettato sul presupposto che gli era stato già concesso un rimborso nei limiti di € 40.000,00, e che la Corte di appello ha respinto la richiesta con motivazione condivisibile, cioè in base al rilievo che, per acquistare una nuova casa, il danneggiato può mettere in vendita quella che ha, il cui corrispettivo, unitamente alle somme che ha già ricevuto, è da ritenere sufficiente a risarcirlo. Di conseguenza, in accoglimento dei primi otto motivi di ricorso, la Suprema Corte cassa la sentenza con rinvio.
Una breve riflessione.
La sentenza in rassegna ritorna sulla annosa querelle della (autonoma) risarcibilità del danno morale rispetto al danno biologico nata a seguito della nota sentenza a sezioni unite del 2008.
E l’aspetto davvero interessante è che, nel caso in esame, i giudici della Suprema Corte forniscono una interpretazione per così dire “autentica” di quella sentenza a sezioni unite i cui principi enunciati “non stanno a significare che le somme da attribuirsi in risarcimento dei danni non patrimoniali alla vittime di lesioni personali debbano essere sempre e indiscriminatamente ridotte rispetto a quanto prima avveniva” e che “sono stati invece elaborati in vista della finalità opposta, di razionalizzare la complessa materia del risarcimento dei danni non patrimoniali, richiamando gli interpreti alla necessità di commisurare le somme attribuite all’effettiva esistenza ed entità dei danni, soprattutto in materia di danno alla persona ed all’integrità fisica, le cui conseguenze pregiudizievoli di carattere non patrimoniale sono indubbiamente molteplici, complesse e suscettibili di ampliamento “a cascata“”.
Da ciò ne consegue che non tutti i danni morali sono suscettibili di autonomo risarcimento ma solo quelli che abbiano un’effettiva consistenza quali pregiudizi autonomi e diversi dai meri risvolti del danno biologico, sì da meritare un risarcimento aggiuntivo, non riducendosi a disagi o fastidi di carattere futile ed immeritevole di giuridica considerazione, quali “le minime intrusioni nella propria sfera personale inevitabilmente scaturenti dalla convivenza” che “il dovere di solidarietà, di cui all’art. 2 Cost., impone a ciascuno di tollerare” (cfr Cass. civ. n. 26972/2011).
Ed allora, la nota sentenza a sezioni unite del 2008, cavallo di battaglia delle compagnie di assicurazione nei giudizi di risarcimento danni, non potrà essere “opposta” per ridurre indiscriminatamente le voci di danno spettanti al danneggiato. Spetterà a quest’ultimo dimostrare, dettagliatamente, la ricorrenza dei presupposti per la risarcibilità delle (ulteriori) voci di danno morale, esistenziale ecc. Ma quando ciò verrà fatto, spetterà al giudice di merito dare atto delle ragioni per le quali dette voci di danno non possono essere liquidate in aggiunta al danno biologico.
Dunque, nessun automatismo, né in un senso, né in un altro. Si alla personalizzazione del danno.
avv. Filippo Pagano (f.pagano@clouvell.com)
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