Ritenuto in fatto
(Società 1 Omissis) e (Società 2 Omissis) stipularono, rispettivamente il 28 febbraio ed il 10 marzo 2008, un contratto di subappalto ed un contratto di fornitura aventi ad oggetto lavori di ammodernamento di un tratto della S.S. 16 Adriatica, e, a seguito di problematiche insorte durante l’esecuzione di tali contratti, addivennero poi, in data 26 agosto 2008, alla stipulazione di un atto di transazione prevedente tra l’altro la risoluzione consensuale dei predetti contratti. Nel luglio del 2009 (Società 2 Omissis) convenne (Società 1 Omissis) dinanzi al Tribunale di Udine al fine di ottenerne la condanna al pagamento di € 270.000 per omessa custodia e sorveglianza di mezzi meccanici della medesima (Società 2 Omissis) oggetto di furto mentre si trovavano nel cantiere della (Società 1 Omissis): il Tribunale adito condannò quest’ultima società al pagamento, in favore della prima, della somma di € 200.000, e la Corte d’Appello di Trieste, con ordinanza ai sensi dell’art. 348 ter c.p.c., dichiarò inammissibile l’appello di (Società 1 Omissis) per mancanza di ragionevole probabilità di accoglimento.
In questa sede (Società 1 Omissis) propone due ricorsi: il primo, ai sensi degli artt. 111 comma 7 Cost. e 360 comma 4 c.p.c., articolato in due motivi, per la cassazione dell’ordinanza di inammissibilità pronunciata dalla Corte d’Appello, ed il secondo, ai sensi dell’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c., affidato ad un motivo, per la cassazione della sentenza emessa dal Tribunale di Udine. Resistono con controricorso (Società 3 Omissis) -già (Società 2 Omissis) nonché (Società 4 Omissis), intervenuta nel corso del giudizio d’appello in qualità di cessionaria del credito vantato da (società 3 Omissis); (Società 1 Omissis) e (Società 3 Omissis) hanno depositato memorie.
Il collegio della seconda sezione civile dinanzi al quale entrambi i ricorsi sono stati chiamati, previa riunione dei medesimi, ha, con ordinanza interlocutoria n. 223 del 2015, rimesso gli atti al Primo Presidente ai sensi dell’art. 374 c.p.c. in ragione del contrasto emerso nella giurisprudenza di questo giudice di legittimità con riguardo alla impugnabilità o meno, ed eventualmente entro quali limiti, dell’ordinanza declaratoria della inammissibilità dell’appello per mancanza di ragionevole probabilità di accoglimento.
Ritenuto in diritto
1.Logicamente prioritario è l’esame del ricorso proposto avverso l’ordinanza pronunciata ai sensi dell’art. 348 ter c.p.c..
Col primo motivo (Società 1 Omissis) censura l’ordinanza impugnata perché la Corte territoriale, nel dichiarare l’inammissibilità dell’appello per mancanza di una ragionevole probabilità di accoglimento, avrebbe del tutto omesso di esprimersi in ordine al quarto motivo di gravame riguardante il quantum della condanna irrogata in primo grado (che si assume sempre contestato dalla convenuta e sfornito di supporto probatorio) e quindi, non motivando compiutamente il giudizio probabilistico negativo espresso, sarebbe incorsa in violazione dell’obbligo di motivazione previsto dall’art. 111 comma 4 Cost. nonché dagli artt. 134 e 348 ter c.p.c.
Col secondo motivo, denunciando ulteriore violazione dell’obbligo di motivazione, la ricorrente censura l’ordinanza impugnata per omessa esposizione dell’iter logico che, in relazione ad un altro motivo di impugnazione, ha condotto i giudici d’appello ad affermare la sussistenza tra le parti di un contratto riguardante la disponibilità dei mezzi meccanici oggetto di furto, senza indicare la natura di tale contratto né spiegare gli elementi sui quali il relativo convincimento si è fondato.
L’esame dei sopra esposti motivi impone evidentemente, nel silenzio serbato in proposito dagli artt. 348 bis e ter c.p.c., una preliminare indagine sulla impugnabilità (con eventuali relativi limiti) dell’ordinanza in questione.
A norma del primo comma dell’art. 360 c.p.c. possono essere impugnate con ricorso per cassazione le sentenze pronunciate in grado d’appello o in unico grado (dovendo pertanto escludersi l’esperibilità del ricorso ordinario per cassazione avverso le ordinanze (fatti salvi eventuali casi di ordinanze aventi natura sostanziale di sentenza, sui quali si tornerà in prosieguo) nonché (giusta il disposto del comma 4 dell’art. 360 c.p.c.) le sentenze e i provvedimenti diversi dalla sentenza avverso i quali sia ammesso il ricorso per cassazione per violazione di legge.
Avuto riguardo ai presupposti del ricorso per violazione di legge previsto dall’art. 111 comma 7 Cost., deve altresì escludersi che l’ordinanza in esame sia impugnabile con censure riguardanti il “merito” della controversia, giusta la previsione di ricorribilità per cassazione della sentenza di primo grado e quindi la non definitività, sotto questo profilo, dell’ordinanza pronunciata ai sensi dell’art. 348 ter c.p.c.
La questione resta circoscritta pertanto alla ricorribilità (o meno) dell’ordinanza suddetta per vizi propri di carattere processuale, cioè alle ipotesi in cui, non essendo l’errore del giudice d’appello deducibile come motivo di impugnazione del provvedimento di primo grado, manca la possibilità di rimettere in discussione la tutela che compete alla situazione giuridica dedotta nel processo attraverso il ricorso per cassazione avverso la pronuncia di primo grado, ed è evidentemente rilevante nella specie, posto che con i due motivi d’impugnazione sopra esposti si denunciano violazioni della legge processuale commesse dal giudice d’appello.
