Il rapporto tra fatto noto e fatto ignoto nella prova per presunzioni

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Non occorre che tra il fatto noto e quello ignoto sussista un legame di assoluta ed esclusiva necessità causale, ma è sufficiente che il fatto da provare sia desumibile dal fatto noto come conseguenza ragionevolmente possibile, secondo un criterio di normalità, essendo sufficiente che il rapporto di dipendenza logica tra il fatto noto e quello ignoto sia accertato alla stregua di canoni di probabilità, con riferimento ad una connessione possibile e verosimile di accadimenti, la cui sequenza e ricorrenza possono verificarsi secondo regole di esperienza.

Lo ha ribadito la Suprema Corte di Cassazione – sezione prima civile – con ordinanza n. 21360 del 29 agosto 2018

Il rapporto tra fatto noto e fatto ignoto nella prova per presunzioni

Il rapporto tra fatto noto e fatto ignoto nella prova per presunzioni

Il caso 

La Corte d’appello di Brescia, con sentenza pronunciata in giudizio promosso da una correntista nei confronti della Banca per sentirla condannare alla restituzione delle somme, versate dalla stessa (per complessive £ 314.000.000), che, rispetto al rapporto, aperto nel 1997, di conto corrente, dì cui l’attrice era co-intestataria, nonché al contratto di negoziazione, sottoscrizione, collocamento e raccolta ordini concernenti valori mobiliari e relativo deposito titoli a custodia ed amministrazione, fossero risultate non imputabili alla prima e riguardanti operazioni non effettuate (in relazione alla vendita, non autorizzata, di CCT, acquistati nel 1997) – ha confermato la decisione di primo grado, che aveva respinto le domande attrici avanzate a titolo di responsabilità contrattuale e dichiarato inammissibile quella proposta a titolo di responsabilità extracontrattuale.

L’appello

La Corte d’appello, in particolare, quanto alle censure, sollevate unicamente rispetto alle statuizioni relative alla responsabilità contrattuale della banca, ha rilevato che risultava provato l’invio degli estratti conto all’indirizzo della cointestataria del conto (la «figlia» dell’attrice, rectius la nipote, come specificato dall’attuale ricorrente);

che quest’ultima aveva solo lamentato, con missiva del 2001, il mancato inoltro di comunicazioni «recenti»; che ogni contestazione doveva ritenersi tardiva, in quanto intervenuta solo a distanza di tre anni dalla chiusura del conto corrente (o meglio dal passaggio a sofferenza dello stesso, stante il saldo debitore, risultante al marzo 2001), cosicché le operazioni dovevano ritenersi approvate;

con riguardo poi alle operazioni di investimento/disinvestimento, ha osservato la Corte di appello che la contestazione, in ordine alla mancanza di un’informazione specifica in merito agli strumenti finanziari negoziati, risultava sollevata, per la prima volta, in appello ed era pertanto inammissibile, ex art.345 c.p.c., mentre, quanto all’asserita convalidazione di negozio nullo, operata dal giudice di primo grado, la censura non coglieva la ratio decidendi, avendo il Tribunale ritenuto non raggiunta la prova dell’inesistenza degli ordini di acquisto impartiti alla banca.

Il ricorso per cassazione

Avverso la suddetta sentenza, la correntista propone ricorso per cassazione, affidato a quattro motivi.

