Corte Suprema di Cassazione – sezione terza civile – sentenza n.18307 del 18 settembre 2015

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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza del 24/1/2012 la Corte d’Appello di Roma, in accoglimento del gravame interposto in via incidentale dal sig. (Omissis) e dalla società Assicurazioni Generali s.p.a., rigettato quello in via principale spiegato dal sig. (Omissis), e in conseguente riforma della pronunzia Trib. Roma n. _ del 2004, ha respinto la domanda da quest’ultimo contro i primi proposta di restituzione delle somme pagate a titolo di corrispettivo della prestazione odontoiatrica dal (Omissis) espletata nei suoi confronti e di risarcimento dei danni lamentati in conseguenza dell’asserita erroneità della stessa.

Avverso la suindicata pronunzia della corte di merito il (Omissis) propone ora ricorso per cassazione, affidato a 5 motivi, illustrati da memoria.

Resistono con separati controricorsi il (Omissis) e la società di Assicurazioni Generali s.p.a.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il l° motivo il ricorrente denunzia «violazione e falsa applicazione>> degli artt. 1176, 2° co., 2236, 2967 c.c., 342 c.p.c., in riferimento all’art. 360, 1° co. n. 3, c.p.c.; nonché «omessa, insufficiente e contraddittoria» motivazione su punto decisivo della controversia, in riferimento all’art. 360, 1° co. n. 5, c.p.c.

Lamenta che erroneamente la corte di merito ha ritenuto non specifici i motivi del suo atto d’appello.

Si duole che la corte di merito abbia erroneamente escluso la responsabilità del dentista, pur nell’ipotesi che si sia trattato di intervento routinario, non avendo questi fornito la prova liberatoria.

Il motivo è fondato e va accolto p.q.r. nei termini di seguito indicati.

Va anzitutto osservato che come questa Corte ha avuto più volte modo di affermare, l’indicazione dei motivi di appello richiesta dall’art. 342 c.p.c. non deve necessariamente consistere in una rigorosa e formalistica enunciazione delle ragioni invocate a sostegno dell’appello, richiedendosi invece soltanto una esposizione chiara ed univoca, anche se sommaria, sia della domanda rivolta al giudice del gravame sia delle ragioni della doglianza, all’interno della quale i motivi di gravame, dovendo essere idonei a contrastare la motivazione della sentenza impugnata, devono essere più o meno articolati, a seconda della maggiore o minore specificità nel caso concreto di quella motivazione, potendo sostanziarsi pure nelle stesse argomentazioni addotte a suffragio della domanda disattesa dal primo giudice ( v. Cass., 24/8/2007, n. 17960 ).

A tale stregua, deve considerarsi invero integrato in sufficiente grado l’onere di specificità dei motivi di impugnazione, valutato in correlazione con il tenore della motivazione della sentenza impugnata, allorquando alle argomentazioni in essa esposte siano contrapposte quelle
dell’appellante in guisa tale da inficiarne il fondamento logico giuridico, come nel caso in cui lo svolgimento dei motivi sia compiuto in termini incompatibili con la complessiva argomentazione della sentenza, restando in tal caso superfluo l’esame dei singoli passaggi argomentativi ( cfr. Cass., 31/5/2006, n. 12984; Cass., 14/3/2006, n. 5445 Cass., 24/11/2005, n. 24817 ).

Orbene, i suindicati risultano invero disattesi dalla corte di merito nell’impugnato provvedimento laddove ha ritenuto non specifici i motivi di gravame pur avendo l’appellante censurato la sentenza di 10 grado, in particolare per avere il giudice di prime cure: a) avallato le conclusioni del CTU basate sulla asseritamente «errata, imprudente ed imperita scelta del [Protocollo] Branemark Tipo 2 ( da 3 a 7 mm di osso residuo ), effettuabile in un tempo solo, piuttosto che il Branemark Tipo 3 (osso residuo inferiore a 3 mm), da effettuarsi in due tempi»; b) condiviso «le giustificazioni date dal CTU ( già contestate nel giudizio di 10 grado ) al mancato ricorso da parte dell’odierno appellato ad esami diagnostici più accurati quali TAC e DENTASCAN …, al mancato uso di membrane riassorbibili, al mancato uso anche di osso autologo, che il CTU erroneamente afferma essere divenuto realizzabile solo successivamente anche in ambulatorio privato (risultando il contrario dagli stessi Allegati depositati dal CTU e sotto riportati), per il riempimento della cavità, oltre che del solo osso allogenico>>; c) erroneamente non ravvisato, «con una motivazione inadeguata e insufficiente, la responsabilità professionale dell’odontoiatra, e senza alcun tipo di limitazione, sia nel fallimento della terapia implantologica che nella conseguente impossibilità di eseguire un nuovo rialzo del seno mascellare e nella sinusite mascellare iatrogena, oltre che della fistola oro-antrale …; responsabilità che rileva già dal grave iniziale errore diagnostico che lo ha portato a ritenere possibile eseguire, peraltro non correttamente e comunque con esiti fallimentari, l’intervento di rialzo del seno mascellare secondo il Protocollo “Branemark Tipo 2″»; d) erroneamente condiviso «ancora una volta l’infondata tesi del CTU il quale avrebbe rilevato, riguardo i denti 36, 37 e 46 ( la cui necessità di estrazione era stata contestata dall’odierno appellante ), che gli stessi risultavano affetti non da semplici “infezioni apicali” ma, addirittura, da “cisti granulomatose”, anche se di tale situazione più grave il CTU ed il Tribunale non fanno riferimento ad alcuna prova>>.