Sul punto, come evidenziato dalla citata ordinanza di rimessione, nella giurisprudenza di questo giudice di legittimità è recentemente emerso un netto contrasto tra l’orientamento espresso da cass. n. 7273 del 2014 – secondo la quale l’ordinanza di inammissibilità dell’appello ex art. 348 ter c.p.c. non è ricorribile per cassazione per difetto di definitività se emessa nell’ambito suo proprio, cioè per manifesta infondatezza nel merito, ma deve ritenersi ricorribile ove dichiari l’inammissibilità dell’appello per ragioni processuali, avendo in tal caso carattere definitivo e valore di sentenza- ed il diverso orientamento espresso da cass. n. 8940 del 2014, secondo la quale il ricorso per cassazione, sia ordinario che straordinario, non è mai esperibile avverso l’ordinanza che dichiari l’inammissibilità dell’appello ex artt. 348 bis e ter c.p.c., a prescindere dalla circostanza che essa sia stata emessa nei casi in cui ne è consentita l’adozione ovvero al di fuori di essi, ostando, quanto all’esperibilità del ricorso straordinario, la non definitività dell’ordinanza, dovendosi valutare tale carattere con esclusivo riferimento alla situazione sostanziale dedotta in giudizio non anche a situazioni aventi mero rilievo processuale, quali il diritto a che l’appello sia deciso con ordinanza soltanto nei casi consentiti nonché al rispetto delle regole processuali fissate dagli articoli sopra richiamati.
2. Così definiti i termini del contrasto rimesso a queste sezioni unite, occorre innanzitutto sgomberare il campo di indagine da possibili suggestioni indotte dalla costatazione che, come risulta con chiarezza anche dalla Relazione Illustrativa dell’art. 54 d.l. n. 83 del 2012 convertito in legge n. 134 del 2012, le intenzioni del legislatore nell’introdurre gli articoli 348 bis e ter c.p.c. erano volte alla creazione di un ennesimo strumento di semplificazione ed accelerazione del processo civile e che l’orientamento che esclude sempre l’impugnabilità dell’ordinanza ex art. 348 ter c.p.c. appare certamente più conforme a tale intento perché, almeno prima facie, sembra idoneo ad evitare che uno strumento pensato per accelerare e semplificare si trasformi in una possibile fonte di complicazione del sistema e moltiplicazione delle impugnazioni.
Tale non del tutto ingiustificata suggestione non può tuttavia essere determinante nella indagine in esame innanzitutto per l’ovvia considerazione che non sempre la voluntas legislatoris coincide con la voluntas legis come realizzatasi nel testo legislativo, senza considerare che, se pure la direttiva interpretativa “secondo l’intenzione del legislatore” riflette l’antico topos dell’autorità, non rappresenta di certo criterio ermeneutico unico o prevalente, essendo peraltro appena il caso di sottolineare che l’intentio auctoris non potrebbe giammai legittimare una lettura delle norme in ipotesi contraria a costituzione.
Tanto doverosamente premesso, venendo direttamente all’esame del comma sette dell’art. 111 Cost. -a norma del quale “contro le sentenze e contro i provvedimenti sulla libertà pronunciati dagli organi giurisdizionali ordinari o speciali è sempre ammesso ricorso in cassazione per violazione di legge”- è appena il caso di sottolineare che questa Corte ha da tempo chiarito (v. già Cass. n. 2953 del 1953), e poi ripetutamente ribadito, che un provvedimento, ancorché emesso in forma di ordinanza o di decreto, assume carattere decisorio -requisito necessario per proporre ricorso ex art. 111 Cost.- quando pronuncia o, comunque, incide con efficacia di giudicato su diritti soggettivi, con la conseguenza che ogni provvedimento giudiziario che abbia i caratteri della decisorietà nei termini sopra esposti nonché della definitività -in quanto non altrimenti modificabile- può essere oggetto di ricorso ai sensi dell’art. 111 Cost.
Le sentenze tra le quali si è ravvisato il contrasto in esame non pongono in discussione il concetto di decisorietà sopra riportato né il fatto che tale carattere sia riscontrabile nell’ordinanza ex art. 348 ter c.p.c. (non perché essa incide sul diritto processuale all’impugnazione ma perché è emessa in un giudizio vertente su situazioni di diritto soggettivo o delle quali è comunque prevista la piena giustiziabilità). Il contrasto si radica quindi esclusivamente in relazione al significato da attribuire al presupposto della “definitività” in quanto, come già evidenziato, secondo Cass. n. 7273 del 2014 esso sussisterebbe in relazione all’ordinanza ex art. 348 ter c.p.c. perché l’eventuale error in procedendo in cui sia incorso il giudice d’appello nel pronunciare l’ordinanza in esame -ad esempio pronunciandola al di fuori dei casi normativamente previsti- non potrebbe essere fatto valere nel ricorso avverso la sentenza di primo grado né altrimenti che con il ricorso straordinario, dovendo in mancanza escludersi la possibilità di rimettere in discussione la tutela che compete alla situazione dedotta nel processo, mentre Cass. n. 8940 del 2014 (pur non dubitando del carattere decisorio della medesima siccome emessa in un processo civile iniziato a cognizione piena, che è la tipica sede della “cognizione decisoria”) nega la ricorribilità dell’ordinanza in questione per mancanza del presupposto della definitività, tale da ritenersi solo quella sulla situazione giuridica sostanziale dedotta nel processo, con la conseguenza che finché quest’ultima sia ridiscutibile -nella specie con il ricorso per cassazione contro la sentenza di primo grado – difetterebbe la definitività idonea a giustificare il ricorso straordinario.
Il collegio ritiene, ai fini che in questa sede rilevano, che tale ultima accezione del concetto di definitività non sia condivisibile. Ciò innanzitutto in quanto essa non trova riscontro nel dato normativo costituzionale e neppure nella legislazione processuale ordinaria né può ritenersi confermata dalla giurisprudenza di queste sezioni unite, le quali, con le sentenze n. 3073 e n. 11026 del 2003 (richiamate peraltro dalla medesima cass. n. 8940 del 2014 benché deducendone conseguenze che il collegio non ritiene allo stato di poter avallare), hanno, sia pure con differente grado di chiarezza, affermato che se il provvedimento al quale il processo è preordinato non ha carattere decisorio perché, non costituendo espressione del potere-dovere del giudice di decidere controversie tra parti contrapposte, in cui ciascuna tenda all’accertamento di un proprio diritto soggettivo nei confronti dell’altra, non ha contenuto sostanziale di sentenza, il carattere non decisorio permane anche quando si faccia valere la lesione di un diritto processuale, in quanto la pronuncia sull’osservanza delle norme che regolano il processo ha necessariamente la medesima natura dell’atto giurisdizionale cui il processo è preordinato, e quindi se tale atto sia privo di decisorietà, essa non può avere autonoma valenza di provvedimento decisorio, alla stregua della sua natura strumentale, con la conseguenza che le censure relative ad inosservanze di norme regolanti la procedura non possono utilizzare strumenti processuali diversi da quelli previsti per le doglianze relative al merito del giudizio.