I motivi di ricorso

La ricorrente lamenta: 1) con il primo motivo, la violazione e falsa applicazione, ex art.360 n. 3 c.p.c., dell’art. 2729 c.c. e degli artt. 1832 e 1857 c.c., avendo la Corte d’appello erroneamente ritenuto provato l’invio degli estratti conto e la loro conoscibilità da parte di essa ricorrente, dando rilevo ad una missiva del suo legale di contenuto del tutto vago e non implicante comunque il riconoscimento della ricezione degli estratti conto relativi al periodo antecedente al gennaio 2000; osserva inoltre che la mancata contestazione degli estratti conto non comporta l’incontestabilità del debito da essi risultante, fondato su negozio annullabile, nullo o inefficace, essendovi stata, nella specie, legittima contestazione di operazioni non volute né ordinate; 2) con il secondo motivo, la violazione o falsa applicazione, ex art.360 n. 3 c.p.c., dell’art.2697 c.c., avendo il giudice di primo grado e la Corte d’appello ritenuta presuntivamente provata la sua conoscenza degli estratti conto, ignorando l’esistenza di elementi probatori contrari, dai quali si evinceva che i documenti non erano stati inviati all’indirizzo contrattualmente eletto, ma a diverso indirizzo, e che comunque non era stata dimostrata la loro ricezione; 3) con il terzo motivo, la violazione o falsa applicazione, ex art.360 n. 3 c.p.c., degli artt.21 d.lgs. 58/1998, 23, 26, 28, 29, 61, 63 e 69 del Regol. Consob 11522/1998 e dell’art.1418 c.c., avendo la Corte distrettuale ritenuto inammissibili le relative doglianze mosse in quanto nuove, pur essendo state le stesse sollevate in primo grado, “nel verbale di udienza dell/8/7/2004”, laddove, comunque, sarebbe stato onere della banca dimostrare l’esistenza degli ordini di disinvestimento (nel marzo 1998, per quanto emerso in giudizio) e dei successivi ordini di investimento/disinvestimento, mentre la banca si era limitata ad affermare di avere ricevuto ordini telefonici e di non essere più in possesso delle relative registrazioni magnetiche, senza provare di avere ottemperato agli obblighi informativi; 4) con il quarto motivo, la violazione e falsa applicazione, ex art.360 n. 3 c.p.c., dell’art.1423 c.c., in ordine al rigetto del quinto motivo di appello, atteso che la Corte territoriale avrebbe dovuto dichiarare radicalmente nulle le operazioni di investimento, non potendo le stesse essere convalidate da un asserito consenso tacito dell’investitore.

La Suprema Corte respinge il ricorso

Per i giudici di piazza Cavour, la Corte d’appello ha compiuto una valutazione del materiale probatorio, ex art.116 c.p.c., ed ha tratto il giudizio, in ordine alla conoscenza, da parte della cointestataria, dell’andamento, dal 1997 al 2000 (periodo in contestazione), del rapporto di conto corrente, in essere dal 1997, sul quale erano regolate le operazioni di investimento e disinvestimento in valori mobiliari, da un insieme di elementi (la pacifica ricezione, da parte della nipote cointestataria, degli estratti conto; la mancanza dì contestazioni specifiche, mosse dalla correntista per un arco temporale di quattro anni; il disinteresse della stessa rispetto alla sorte dell’investimento iniziale, di £ 314.000.000; l’assenza di contestazioni anche nelle lettere inviate dal legale della ricorrente nel corso del 2001 (prima di quella dell’ottobre dello stesso l’anno), in risposta alla richiesta della banca di rientro dal debito) che unitariamente considerati avevano valenza di prova presuntiva, perciò concludendo nel senso dell’approvazione delle operazioni riportate negli estratti per mancata specifica contestazione nei termini di legge (artt.1857, 1832 c.c. e 119 T.U.B.).

La prova per presunzioni

I Giudici della Suprema Corte ribadiscono che, ai fini della prova per presunzioni (Cass.S.U. 9961/1996; Cass. 22656/2011; Cass. 2632/2014), ai sensi degli articoli 2727 e 2729 cod. civ., «non occorre che tra il fatto noto e quello ignoto sussista un legame di assoluta ed esclusiva necessità causale, ma è sufficiente che il fatto da provare sia desumibile dal fatto noto come conseguenza ragionevolmente possibile, secondo un criterio di normalità», essendo «sufficiente che il rapporto di dipendenza logica tra il fatto noto e quello ignoto sia accertato alla stregua di canoni di probabilità, con riferimento ad una connessione possibile e verosimile di accadimenti, la cui sequenza e ricorrenza possono verificarsi secondo regole di esperienza».

Per gli Ermellini, dunque, quanto dedotto dalla ricorrente non configura violazioni di diritto sostanziale presenti nella decisione impugnata, cosicché il riferimento alle norme risulta palesemente inconferente, giacché quel che viene in discussione è unicamente il modo in cui la Corte di merito, cui competeva farlo, ha valutato le risultanze documentali acquisite agii atti. Si è trattato, dunque – proseguono i giudici di piazza Cavour – di una valutazione di merito, come tale di stretta competenza della Corte territoriale, che il riferimento alla documentazione prodotta rende adeguatamente motivata.

