Basta iscriversi ad una Università dell’Unione Europea e poi chiedere il trasferimento ad una Università Italiana.
Questo, in sintesi, il quadro che viene fuori dalla sentenza del Consiglio di Stato, sez. Ad. Plenaria, 28 gennaio 2015, n. 1
Il Consiglio di Stato ha sottoposto ad attenta rimeditazione il precedente orientamento (da ultimo, sez. VI, 22 aprile 2014, n. 2028 e 30 maggio 2014, n. 2829 ) secondo cui “è legittima l’esclusione da un qualsiasi anno di corso degli studenti di università estere, che non superino la prova selettiva di primo accesso, eludendo con corsi di studio avviati all’estero la normativa nazionale ( v. anche Cons. Stato, sez.VI, 15 ottobre 2013, n. 5015; 24 maggio 2013, n. 2866 e 10 aprile 2012, n. 2063 )”.
Secondo il Consiglio di Stato, in assenza di contrarie disposizioni di legge potrà legittimamente dispiegarsi, nella materia de qua, la sola autonomia regolamentare degli Atenei, che, anche eventualmente condizionando l’iscrizione-trasferimento al superamento di una qualche prova di verifica del percorso formativo già compiuto:
– stabilirà le modalità di valutazione dell’offerta potenziale dell’ateneo ai fini della determinazione, per ogni anno accademico ed in relazione ai singoli anni di corso, dei posti disponibili per trasferimenti, sulla base del rispetto imprescindibile della ripartizione di posti effettuata dal Ministero negli anni precedenti per ogni singola “coorte al quale lo studente trasferito dovrebbe essere aggregato” ( pag. 35 Ord. rimess. ) e delle intervenute disponibilità di posti sul plafond di ciascuna “coorte”;
– nell’àmbito delle disponibilità per trasferimenti stabilirà le modalità di graduazione delle domande;
– fisserà criteri e modalità per il riconoscimento dei crediti, anche prevedendo “colloqui per la verifica delle conoscenze effettivamente possedute” ( art. 3, comma 8, del D.M. 16 marzo 2007 );
– in tale àmbito determinerà i criteri, con i quali i crediti riconosciuti ( in termini di esami sostenuti ed eventualmente di frequenze acquisite ) si tradurranno nell’iscrizione ad un determinato anno di corso, sulla base del rispetto dei requisiti previsti dall’ordinamento didattico della singola università per la generalità degli studenti ai fini della iscrizione ad anni successivi al primo, con particolare riguardo alla eventuale iscrizione come “ripetenti” ed all’ipotesi, sottolineata dall’Ordinanza di rimessione, in cui “lo studente in questione non ha superato alcun esame e conseguito alcun credito” ( pag. 30 Ord., che correttamente sottolinea come essa “non determinerebbe alcun vincolo per la sede di destinazione ai fini di una sua iscrizione” ), od all’ipotesi in cui lo studente abbia superato un numero di esami in numero tale da non potersi ritenere idoneo che alla sua iscrizione al solo primo anno, ai fini della quale, peraltro, non potrà che affermarsi il suo obbligo di munirsi del requisito di ammissione di cui all’art. 4 della legge n. 264/1999.
Secondo il Consiglio di Stato, il precedente orientamento restrittivo si rivela contrario all’apicale principio di libertà di circolazione e soggiorno nel territorio degli Stati comunitari (art. 21 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea ), suscettibile di applicazione non irrilevante nel settore dell’istruzione tenuto conto delle competenze attribuite all’Unione per il sostegno e completamento dell’azione degli Stati membri in materia di istruzione e formazione professionale ( art. 6, lettera e), del Trattato ), nonché degli obiettivi dell’azione dell’Unione fissati dall’art. 165 n. 2 secondo trattino del Trattato stesso, teso proprio a “favorire la mobilità degli studenti …, promuovendo tra l’altro il riconoscimento accademico dei diplomi e dei periodi di studio”.