Dalla lettura dei principi esposti nelle suddette sentenze può desumersi dunque, a contrario, che, giusta la natura strumentale delle norme processuali, sussiste il presupposto della “decisorietà” con riferimento alle pronunce sull’osservanza delle norme processuali se queste sono emesse nell’ambito di processi su diritti soggettivi, ma da tali principi non possono certamente trarsi argomenti a sostegno di una accezione ristretta del diverso e concorrente presupposto della “definitività”, senza che possa indurre a diverse conclusioni l’estrapolazione, dalle sentenze citate, di singole affermazioni in assenza di considerazione del contesto (peraltro in entrambi i casi non contenzioso) di riferimento.
Inoltre l’opzione di cass. n. 8940 del 2014 (secondo la quale, ripetesi, la definitività rilevante ai fini della proponibilità del ricorso straordinario sarebbe solo quella sulla situazione giuridica sostanziale dedotta nel processo), troncando la potenziale corrispondenza tra l’ambito della decisorietà e quello della definitività attraverso una operazione ermeneutica non avallata dalla lettura dei citati precedenti delle sezioni unite, finisce per proporre una interpretazione ingiustificatamente riduttiva del comma 7 dell’art. 111 Cost., che rischia di non sottrarsi alle insidie di avventurosi paralogismi e potrebbe in ipotesi finire di fatto per ridurre l’ambito della denunciabilità, ai sensi dell’art. 111 comma 7 Cost., delle violazioni della legge processuale.
Come già rilevato, la disciplina processuale vigente non autorizza allo stato una simile lettura della “definitività” richiesta ai fini del ricorso straordinario per cassazione, risultando peraltro tale lettura potenzialmente idonea a confondere o comunque sovrapporre due nozioni di “definitività” (e le ragioni ad esse sottese) che, pur riguardando entrambe il ricorso per cassazione, hanno motivo di rimanere concettualmente separate: la “definitività” di cui al terzo comma dell’art. 360 c.p.c. (questa sì ancorata ad un dato normativo esplicito) e la “definitività” che consente l’impugnazione straordinaria per violazione di legge ai sensi del settimo comma dell’art. 111 cost., essendo evidente che, nel primo caso, è in discussione solo il “momento” dell’impugnazione, trattandosi comunque di sentenze impugnabili con ricorso ordinario per cassazione e la mancanza di “definitività” (nel senso che la decisione non “definisce” neppure parzialmente il giudizio) non elimina la ricorribilità con ricorso ordinario ma (in alcuni casi) la pospone prevedendola insieme con l’impugnazione della sentenza che invece “definisce almeno parzialmente il giudizio”, mentre, nel secondo caso, si tratta di provvedimenti per i quali non è prevista alcuna forma di impugnazione ordinaria (neppure successiva), in ciò realizzandosi il presupposto della “definitività” (intesa come non modificabilità) in relazione al rimedio straordinario previsto dall’art. 111 Cost.
E’ da aggiungere che la tesi in discussione non trova conforto neppure nella interpretazione e applicazione, certamente non riduttive, che la stessa Cassazione ha dato dell’art. 111 Cost., a partire dalla già citata cass. n.2953 del 1953 fino alla più recente SU n. 8053 del 2014, che, decidendo sulla questione di massima di particolare importanza della applicabilità al giudizio tributario in cassazione delle modifiche apportate all’art. 360 c.p.c. dall’art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, ha dato un’ampia lettura del citato comma 7 dell’articolo 111 Cost. proprio in materia di denuncia di violazione di norme processuali.
Alla luce dei citati precedenti, radicati nella cultura processuale di questo Paese siccome in alcuni casi risalenti di non pochi decenni, risulta dunque arduo concordare col “giro di vite” di fatto realizzato da cass. n. 8940 del 2014, ed ancor più arduo se si ritiene -anche in ragione della giurisprudenza costituzionale in proposito- che il ricorso straordinario per cassazione costituisca garanzia rafforzativa dell’effettività della tutela giurisdizionale di cui al primo comma dell’art. 24 Cost. -consistente nel diritto al controllo di legalità da parte della Suprema Corte- e, corrispondentemente, che il citato comma 7 dell’art. 111 Cost. costituisca “norma di chiusura” del sistema delle impugnazioni.
In proposito non è superfluo ricordare che in sede di Assemblea costituente si pervenne alla formulazione della previsione costituzionale in esame dopo un’ articolata discussione ed all’esito di una mediazione tra la proposta che intendeva configurare il ricorso per cassazione esclusivamente come garanzia individuale delle parti e quella volta ad affermare, attraverso la disposizione in parola, non solo lo “ius litigatoris” ma anche lo “ius costitutionis”.
Il ricorso per Cassazione che ne è risultato costituisce perciò un modello di impugnazione assolutamente peculiare, in cui (almeno finché la disposizione permanga nell’attuale testo) deve trovare spazio e ragione sia la funzione nomofilattica della Corte di cassazione sia la tutela del singolo cittadino contro le violazioni della legge commesse dai giudici di merito: rispetto a tale modello di ricorso (ed alle ragioni che ne hanno determinato la genesi) non può non risultare impropriamente riduttiva una interpretazione che escluda la possibilità di impugnare sempre, per le violazioni di legge commesse dai giudici di merito, i provvedimenti decisori che non siano altrimenti modificabili o censurabili.
Peraltro già a partire dagli anni settanta i giudici costituzionali hanno evidenziato la natura garantistica del ricorso per Cassazione e sottolineato che l’art. 111 Cost., ammettendo sempre il ricorso straordinario, senza esclusioni, ne attribuisce il potere a tutte le parti del giudizio di merito “quando siano consumate o non siano consentite altre forme di gravame” (v. c. cost. n. 1 del 1970 e n. 173 del 1971). E più recentemente gli stessi giudici costituzionali (v. c. cost. n. 207 del 2009), pronunciando sulla illegittimità dell’art. 391-bis primo comma c.p.c. per contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost. nella parte in cui non prevede l’esperibilità del rimedio della revocazione per errore di fatto, ai sensi dell’art. 395 n. 4 c.p.c., per le ordinanze pronunciate dalla Corte di cassazione a norma dell’art. 375, primo comma, n. 1 dello stesso codice, hanno colto l’occasione per soffermarsi sul giudizio di cassazione e sul ruolo che esso assume nel nostro sistema processuale nonché per affermare (riprendendo c. cost. n. 395 del 2000) che la garanzia del giudizio di cassazione si qualifica in funzione dell’art. 111 Cost., che prevede “quale nucleo essenziale del giusto processo regolato dalla legge” il principio secondo il quale contro tutte le sentenze ed i provvedimenti sulla libertà personale è sempre ammesso il ricorso in cassazione per violazione di legge.