L’atteggiamento extraprocessuale e processuale della ricorrente.

I giudici della Suprema Corte evidenziano come la Corte distrettuale abbia valutato l’atteggiamento extraprocessuale e processuale della ricorrente, rilevando che la stessa aveva dapprima lamentato la presunta inesistenza delle operazioni di investimento/disinvestimento, per poi affermare, solo in appello, di non avere in ogni caso ricevuto dalla banca intermediaria un’informativa specifica in merito agli strumenti finanziari negoziati. Peraltro, la ricorrente neppure contesta tale statuizione di inammissibilità per tardività, non deducendo di avere introdotto ritualmente, in primo grado, nel termine dettato, per la precisazione del thema decidendum, dal vigente, ratione temporis, art.183 V° comma c.p.c., una domanda di inadempimento contrattuale della banca in merito alla prestazione di servizi di investimento, cosicché la valutazione operata dalla Corte distrettuale in ordine al novum, per i giudici di piazza Cavour, introdotto in appello risulta immune da vizi.

La forma dei contratti relativi alla prestazione di servizi di investimento

La Suprema Corte, infine, nel rigettare il quarto motivo di ricorso, ricorda che il costante orientamento (ex multis, Cass. 28432/2011, conf. A S.U. 26724/2007; cfr. Cass.19759/2017) in forza del quale «la prescrizione dell’art. 23 d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, secondo cui i contratti relativi alla prestazione di servizi di investimento debbono essere redatti per iscritto a pena di nullità del contratto, deducibile solo dal cliente, attiene al contratto quadro, che disciplina lo svolgimento successivo del rapporto volto alla prestazione del servizio di negoziazione di strumenti finanziari, e non ai singoli ordini di investimento (o disinvestimento) che vengano poi impartiti dal cliente all’intermediario, la cui validità non è soggetta a requisiti di forma, non rilevando che l’intermediario abbia violato le regole di condotta concernenti le informazioni (attive e passive) nei confronti del cliente».

La registrazione su nastro magnetico dei singoli ordini di investimento impartiti telefonicamente.

Con riguardo specifico agli ordini di investimento/disinvestimento ed alla relativa prova dell’autorizzazione data dall’investitore, la Suprema Corte (Cass. 612 del 2016), ha affermato che: «l’art. 60 del regolamento CONSOB n. 11522/98, che impone alla banca intermediaria di registrare su nastro magnetico, o altro supporto equivalente, gli ordini inerenti alle negoziazioni in valori mobiliari impartiti telefonicamente dal cliente, costituisce uno strumento atto a garantire agli intermediari, mediante l’oggettivo ed immediato riscontro della volontà manifestata dal cliente, l’esonero da ogni responsabilità quanto all’operazione da compiere, ma non impone, in assenza di specifica previsione, un requisito di forma, sia pure “ad probationem”, degli ordini suddetti, restando inapplicabile la preclusione di cui all’art. 2725 c.c. » (conf. Cass. 3087/2018, in ordine al fatto che la registrazione dell’ordine non costituisce, un requisito di forma, sia pure ad probationem, degli ordini suddetti).

Da qui il rigetto del ricorso, atteso che la Corte territoriale si è attenuta a tali principi.

Una breve riflessione.

La sentenza in rassegna offre diversi spunti di approfondimento. La Suprema Corte, difatti, non solo chiarisce e ribadisce l’interpretazione delle norme in tema di prova per presunzioni, ma si sofferma anche sulla forma dei contratti relativi alla prestazione di servizi di investimento ed all’obbligo di registrazione, su nastro magnetico, dei singoli ordini di investimento impartiti telefonicamente.

Ciò che ne esce fuori è che il giudice di merito, pur mantenendosi all’interno del perimetro interpretativo delle norme interessate, può fondare il proprio convincimento su tutta una serie di elementi “noti” che gli consentono di pervenire alla prova del fatto “ignoto” da provare, e ciò anche nella ipotesi in cui tra il fatto noto e quello ignoto non sussista un legame di assoluta ed esclusiva necessità causale.

Avv. Filippo Pagano (f.pagano@clouvell.com)

Managing partner at clouvell (www.clouvell.com)

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