In tema di misure cautelari personali, il principio di proporzionalità, al pari di quello di adeguatezza, opera come parametro di commisurazione delle misure alle specifiche esigenze ravvisabili nel caso concreto, tanto al momento della scelta e della adozione del provvedimento coercitivo, che per tutta la durata dello stesso, imponendo una costante verifica della perdurante idoneità della misura applicata a fronteggiare le esigenze che concretamente permangano o residuino, secondo il principio della minor compressione possibile della libertà personale.
Lo ha ribadito la Suprema Corte di Cassazione con sentenza n.24082 del 2015.
Il caso.
Una imputata proponeva ricorso per cassazione avverso l’ordinanza emessa dal Tribunale della Libertà con la quale era stato rigettato il ricorso avverso l’ordinanza del GIP di Castrovillari del 24.06.2014 con cui veniva applicata nei suoi confronti la misura cautelare degli arresti domiciliari, ritenendo sussistenti gravi indizi di colpevolezza dei reati a lei ascritti di cui al capo A) ex artt. 110, 628 co.3 nn. 2 e 3 bis, 61 n. 5 cod.pen.; e al capo B) ex artt. 110, 56, 624 bis, 625 n.5, 61 n.5. cod. pen.) dell’imputazione provvisoria.
Chiedendo l’annullamento del provvedimento impugnato, la ricorrente deduceva:
- A) Ai sensi dell’articolo 606 lett. b) cod.proc.pen, la violazione e falsa applicazione della legge penale in relazione all’articolo 273 cod. proc. pen. La ricorrente si doleva del fatto che l’attività investigativa posta in essere non consentiva di delineare il grave quadro probatorio richiesto dalla norma citata, posto che l’intera piattaforma indiziaria a suo carico era costituita dalle dichiarazioni rese dalle parti offese che avrebbero dovuto essere valutate compiutamente e nell’interezza degli elementi addotti dalla difesa, attività che il Tribunale avrebbe completamente omesso di compiere.
- B) Ai sensi dell’articolo 606 lett. e) cod.proc.pen. la contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, per aver ritenuto sussistenti i gravi indizi di colpevolezza richiesti ex art. 275 cod.proc.pen. ai fini dell’applicazione della misura cautelare, laddove i numerosi dati fattuali presentati dalla difesa non avrebbero consentito di ritenere credibile la prospettazione dei fatti operata dalla presunta persona offesa, né la sussistenza di un grave quadro probatorio.
- C) Ai sensi dell’articolo 606 lett. b) ed e) cod.proc. pen., l’inosservanza ed erronea applicazione della legge penale in relazione all’articolo 628 cod.pen. per aver giuridicamente qualificato i fatti contestati come rapina essendosi invece trattato, secondo la difesa, di un incontro di natura sessuale; nonché l’illogicità della motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza dell’elemento materiale della violenza e della minaccia, invece del tutto inesistente.
- D) Ai sensi dell’articolo 606 lett. b) ed e) cod. proc. pen., la violazione di legge penale in relazione all’articolo 274 cod. proc.pen., nonché l’omessa e contraddittoria motivazione in relazione al fatto che il Tribunale del riesame avrebbe ritenuto, in modo del tutto carente ed illogico, la sussistenza di elementi idonei da cui desumere il concreto pericolo di fuga.
- E) Ai sensi dell’articolo 606 lett, e) cod. proc. pen., la manifesta illogicità della motivazione in ordine all’affermata sussistenza del pericolo di reiterazione di delitti della stessa specie di quelli per cui si procede.
- F) Ai sensi dell’articolo 606 lett.b) cod. proc. pen., l’inosservanza ed erronea applicazione della legge penale in relazione all’articolo 275 cod.proc. pen., in relazione al fatto che il Tribunale avrebbe applicato la misura cautelare degli arresti domiciliari senza l’osservanza dei requisiti di proporzionalità ed adeguatezza richiesti dalla legge, attraverso una motivazione basata su di una mera formula di stile che difetta di adeguata ponderazione circa la speciale condizione della indagata, donna incinta con ripetute minacce di aborto e madre di prole sotto i tre anni.
La Corte ritiene infondato il ricorso e lo dichiara inammissibile.
Anche la sola testimonianza della persona offesa può, da sé sola, fondare una sentenza di condanna.