3. Ferme tutte le imprescindibili considerazioni generali sopra esposte, è in ogni caso necessario evidenziare che la prospettazione di una sorta di relazione “asimmetrica” tra il requisito della decisorietà e quello della definitività richiesti per la ricorribilità ex art. 111 Cost. imporrebbe non solo che si precisi con chiarezza il tipo di relazione che si intende richiamare – individuandone esplicitamente i referenti normativi- ma soprattutto che si estenda l’indagine a tutti i possibili profili esegetici idonei a rendere non solo la tenuta speculativa ma anche la fecondità pratica di tale ipotizzata “asimmetria”.
E proprio sul versante “concreto” dell’indagine in esame non può trascurarsi che il caso in cui -come nella specie- vi sia una pronuncia a carattere decisorio -siccome emessa in un giudizio che verte su situazioni di diritto soggettivo o delle quali è comunque prevista la piena giustiziabilità- che non sia in sé altrimenti modificabile ma che tuttavia non possa ritenersi “definitiva” con riferimento alla situazione sostanziale dedotta in giudizio rappresenta di fatto ipotesi particolarissima, essenzialmente connessa all’assoluta novità che il meccanismo costituito dagli artt. 348 bis e ter c.p.c. rappresenta nel nostro ordinamento.
Pertanto, pur nella doverosa considerazione dei principi deducibili dalla cospicua giurisprudenza di legittimità e costituzionale sviluppatasi con riguardo al ricorso straordinario ex art. 111 Cost., alle sue finalità ed ai suoi presupposti, occorre, affinché il discorso, rimanendo su di un piano astratto perciò necessariamente generico, non risulti alla fine aporetico, contemplare anche la particolare situazione processuale in cui il problema si pone, in ragione delle sue indiscutibili peculiarità, nonché le conseguenze alle quali si giungerebbe aderendo all’una o all’altra delle soluzioni prospettate, per valutare se esse siano in concreto compatibili col sistema di valori ai quali si è ispirato il legislatore costituente nel disciplinare il ricorso straordinario per cassazione nell’ambito dei principi fondamentali del processo, ed occorre, perciò, verificare l’astratta configurabilità di ipotetici limiti al concetto di definitività quale presupposto per il ricorso straordinario ex art. 111 Cost. anche in relazione alle censure in concreto ipotizzabili con riguardo all’ordinanza in discussione.
Alla stregua della disciplina risultante dagli artt. 348 bis e ter c.p.c. il soccombente che si è visto dichiarare inammissibile l’appello con l’ordinanza di cui all’art. 348 ter c.p.c., proponendo ricorso per cassazione avverso la sentenza di primo grado non può ovviamente che dedurre motivi attinenti a quella decisione e non può quindi far valere censure riguardanti eventuali errores in procedendo commessi dal giudice d’appello, posto che per poter conseguire una pronuncia su tali eventuali errori l’unica possibilità sarebbe quella di impugnare il provvedimento che pone termine al procedimento di appello, ossia l’ordinanza declaratoria dell’inammissibilità dello stesso. Se tale ordinanza non fosse impugnabile non sarebbe perciò in alcun modo sindacabile la decisione che “nega” alla parte il giudizio d’appello, ossia l’impugnazione idonea a provocare un riesame della causa nel merito non limitato al controllo di vizi specifici ma inteso ad introdurre un secondo grado in cui il giudizio può essere interamente rinnovato non in funzione dell’esame della sentenza di primo grado ma come nuovo esame della controversia, sia pure nei limiti del proposto appello.
E’ vero che non è previsto alcun diritto costituzionalmente garantito ad un giudizio di secondo grado inteso come diritto ad un nuovo esame della causa nel merito onde il legislatore ordinario ben avrebbe la possibilità di eliminare completamente il giudizio di appello ovvero di escluderlo in relazione a specifiche controversie ed a cagione delle relative peculiarità o ancora, come nella specie, di prevederne l’inammissibilità sulla base di un giudizio prognostico affidato al giudice d’appello nella ricorrenza di determinate circostanze e nel rispetto di una specifica procedura.
In tale ultimo caso, tuttavia, l’esclusione di ogni possibile controllo sul rispetto di limiti, termini e forme previsti dal legislatore per la decisione prognostica affidata al giudice d’appello equivarrebbe a lasciare al mero arbitrio di quest’ultimo la possibilità che la parte fruisca di un giudizio di secondo grado, in quanto la mancanza di ogni possibile impugnazione -sia pure straordinaria- finirebbe per determinare di fatto l’impossibilità di verificare la correttezza della decisione, e, a fortiori, la “giustificatezza”, rispetto a regole date, della disparità di trattamento tra coloro che hanno potuto fruire dell’appello e coloro che non hanno potuto fruirne.
Peraltro, lasciare che, senza alcun potenziale controllo, il giudice d’appello resti arbitro di decidere se la parte possa o meno fruire del giudizio di secondo grado potrebbe in prospettiva determinare (anche se allo stato i primi dati sull’applicazione dell’istituto non sembrano avallare questa ipotesi, risultando al contrario uno scarso utilizzo del medesimo) una sorta di incontrollabile soppressione “di fatto” del giudizio d’appello, finendo in pratica per privare le parti di tale impugnazione anche oltre le ipotesi e i limiti previsti dal legislatore e per scaricare sulla Corte di cassazione questioni che (alla stregua della disciplina vigente, non contemplante una generalizzata ricorribilità “per saltum”) potrebbero e dovrebbero essere “filtrate” attraverso il giudizio d’appello, mentre la previsione della impugnabilità dell’ordinanza ex art. 348 ter c.p.c. ne faciliterebbe un utilizzo “fisiologico”, evitando possibili arbitrii ed ingiustificate disparità di trattamento. E ciò senza che in concreto si arrechi un aggravio particolarmente rilevante per la Corte di cassazione, se si pensa che la mera possibilità di impugnazione dell’ordinanza, scongiurando un (ipotetico) uso abnorme e incontrollato dell’istituto, potrebbe ridurre in prospettiva agguerrite, complesse ed “improprie” impugnazioni in cassazione della sentenza di primo grado, riguarderebbe in ogni caso ipotesi limitate e questioni di pronta soluzione -siccome esclusivamente riferibili ad alcuni vizi processuali propri dell’ordinanza- e potrebbe essere esaminata dalla Corte di cassazione -come nella specie- insieme alla eventuale impugnazione della sentenza di primo grado, in alcuni casi potendo la relativa decisione risultare “assorbente” rispetto all’esame di quest’ultima.