Del resto, la stessa Corte di Giustizia ha confortato tale tesi con la sentenza 13 aprile 2010, n. 73 resa nel procedimento C-73/08, affermando che, se è pur vero che il diritto comunitario non arreca pregiudizio alla competenza degli Stati membri per quanto riguarda l’organizzazione dei loro sistemi di istruzione e di formazione professionale – in virtù degli artt. 165, n. 1, TFUE, e 166, n. 1, TFUE -, resta il fatto, tuttavia, che, nell’esercizio di tale potere, gli Stati membri devono rispettare il diritto comunitario, in particolare le disposizioni relative alla libera circolazione e al libero soggiorno sul territorio degli Stati membri (v., in tal senso, sentenze 11 settembre 2007, causa C-76/05, Schwarz e Gootjes-Schwarz, Racc. pag. I-6849, punto 70, nonché 23 ottobre 2007, cause riunite C-11/06 e C-12/06, Morgan e Bucher, Racc. pag. I-9161, punto 24).
Gli Stati membri sono quindi liberi di optare o per un sistema di istruzione fondato sul libero accesso alla formazione – senza limiti di iscrizione del numero degli studenti -, ovvero per un sistema fondato su un accesso regolato che selezioni gli studenti.
Tuttavia, che essi optino per l’uno o per l’altro di tali sistemi ovvero per una combinazione dei medesimi, le modalità del sistema scelto devono rispettare il diritto dell’Unione e, in particolare, il principio di libertà di circolazione e soggiorno in un altro Stato membro.
Si deve ricordare – secondo il Consiglio di Stato – che, in quanto cittadini italiani, gli odierni appellati godono della cittadinanza dell’Unione ai termini dell’art. 17, n. 1, CE ( ora art. 20 TFUE ) e possono dunque avvalersi, eventualmente anche nei confronti del loro Stato membro d’origine, dei diritti afferenti a tale status (v. sentenza Corte di Giustizia UE 26 ottobre 2006, causa C-192/05, Tas-Hagen e Tas, Racc. pag. I-10451, punto 19).
Tra le fattispecie che rientrano nell’ambito di applicazione del diritto comunitario figurano quelle relative all’esercizio delle libertà fondamentali garantite dal Trattato CE, in particolare quelle attinenti alla libertà di circolare e soggiornare nel territorio degli Stati membri, quale conferita dall’art. 18 CE (ora art. 21 TFUE ) (v. sentenze Corte di Giustizia UE 11 settembre 2007, causa C-76/05, Schwarz e Gootjes-Schwarz, punto 87 e giurisprudenza citata; nonché sentenza della stessa Corte 23 ottobre 2007, n. 12, nelle cause riunite C-11/06 e C-12/06).
Tale considerazione è particolarmente importante nel settore dell’istruzione, tenuto conto degli obiettivi perseguiti dagli artt. 3, n. 1, lett. q), CE e 149, n. 2, secondo trattino, CE (ora art. 165 TFUE ), ovverossia, in particolare, favorire la mobilità degli studenti e degli insegnanti ( v. citate sentenze D’Hoop, punto 32, e Commissione/Austria, sentenza 7 luglio 2005, causa C-147/03, Racc. pag. I-5969, punto 44 ).
Poiché il presente contenzioso riguarda appunto studi compiuti in un altro Stato membro – prosegue il Consiglio di Stato -, va ancora sottolineato che una normativa nazionale che penalizzi taluni suoi cittadini per il solo fatto di aver esercitato la loro libertà di circolare e di soggiornare in un altro Stato membro rappresenta una restrizione delle libertà riconosciute dall’art. 18, n. 1, CE ( ora art. 21 TFUE ) a tutti i cittadini dell’Unione ( v. sentenze Corte Giustizia UE 18 luglio 2006, causa C-406/04, De Cuyper, Racc. pag. I-6947, punto 39; Tas-Hagen e Tas, cit., punto 31, nonché Schwarz e Gootjes-Schwarz, cit., punto 93 ).
Più in generale, poi, la facoltà per gli studenti provenienti da altri Stati membri di accedere agli studi di insegnamento superiore costituisce l’essenza stessa del principio della libera circolazione degli studenti ( v. sentenza 7 luglio 2005, causa C-147/03, Commissione/Austria, cit., punti 32, 33 e 70, nonché la giurisprudenza ivi richiamata e, successivamente, la sentenza Bressol, Chaverot e altri/Comunità francese del Belgio, n. 73/2010, cit. ).