Per la Suprema Corte, le dichiarazioni di un testimone anche se si tratti della persona offesa, per essere positivamente utilizzate dal giudice, devono risultare credibili, oltreché avere ad oggetto fatti di diretta cognizione e specificamente indicati, con la conseguenza che, contrariamente ad altre fonti di conoscenza, come le dichiarazioni rese da coimputati o da imputati in reati connessi, esse non abbisognano di riscontri esterni, il ricorso eventuale ai quali è funzionale soltanto al vaglio di credibilità del testimone. ( ex multis sent. n. 11829 del 26.08.1999 – rv.215247). Inoltre le dichiarazioni rese dalla persona offesa, sottoposte ad un attento controllo di credibilità, possono essere assunte, anche da sole, come prova della responsabilità dell’imputato, senza che sia indispensabile applicare le regole probatorie di cui all’art. 192 commi terzo e quarto cod. proc. pen., che richiedono la presenza di riscontri esterni ( sent. n. 33162 del 03.06.2004 – rv. 229755; sent. n. 29372 del 24.06.2010 – rv. 248016). Pertanto a base del libero convincimento del giudice – prosegue la Suprema Corte – possono essere poste sia le dichiarazioni della parte offesa sia quelle di un testimone legato da stretti vincoli di parentela con la medesima. Ne consegue che la deposizione della persona offesa dal reato, pur se non può essere equiparata a quella del testimone estraneo, può tuttavia essere assunta anche da sola come fonte di prova, ove sia sottoposta a un attento controllo di credibilità oggettiva e soggettiva, non richiedendo necessariamente neppure riscontri esterni, quando non sussistano situazioni che inducano a dubitare della sua attendibilità ( ex multis sent. n. 6910 del 27. 04. 1999 – rv. 213616).
Il riconoscimento fotografico è una prova libera e come tale può essere liberamente apprezzata dal giudice.
Inoltre, secondo gli Ermellini, “in tema di riconoscimento fotografico del reo, secondo cui l’individuazione di un soggetto – sia personale che fotografica – è una manifestazione riproduttiva di una percezione visiva e rappresenta una specie del più generale concetto di dichiarazione; pertanto la sua forza probatoria non discende dalle modalità formali del riconoscimento, bensì dal valore della dichiarazione confermativa, alla stessa stregua della deposizione testimoniale (sent. n. 1867 del 21.02.2013 – rv. 258173. Il giudice di merito può trarre dunque il proprio convincimento da ogni elemento probatorio o indiziante e, quindi, anche da ricognizioni informali e da riconoscimenti fotografici, che vanno tenuti distinti dalla ricognizione personale prevista dall’art. 213 cod. proc. pen. Egli, pertanto, nell’ambito dei poteri discrezionali di valutazione che l’ordinamento gli riconosce, può attribuire concreto valore indiziante o probatorio all’identificazione dell’autore del reato mediante riconoscimento fotografico, costituente accertamento di fatto utilizzabile in virtù dei principi della non tassatività dei mezzi di prova e del libero convincimento, i quali consentono il ricorso non solo alle cosiddette prove legali ma anche ad elementi di giudizio diversi, purché non acquisiti in violazione di specifici divieti. (sent. n. 4580 del 05.04.1996 – rv. 204661)”.
Nella rapina, la nozione di violenza non deve essere necessariamente fisica.
Più specificamente, per i giudici di legittimità, il concetto di violenza rilevante ex art. 628 cod.pen. non va inteso soltanto nel senso ristretto di esplicazione di un’energia fisica direttamente sulla persona del derubato, ovvero come violenza fisica, consistente nella coartazione materiale dinamicamente esercitata sulla persona offesa, da parte dell’agente, allo scopo di assicurarsi il possesso della cosa sottratta ovvero di procurare a sé o ad altri l’impunità. Esso ricomprende, infatti, qualsiasi atto o fatto posto in essere dall’agente che si risolva comunque nella coartazione della libertà fisica o psichica del soggetto passivo che viene così indotto, contro la sua volontà a fare, tollerare o omettere qualche cosa indipendentemente dall’esercizio su di lui di un vero e proprio costringimento fisico ( sent. n. 1176 del 11.10.2012).
Il pericolo di fuga non deve essere desunto necessariamente da comportamenti materiali o fatti prodromici).
Per la Suprema Corte, “la sussistenza del pericolo di fuga ai fini dell’art. 274, comma primo lett. b) cod. proc. pen. non deve essere desunta esclusivamente da comportamenti materiali che rivelino l’inizio dell’allontanamento o una condotta indispensabilmente prodromica (come l’acquisto del biglietto o la preparazione dei bagagli), essendo sufficiente stabilire, in base tra l’altro alla concreta situazione di vita del soggetto, alle sue frequentazioni, ai precedenti penali, ai procedimenti in corso, un reale ed effettivo pericolo, pur sempre interpretato come giudizio prognostico e non come mera constatazione di un avvenimento “in itinere” che, proprio per tale carattere può essere difficilmente interrotto ed eliminato con tardivi interventi.