Peraltro, rendere “incontrollabile” una decisione che, escludendo la possibilità di esperire un giudizio di secondo grado ha indiscutibilmente la potenzialità di determinare l’esito della lite (o comunque influire in maniera rilevante su di esso) significherebbe sottrarla al fisiologico percorso potenzialmente “correttivo” assicurato attraverso il sistema delle impugnazioni (anche “straordinarie”) e consegnare quindi le ragioni della parte che, senza il rispetto delle regole previste, sia stata privata del mezzo di gravame in parola, esclusivamente -concorrendone i presupposti- ad una eventuale azione risarcitoria, tra l’altro con indubbio effetto “moltiplicativo” del contenzioso.
Anche alla luce di tali considerazioni, valutate in riferimento alla particolare realtà processuale delineata dagli artt. 348 bis e ter c.p.c., deve dunque ritenersi l’impugnabilità ex art. 111 Cost. dell’ordinanza suddetta per vizi propri consistenti in violazione della normativa processuale.
4. Tanto premesso, occorre precisare che non tutti gli errores in procedendo astrattamente ipotizzabili con riferimento ad una decisione giurisdizionale sono tuttavia compatibili con la peculiare disciplina introdotta dagli artt. 348 bis e ter citati e che, d’altro canto, non sempre avverso tali errori il ricorso straordinario si rivela l’unico rimedio esperibile.
Tra gli errores in procedendo denunciabili in relazione all’ordinanza ex art. 348 ter c.p.c. vengono innanzitutto in rilievo quelli consistenti nel mancato rispetto delle specifiche previsioni rinvenibili nei medesimi artt. 348 bis e ter.
In particolare, occorre considerare che, a norma dell’art. 348 bis, l’ordinanza in esame, essendo, nelle intenzioni del legislatore, uno strumento di semplificazione e di accelerazione inteso alla riduzione dei tempi necessari per la definizione delle cause civili, può essere pronunciata nella fase iniziale del processo “all’udienza di cui all’art. 350…, prima di procedere alla trattazione, sentite le parti” e che pertanto la pronuncia di tale ordinanza oltre il suddetto termine ovvero senza aver sentito le parti sicuramente costituisce error in procedendo che non potrebbe essere fatto valere altrimenti che attraverso il ricorso straordinario.
L’art. 348 bis al comma 2 esclude poi il “filtro” per le cause in cui è obbligatorio l’intervento del pubblico ministero, a norma dell’art. 70 comma 1 c.p.c., e per quelle che in primo grado si sono svolte secondo il rito sommario di cognizione, mentre l’art. 348 ter al comma 2 prevede che, in presenza di un appello principale e di un appello incidentale, l’ordinanza di inammissibilità è pronunciata a condizione che per entrambe le impugnazioni ricorrano, appunto, “i presupposti di cui all’art. 348 bis, comma 1”, essendo, in mancanza, il giudice tenuto a procedere “alla trattazione di tutte le impugnazioni comunque proposte contro la sentenza”.
E non vi è dubbio che anche il mancato rispetto delle suddette regole comporti altrettante violazioni della norma processuale che non potrebbero essere fatte valere se non attraverso il ricorso straordinario.
Merita inoltre particolare attenzione il primo comma dell’art. 348 ter c.p.c. laddove si precisa che l’ordinanza in questione non può essere pronunciata se non “fuori dei casi in cui deve essere dichiarata con sentenza l’inammissibilità o l’improcedibilità dell’appello” e quando l’impugnazione non ha “una ragionevole probabilità di essere accolta”, così chiaramente limitando l’ambito applicativo dell’ordinanza medesima a quello dell’impugnazione manifestamente infondata nel merito.
Infatti, se la suddetta ordinanza è prevista solo nelle ipotesi in cui viene emesso un giudizio prognostico sfavorevole circa la possibilità di accoglimento dell’impugnazione nel merito, la decisione che pronunci invece l’inammissibilità dell’appello per ragioni di carattere processuale -ancorché erroneamente con ordinanza, richiamando l’art. 348 ter c.p.c. e, in ipotesi, pure nel rispetto della relativa procedura- è impugnabile con ricorso ordinario per cassazione, perciò senza neppure la necessità di valutare la sussistenza dei presupposti per la proposizione del ricorso straordinario, trattandosi, nella sostanza, di una sentenza di carattere processuale che non contiene alcun giudizio prognostico negativo circa la fondatezza nel merito della impugnazione e perciò differisce dalle ordinanze in cui tale giudizio prognostico viene espresso, anche se, eventualmente, fuori dei casi normativamente previsti (sulla esperibilità dell’impugnazione ordinaria nei suddetti casi v. la già citata cass. n. 7273 del 2014, costituente una delle decisioni che hanno determinato il contrasto, e più in generale sulla valenza del contenuto “sostanziale” della decisione da impugnare v. SU n. 16727 del 2012, in tema di scioglimento di comunioni, secondo la quale l’ordinanza che, ai sensi dell’art. 789 c.p.c., comma 3, dichiara esecutivo il progetto di divisione in presenza di contestazioni ha natura di sentenza ed è quindi impugnabile con l’appello).
A quelle finora esaminate devono poi aggiungersi ulteriori ipotesi di violazione delle previsioni dettate per disciplinare l’ordinanza in questione, ancorché implicite siccome non espressamente previste dai citati articoli 348 bis e ter ma indirettamente ricavabili dal sistema delineato in proposito dal legislatore: ci si riferisce alle ipotesi in cui l’appello è fondato su ius superveniens o fatti sopravvenuti (ad esempio sopravvenienza di norme interpretative, sentenze della corte costituzionale, o fatti che avrebbero legittimato, avverso sentenze pronunciate in appello o unico grado, la denuncia di alcuni vizi revocatori). Ciò in quanto il giudizio prognostico sfavorevole espresso dal giudice d’appello nell’ordinanza ex art. 348 ter c.p.c. si sostanzia nella conferma di una sentenza “giusta” per essere l’appello prima facie destituito di fondamento e non potrebbe pertanto intervenire rispetto a norme o fatti che non siano stati considerati dal giudice di primo grado.