In proposito, si devono anche ricordare i principii della Convenzione di Lisbona sul riconoscimento dei titoli di studio stranieri, come ratificata con legge 11 luglio 2002, n. 148, il cui art. 2 stabilisce che: “La competenza per il riconoscimento dei cicli e dei periodi di studio svolti all’estero e dei titoli di studio stranieri, ai fini dell’accesso all’istruzione superiore, del proseguimento degli studi universitari e del conseguimento dei titoli universitari italiani, è attribuita alle Università ed agli Istituti di istruzione universitaria, che la esercitano nell’ambito della loro autonomia e in conformità ai rispettivi ordinamenti, fatti salvi gli accordi bilaterali in materia”.
Il che rappresenta indice normativo significativo del potere/dovere attribuito all’autonomia dell’università di riconoscere i periodi di studio svolti all’estero ( e dunque anche quelli non sfociati in un “titolo” ivi conseguito ), tenendo conto del dato sostanziale costituito dalla completezza, esaustività, corrispondenza dei corsi da accreditare con gli omologhi corsi nazionali, prendendo in considerazione i contenuti formativi del corso di studii seguito all’estero con riferimento alle discipline oggetto d’esame; potere, questo, rispetto al quale completamente ultronea risulta la pretesa di effettuazione di una preliminare verifica della “predisposizione” a studi già in parte compiuti.
Detta norma consente anche di superare qualsiasi dubbio di discriminazione fra studenti universitarii provenienti da università italiane ( che comunque hanno a suo tempo superato, ai fini dell’accesso all’università di provenienza, una prova di ammissione ex art. 4 della legge n. 264/1999 ) e studenti universitarii provenienti da università straniere ( che una prova di ammissione alla stessa non abbiano sostenuto o che comunque abbiano superato una prova di tal fatta del tutto irrilevante per l’ordinamento nazionale ), giacché il trasferimento interviene, sia per lo studente che eserciti la sua “mobilità” in àmbito nazionale che per lo studente proveniente da università straniere, non più sulla base di un requisito pregresso di ammissione agli studi universitarii ormai del tutto irrilevante perché superato dal percorso formativo-didattico già seguito in àmbito universitario, ma esclusivamente sulla base della valutazione dei crediti formativi affidata alla autonomia universitaria, in conformità con i rispettivi ordinamenti, sulla base del principio di autonomia didattica di ciascun ateneo ( art. 11 della legge n. 341 del 1990, che affida l’ordinamento degli studi dei corsi e delle attività formative ad un regolamento degli ordinamenti didattici, denominato “regolamento didattico di ateneo”; v. anche l’art. 2, comma 2, del d.m. 22 ottobre 2004, n. 270, che dispone che – ai fini della realizzazione della autonomia didattica di cui all’art. 11 della legge n. 341 del 1990 – le università, con le procedure previste dalla legge e dagli statuti, disciplinano gli ordinamenti didattici dei propri corsi di studio in conformità con le disposizioni del medesimo regolamento, nonché l’art. 11, comma 9, dello stesso D.M., che, a proposito dei regolamenti didattici di ateneo, prevede che le università, con appositi regolamenti, riordinano e disciplinano le procedure amministrative relative alle carriere degli studenti in accordo con le disposizioni del regolamento statale ).
Conclude il Consiglio di Stato evidenziando che una generalizzata prassi migratoria ( prima in uscita da parte degli studenti che non abbiano inteso sottoporsi o che non abbiano superato la prova nazionale di ammissione e poi in ingresso da parte degli stessi studenti che abbiano compiuto uno o più anni di studii all’estero ) in qualche modo elusiva nel senso di cui sopra è da escludersi sulla base dell’indefettibile limite dei posti disponibili per il trasferimento, da stabilirsi in via preventiva per ogni accademico e per ciascun anno di corso dalle singole Università sulla base del dato concernente la concreta potenzialità formativa di ciascuna, alla stregua del numero di posti rimasti per ciascun anno di corso scoperti rispetto al numero massimo di studenti immatricolabili ( non superiore alla offerta potenziale ch’esse possono sostenere ) per ciascuno di quegli anni ad esse assegnato.
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Avv. Filippo Pagano (f.pagano@clouvell.com)
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