Il pericolo di reiterazione di reati della stessa indole
In tema di misure cautelari personali, il parametro della concretezza del pericolo di reiterazione di reati della stessa indole non può essere affidato ad elementi meramente congetturali ed astratti, ma a dati di fatto oggettivi ed indicativi delle inclinazioni comportamentali e della personalità dell’indagato, tali da consentire di affermare che quest’ultimo possa facilmente, verificandosene l’occasione, commettere detti reati ( sent. n. 38763 del 08.03.2012 – rv.253372). In tema di misure cautelari personali, ai fini della valutazione del pericolo che l’imputato commetta delitti della stessa specie, il requisito della concretezza non si identifica con quello dell’attualità, derivante dalla riconosciuta esistenza di occasioni prossime favorevoli alla commissione di nuovi reati, ma con quello dell’esistenza di elementi concreti sulla base dei quali è possibile affermare che l’imputato possa commettere delitti della stessa specie di quello per cui si procede, e cioè che offendano lo stesso bene giuridico (sent. n. 28618 del 03.07.2013 – rv.255857).
Il principio di proporzionalità della misura cautelare
Infine, secondo i giudici della Suprema Corte, il principio di proporzionalità, al pari di quello di adeguatezza, opera come parametro di commisurazione delle misure cautelari alle specifiche esigenze ravvisabili nel caso concreto, tanto al momento della scelta e della adozione del provvedimento coercitivo, che per tutta la durata dello stesso, imponendo una costante verifica della perdurante idoneità della misura applicata a fronteggiare le esigenze che concretamente permangano o residuino, secondo il principio della minor compressione possibile della libertà personale ( SS.UU n. 16085 del 31.03.2011 – rv.249324).
Per tali motivi, la Suprema Corte dichiara inammissibile il ricorso.
Una breve riflessione.
La sentenza in rassegna appare particolarmente interessante perché affronta diverse problematiche che si pongono, di sovente, in materia di misure cautelari personali.
Per quel che qui ci interessa più da vicino, spenderemo qualche parola con riguardo al principio di proporzionalità della misura.
E, sul punto, la Suprema Corte si rifà al principio elaborato dalla Sezioni Unite della Suprema Corte (SS.UU n. 16085 del 31.03.2011 – rv.249324) in forza del quale il principio di proporzionalità appunto, al pari di quello di adeguatezza, opera come parametro di commisurazione delle misure cautelari alle specifiche esigenze ravvisabili nel caso concreto, tanto al momento della scelta e della adozione del provvedimento coercitivo, che per tutta la durata dello stesso, imponendo una costante verifica della perdurante idoneità della misura applicata a fronteggiare le esigenze che concretamente permangano o residuino, secondo il principio della minor compressione possibile della libertà personale.
Un orientamento, quello segnato dalla Sezioni Unite, ed al quale si rifà la sentenza in rassegna, davvero interessante se non fosse che, a dispetto della chiarezza del principio, nei fatti, si assiste spesso ad una sua applicazione distorta o, se si preferisce, non proprio in linea con il chiaro testo del principio stesso.
In particolare, ci si intende riferire a tutte le volte in cui il giudice della cautela, al quale si chiede l’applicazione del suddetto principio di proporzionalità così come elaborato dalle Sezioni Unite e ripreso dalle sezioni semplici, rigetta l’istanza di revoca o sostituzione della misura sulla base a causa di un intervenuto “giudicato cautelare” che non può essere rivisitato per il solo decorso del tempo.
Ed allora, se il mero decorso del tempo è un elemento, per così dire, neutro, inidoneo anche ad affievolire soltanto le esigenze di cautela, sorge spontaneo chiedersi quale sia il senso del principio “… imponendo una costante verifica della perdurante idoneità della misura applicata a fronteggiare le esigenze che concretamente permangano o residuino, secondo il principio della minor compressione possibile della libertà personale”.
In altri termini, sembra che molti giudici della cautela, anche dopo l’elaborazione giurisprudenziale inaugurata dalla nota sentenza a sezioni unite, abbiamo continuato, per così dire, a portare avanti un filone di pensiero sorto o consolidatosi in epoca precedente.
Si ritiene che il giudice della cautela, semmai, non dovrebbe arrestarsi a valutare solo il mero decorso del tempo, ma dovrebbe verificare (attivamente) in maniera costante, se la misura applicata sia ancora idonea a fronteggiare le iniziali esigenze, cercando di comprimere nel minor modo possibile, la libertà personale,
L’impressione, viceversa, che si ha è che il giudice della cautela tende a trincerarsi spesso dietro il c.d. giudicato cautelare addossando al soggetto ristretto in vinculis l’onere di dimostrare la sopravvenienza di fatti nuovi che possano giustificare la rivisitazione del quadro indiziario e/o delle esigenze cautelari, e non verificare, egli stesso, se dagli elementi in suo possesso (anche se non prospettati dall’imputato) la libertà personale possa essere compressa in maniera meno invasiva attraverso la applicazione di altra misura meno afflittiva, o, magari, possa essere dichiarata la cessazione della misura per la sopravvenuta assenza delle esigenze cautelari ritenute sussistenti al momento della emissione della misura o in occasione della sua sostituzione.
Dunque, il principio espresso e ribadito appare interessante. Peccato che la applicazione pratica di detto principio non lo sia altrettanto.
avv. Filippo Pagano (f.pagano@clouvell.com)
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