Infine, alla luce delle considerazioni finora espresse circa il fondamento e le ragioni della ricorribilità dell’ordinanza in esame ai sensi dell’art. 111 comma 7 Cost., non può escludersi la denunciabilità degli errores in procedendo riferibili ad ogni altro provvedimento giudiziario, ovviamente, come rilevato, nei limiti della compatibilità logica e/o strutturale dei medesimi con il contenuto tipico della decisione espressa nell’ordinanza suddetta, e a tale ultimo proposito viene innanzitutto in considerazione la violazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione ai vizi di omessa pronuncia, ultrapetizione ed extra petizione.
Soffermandosi in particolare (per il rilievo indiretto che, come si vedrà in prosieguo, la questione assume in questa sede) sulla omessa pronuncia, occorre considerare che la giurisprudenza di questo giudice di legittimità si è ripetutamente pronunciata sulla distinzione -facilmente comprensibile sul piano statico e teorico, ma più complessa se riguardata dal punto di vista funzionale e dinamico- tra omessa pronuncia e mancanza di motivazione, chiarendo che ad integrare gli estremi del vizio di omessa pronuncia non basta la mancanza di una espressa statuizione del giudice, essendo necessaria la totale pretermissione del provvedimento che si palesa indispensabile alla soluzione del caso concreto, e dovendo pertanto escludersi il suddetto vizio quando la decisione, adottata in contrasto con la pretesa fatta valere dalla parte, ne comporti il rigetto o la non esaminabilità pure in assenza di una specifica argomentazione (v. tra le altre cass. nn. 21612 del 2013; 20311 del 2011; 10696 del 2007 e 10636 del 2007).
E’ vero che la giurisprudenza di legittimità ha anche precisato che l’omessa pronuncia su alcuni dei motivi di appello integra un difetto di attività del giudice di secondo grado che deve essere fatto valere dal ricorrente non con la denuncia della violazione di una norma di diritto sostanziale o del vizio di motivazione -in quanto siffatte censure presuppongono che il giudice del merito abbia preso in esame la questione oggetto di doglianza e l’abbia risolta in modo giuridicamente non corretto ovvero senza giustificare la decisione resa al riguardo- ma attraverso la specifica deduzione del relativo error in procedendo per violazione dell’art. 112 c.p.c. (v. tra le altre cass. nn. 11801 del 2013; 7268 del 2012; 26598 del 2009 nonché 12952 del 2007), tuttavia non può ignorarsi che tale giurisprudenza si è affermata in relazione ad appelli articolati in plurimi motivi ed alla necessità di individuare con nettezza -rispetto alle possibilità di accoglimento (quindi di rigetto) parziale dei medesimi- l’ambito del devolutum e la progressiva formazione del giudicato.
Nell’ipotesi di ordinanza ai sensi dell’art. 348 ter c.p.c., in cui non è invece possibile una pronuncia di inammissibilità dell’impugnazione per mancanza di ragionevole probabilità di accoglimento se non in relazione a tutti i motivi d’appello (ed a tutti gli appelli proposti avverso la medesima sentenza), non risulta pertanto neppure configurabile una omessa pronuncia riguardo a singoli motivi di appello, potendo eventualmente porsi (nei limiti e nei termini in cui sia consentito dalla legislazione vigente) soltanto un problema di motivazione della decisione -necessariamente complessiva- assunta.
Per quanto riguarda infine gli eventuali errori processuali configurabili in riferimento alla statuizione sulle spese contenuta nell’ordinanza in questione, è appena il caso di evidenziare che tale statuizione non può risultare in alcun modo “coinvolta” dall’esito del ricorso per cassazione avverso la sentenza di primo grado, non potendo a tale ipotesi riferirsi l’effetto espansivo cd. “esterno” previsto dal secondo comma dell’art. 336 c.p.c., posto che la cassazione giudica su di una impugnazione che, pur essendo proposta avverso la medesima sentenza di primo grado, è oggettivamente diversa da quella sulla quale ha giudicato il giudice d’appello e che l’ordinanza ex art. 348 ter c.p.c. non può assimilarsi ai “provvedimenti e atti dipendenti dalla sentenza riformata o cassata” ai quali, a norma del citato comma secondo dell’art. 336 c.p.c., devono ritenersi estesi gli effetti della riforma o della cassazione della sentenza.
La statuizione sulle spese contenuta nell’ordinanza suddetta può perciò essere rimessa in discussione (ai sensi del primo comma del citato art. 336 c.p.c.) soltanto se -ammessa l’impugnabilità dell’ordinanza medesima l’impugnazione venga accolta oppure se vi sia stata impugnazione con espresso riguardo a detta statuizione (ad es. da parte del vincitore che lamenti una impropria compensazione ovvero una liquidazione inferiore al minimo previsto o anche da parte del soccombente che lamenti una liquidazione eccessiva). In tal caso non vi è ragione alcuna (giuridica, logica e/o “pratica”) per escludere l’impugnabilità dell’ordinanza in questione, risultando peraltro difficilmente condivisibili (non fosse altro perché “improprie” e comunque idonee a moltiplicare il numero dei processi e dei giudici chiamati a conoscerne) impugnazioni alternative da proporsi in sede esecutiva o attraverso apposito giudizio di cognizione (con tutte le impugnazioni relativamente previste).
5. Sulla base delle considerazioni che precedono è ora possibile passare all’esame dei due motivi di gravame proposti avverso l’ordinanza ex art. 348 ter c.p.c.
Come già evidenziato, col primo di tali motivi la ricorrente, sostenendo che il giudice d’appello avrebbe del tutto omesso di pronunciarsi in ordine al quarto motivo di gravame, denuncia in proposito (non l’omessa pronuncia bensì) la violazione dell’obbligo di motivazione previsto dall’art. 111 comma 4 Cost. nonché dagli artt. 134 e 348 ter c.p.c.
In proposito devono qui innanzitutto richiamarsi tutte le ragioni sopra esposte circa l’incompatibilità della denuncia del vizio di omessa pronuncia con il contenuto e la struttura della decisione ex art. 348 ter c.p.c., ragioni evidentemente considerate dalla stessa ricorrente nell’articolare la censura di violazione dell’obbligo di motivazione (e non di omessa pronuncia).
Inoltre, con riguardo ad entrambi i motivi di ricorso (pure nel secondo motivo denunciandosi violazione dell’obbligo di motivazione imposto dalla legge), occorre ribadire che, essendo il merito ridiscutibile attraverso il ricorso per cassazione avverso la sentenza di primo grado e non essendo pertanto in proposito configurabile la definitività richiesta per il ricorso ex art. 111 comma 7 Cost., le problematiche concernenti la motivazione dell’ordinanza impugnata possono essere affrontate in sede di impugnazione dell’ordinanza ex art. 348 ter c.p.c. (non attraverso la denuncia di un error in iudicando, quindi di un ” vizio di motivazione” -o quel che resta di esso dopo l’ultima riforma dell’art. 360 n. 5 c.p.c.- bensì) solo attraverso la denuncia di violazione della legge processuale che sancisce l’obbligo di motivazione, denuncia che, in entrambi i motivi, è stata peraltro ammissibilmente proposta nei suddetti termini dall’odierna ricorrente.
In ordine alla violazione dell’obbligo di motivazione (quindi delle norme processuali, anche costituzionali, che lo impongono) queste sezioni unite si sono recentemente pronunciate con la sentenza n. 8053 del 2014 sopra richiamata, la quale, in ordine alle modifiche apportate all’art. 360 comma 1 n. 5 c.p.c. dal d.l. n. 83 del 2012, ha confermato la piena attualità della risalente giurisprudenza che (prima della modifica dell’ultimo comma dell’art. 360 c.p.c. ad opera del d.lgs. n 40 del 2006) risolse il problema dell’impugnabilità per mancanza di motivazione dei provvedimenti diversi dalle sentenze mediante l’applicazione diretta dell’articolo 111 Cost., in particolare ritenendo che nella violazione di legge -per la quale, a norma del citato art. 111, è sempre ammesso il ricorso per cassazione- deve considerarsi compresa la violazione anche delle norme processuali e che, ai fini dell’applicazione diretta del precetto costituzionale nei casi in cui la legge ordinaria fosse lacunosa, il ricorso per cassazione riguardante la motivazione trova la sua disciplina nella connessione delle due previsioni contenute nel medesimo articolo 111 Cost. (generalizzata ricorribilità per violazione di legge ed obbligatorietà della motivazione).
In tali termini, pertanto, già alcuni decenni orsono la giurisprudenza di questo giudice di legittimità ha ricompreso fra le violazioni di legge denunciabili in Cassazione ai sensi dell’art. 111 Cost. l’inottemperanza all’obbligo di rendere palesi i motivi delle decisioni, ed il recente arresto delle sezioni unite, sempre rifacendosi a risalenti ed ormai consolidati orientamenti espressi dalle medesime sezioni unite (v. tra le altre su n.5888 del 1992) ha confermato che la violazione del dovere di motivazione deve ravvisarsi non solo nei casi di mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico ma anche nei casi in cui l’esposizione della motivazione non sia idonea a rivelare la ratio decidendi, anche sotto l’aspetto del fatto, situazioni che si verificano nelle ipotesi di motivazione apparente, contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili ovvero motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile.
È inoltre da sottolineare che già la richiamata SU n. 5888 del 1992 (come ripresa e condivisa da SU n. 8053 del 2014) aveva precisato che nelle ipotesi suddette occorre avere riguardo al provvedimento in sé, indipendentemente da qualsiasi riferimento a dati estranei alle argomentazioni addotte dal giudice a sostegno della decisione impugnata, dovendo il vizio logico della motivazione, la lacuna o l’aporia che si assumono inficiarla fino al punto di renderne apparente il supporto argomentativo, essere desumibili dallo stesso tessuto argomentativo attraverso cui essa si sviluppa.
Sulla base della univoca giurisprudenza di queste sezioni unite, sia remota che più recente, non può pertanto esservi dubbio che la violazione del dovere di motivazione è riscontrabile solo nelle ipotesi di totale mancanza della motivazione dal punto di vista materiale e grafico ovvero nelle ipotesi ad esse assimilabili, ossia quando, pur essendovi una motivazione in senso materiale e grafico, essa non contiene una effettiva esposizione delle ragioni poste a base della decisione perché propone contrasti irriducibili fra affermazioni inconciliabili ovvero si presenta perplessa o comunque risulta obiettivamente incomprensibile e quindi non idonea a rivelare la ratio decidendi, essendo peraltro necessario che tale situazione risulti esclusivamente dal medesimo testo della sentenza senza che sia necessario il raffronto con uno o più atti processuali.
Alla stregua di tutto quanto sopra esposto deve affermarsi l’infondatezza dei motivi di ricorso in esame, in quanto nella specie oggettivamente sussiste, dal punto di vista materiale e grafico, una motivazione della ordinanza impugnata, e tale motivazione -benché assai sintetica, in rapporto alle caratteristiche di un provvedimento come l’ordinanza ed in relazione alle precipuità di un giudizio complessivo di tipo prognostico quale quello disciplinato dagli artt. 348 bis e ter c.p.c.- non risulta di per sé (perciò prescindendo dal raffronto con la sentenza di primo grado e l’atto d’appello) illogica, contraddittoria o perplessa al punto di renderla incomprensibile.
L’infondatezza di entrambi i motivi sopra esposti comporta il rigetto del ricorso proposto avverso l’ordinanza pronunciata dai giudici d’appello.
6. Col ricorso proposto avverso la sentenza di primo grado, affidato ad un unico motivo, la società ricorrente, deducendo violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 e seguenti c.c., censura l’interpretazione resa nella sentenza impugnata dal giudice di primo grado in ordine all’accordo transattivo intervenuto tra le parti per violazione del canone ermeneutico costituito dalla interpretazione letterale (da intendersi come criterio pur sempre prioritario di orientamento nella ricostruzione della comune volontà dei contraenti) nonché per violazione del principio dell’interpretazione del contratto secondo buona fede, attesa la chiarezza ed univocità delle espressioni rinvenibili nell’atto in questione nel senso di manifestare la volontà di definire qualsiasi rapporto di debito/credito esistente tra le parti alla data del contratto di transazione, con conseguente necessità di considerare compresa in detta transazione anche la pretesa relativa agli automezzi della (Società 2 Omissis) oggetto di furto mentre si trovavano nel cantiere della (Società 1 Omissis).
La censura è in parte inammissibile e in parte infondata.
E’ necessario premettere che, secondo l’univoca giurisprudenza di questo giudice di legittimità, l’interpretazione dei contratti e degli atti negoziali in genere, in quanto accertamento della comune volontà delle parti in essi espressasi, costituisce attività propria ed esclusiva del giudice di merito, dovendo il sindacato in proposito riservato al giudice di legittimità limitarsi alla verifica del rispetto dei canoni legali di ermeneutica contrattuale (nonché, secondo la giurisprudenza anteriore alla modifica dell’art. 360 n 5 c.p.c., al controllo della coerenza e logicità della motivazione, censura nella specie neanche proposta, avendo la società ricorrente, come sopra rilevato, denunciato soltanto la violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale).
Deve pertanto escludersi che il ricorrente in cassazione possa di fatto, sotto le spoglie di una denuncia per violazione di legge (artt. 1362 e seguenti c.c.), chiedere al giudice di legittimità di procedere ad una nuova interpretazione dell’atto negoziale, ovvero cercare di far valere pretesi vizi logici della motivazione che sostiene l’accertamento in fatto operato dal giudice di merito in ordine alla volontà delle parti espressasi nell’atto negoziale.
Secondo la concorde giurisprudenza di questo giudice di legittimità, inoltre, qualora deduca la violazione dei citati canoni interpretativi, il ricorrente deve precisare in quale modo il ragionamento del giudice se ne sia discostato, non essendo sufficiente un astratto richiamo ai criteri asseritamente violati e neppure una critica della ricostruzione della volontà dei contraenti che, benché genericamente riferibile alla violazione denunciata, si riduca, come nella specie, alla mera (benché energicamente ribadita) prospettazione di un risultato interpretativo diverso da quello accolto nella sentenza impugnata (v. cass. n. 25728 del 2013 e, tra le altre, cass. n.1754 del 2006).
Tanto premesso sul piano della ammissibilità della censura, è poi da rilevare che in ricorso l’interpretazione letterale viene prospettata come criterio prioritario di orientamento per l’individuazione della comune volontà dei contraenti, mentre in proposito la giurisprudenza di questo giudice di legittimità (v. tra le altre cass. n. 13083 del 2009) non ha mancato di rilevare che l’art. 1362 c.c. impone all’interprete di indagare quale sia stata la comune intenzione delle parti senza limitarsi al senso letterale delle parole (in ciò differenziandosi dall’art. 12 delle preleggi che, nell’interpretazione della legge, assegna un valore prioritario al dato letterale, individuando, quale ulteriore elemento, l’intenzione del legislatore), ed ha altresì sottolineato che nell’interpretazione del contratto il dato testuale, pur assumendo un rilievo fondamentale, non può essere ritenuto decisivo ai fini della ricostruzione del contenuto dell’accordo, giacché il significato delle dichiarazioni negoziali può ritenersi acquisito solo al termine del processo interpretativo, il quale non può arrestarsi alla ricognizione del tenore letterale delle parole ma deve estendersi alla considerazione di tutti gli ulteriori elementi, testuali ed extratestuali, indicati dal legislatore, anche quando, in ipotesi, le espressioni appaiano di per sé “chiare” e non bisognose di approfondimenti interpretativi, dal momento che anche un’espressione prima facie chiara potrebbe non risultare più tale se collegata ad altre espressioni contenute nella stessa dichiarazione o posta in relazione al comportamento complessivo delle parti (v. cass. n. 12120 del 2005).
E’ poi appena il caso di aggiungere che il secondo comma del citato art. 1362 c.c. precisa che per determinare la comune intenzione delle parti si deve valutare il loro comportamento complessivo anche posteriore alla conclusione del contratto, mentre l’art. 1363 c.c. prevede che le clausole del contratto si interpretano le une per mezzo delle altre, attribuendo a ciascuna il senso che risulta dal complesso dell’atto.
Nella specie il giudice di merito ha ricostruito la comune intenzione delle parti senza, appunto, limitarsi alla interpretazione letterale (pure giustamente presa in considerazione) ma in parte affiancando ad essa sia la valutazione del comportamento complessivo delle parti sia l’interpretazione “complessiva” delle previsioni contrattuali nel loro contesto (le une per mezzo delle altre).
A fronte di questo normativamente corretto percorso esegetico (e peraltro, ripetesi, senza proporre censure sul piano della motivazione con riguardo all’accertamento in fatto) il ricorrente si limita a contrapporre un risultato ermeneutico diverso da quello al quale è pervenuto il giudice di primo grado e fondato esclusivamente sulla asserita chiarezza ed univocità del testo letterale, che di per sé determinerebbe altresì la violazione del canone dell’interpretazione del contratto secondo buona fede, senza che peraltro venga precisato, neppure con riguardo alla denuncia di violazione di tale canone ermeneutico, in quale modo il ragionamento del giudice se ne sia discostato.
Dall’argomentare che precede discende la reiezione anche del ricorso proposto avverso la sentenza di primo grado.
7. Ottemperando al disposto del primo comma dell’art. 384 c.p.c. (nel testo risultante dalla modifica introdotta dal d.lgs. n. 40 del 2006, applicabile ratione temporis) si enuncia, con riguardo alla questione decisa in relazione al primo dei ricorsi esaminati, il seguente principio di diritto: “Avverso l’ordinanza pronunciata dal giudice d’appello ai sensi dell’art. 348 ter c.p.c. è sempre ammissibile ricorso straordinario per cassazione ai sensi dell’art. 111 comma 7 Cost. limitatamente ai vizi propri della medesima costituenti violazioni della legge processuale che risultino compatibili con la logica (e la struttura) del giudizio sotteso all’ordinanza in questione, dovendo in particolare escludersi tale compatibilità in relazione alla denuncia di omessa pronuncia su di un motivo di appello, attesa la natura “complessiva” del giudizio prognostico, necessariamente esteso a tutte le impugnazioni relative alla medesima sentenza nonché a tutti i motivi di ciascuna impugnazione, e potendo, in relazione al silenzio serbato in sentenza su di un motivo di censura, eventualmente porsi (nei termini e nei limiti in cui possa rilevare sul piano impugnatorio) soltanto un problema di motivazione”.
Il contrasto e le dissonanze riscontrate nella giurisprudenza di legittimità in ordine alle problematiche esaminate nonché la novità delle questioni trattate giustifica l’integrale compensazione tra le parti delle spese processuali relative ad entrambi i ricorsi.
Poiché i ricorsi sono stati proposti successivamente al 30 gennaio 2013 e sono stati respinti, sussistono le condizioni per dare atto -ai sensi dell’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012- della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per le stesse impugnazioni integralmente rigettate.
P.Q.M.
La Corte a sezioni unite rigetta i ricorsi e compensa le spese.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, d.p.r. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, I. n. 228 del 2012, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per i ricorsi rigettati, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.
Così deciso in Roma il 6 ottobre 2015