Censure invero senz’altro idonee a fondare una specifica contrapposizione dell’appellante rispetto alla pronunzia emessa dal giudice di primo grado, consentendo al giudice del gravame di percepire con certezza il contenuto delle censure, concernenti in particolare la lamentata adesione alle conclusioni del CTU asseritamente fondate su una palese devianza da nozioni correnti della scienza medica, nonché nell’omissione di accertamenti strumentali indicati come imprescindibili per la formulazione di una corretta diagnosi (cfr., Cass., 3/2/2012, n. 1652).

Quanto al merito, come questa Corte ha avuto più volte modo di affermare, in tema di responsabilità civile derivante da attività medico-chirurgica, in base alla regola di cui all’art. 1218 c.c. il paziente-creditore ha il mero onere di provare il contratto e allegare il relativo inadempimento o inesatto adempimento, e cioè la difformità della prestazione ricevuta rispetto al modello normalmente realizzato da una condotta improntata alla dovuta diligenza, non essendo invece tenuto a provare la colpa del medico e/o della struttura sanitaria, e la relativa gravità (v. Cass., Sez. Un., 11/1/2008, n. 577; Cass., 13/4/2007, n. 8826; Cass., 24/5/2006, n. 12362; Cass., 21/6/2004, n. 11488. Da ultimo v. Cass., 11/11/2011, n. 23564; Cass., 9/10/2012, n. 17143 ).

Si è al riguardo da questa Corte ulteriormente precisato che la distinzione tra prestazione di facile esecuzione e prestazione implicante la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà non può valere come criterio di distribuzione dell’onere della prova, bensì solamente ai fini della valutazione del grado di diligenza e del corrispondente grado di colpa riferibile al sanitario.

All’art. 2236 c.c., non va pertanto assegnata rilevanza alcuna ai fini della ripartizione dell’onere probatorio, incombendo in ogni caso al medico dare la prova della particolare difficoltà della prestazione, giacché la norma in questione implica solamente una valutazione della colpa del professionista in relazione alle circostanze del caso concreto (v. Cass., 13/4/2007, n. 8826; Cass., 28/5/2004, n. 10297; Cass., 21/6/2004, n. 11488).

Appare in effetti incoerente ed incongruo richiedere al professionista la prova idonea a vincere la presunzione di colpa a suo carico quando trattasi di intervento di facile esecuzione o routinario, e addossare viceversa al paziente l’onere di provare l’inadempimento quando l’intervento è di particolare o speciale difficoltà (in tal senso v. invece Cass., 4/2/1998, n. 1127; Cass., 11/4/1995, n. 4152), e cioè proprio nel caso in cui l’intervento implichi la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, richiedendo notevole abilità e implicando la soluzione di problemi tecnici nuovi o di speciale complessità, con largo margine di rischio in presenza di ipotesi non ancora adeguatamente studiate o sperimentate, ovvero oggetto di sistemi diagnostici, terapeutici e di tecnica chirurgica diversi ed incompatibili tra loro (v. Cass., 28/5/2004, n. 10297; Cass., 10/5/2000, n. 5945; Cass., 19/5/1999, n. 4852; Cass., 16/11/1988, n. 6220; Cass., 18/6/1975, n. 2439). Ciò in quanto verrebbe altrimenti ad ingiustificatamente gravarsi per il paziente, in contrasto invero con il principio di generale favor per il creditore-danneggiato cui l’ordinamento è informato (cfr. Cass., 20/2/2006, n. 3651).

In tali circostanze è infatti indubitabilmente il medico specialista a conoscere le regole dell’arte e la situazione specifica -anche in considerazione delle condizioni del paziente-del caso concreto, avendo pertanto la possibilità di assolvere all’onere di provare l’osservanza delle prime e di motivare in ordine alle scelte operate in ipotesi in cui maggiore è la discrezionalità rispetto a procedure standardizzate.

È allora da superarsi, sotto il profilo della ripartizione degli oneri probatori, ogni distinzione tra interventi “facili” e “difficili”, in quanto l’allocazione del rischio non può essere rimessa alla maggiore o minore difficoltà della prestazione, l’art. 2236 c.c., dovendo essere inteso come contemplante una regola di mera valutazione della condotta diligente del debitore (v. Cass., 13/4/2007, n. 8826; Cass., 28/5/2004, n. 10297; Cass., 21/6/2004, n. 11488).

Va quindi conseguentemente affermato che in ogni caso di “insuccesso” incombe al medico dare la prova della particolare difficoltà della prestazione (v. Cass., Sez. Un., 11/1/2008, n. 577; Cass., 13/4/2007, n. 8826; Cass., 28/5/2004, n. 10297; Cass., 21/6/2004, n. 11488).

Spetta in ogni caso ( e a fortiori ove trattisi come nella specie di intervento semplice o routinario ) al medico provare che il risultato “anomalo” o anormale rispetto al convenuto esito dell’intervento o della cura, e quindi dello scostamento da una legge di regolarità causale fondata sull’esperienza, dipende da fatto a sé non imputabile, in quanto non ascrivibile alla condotta mantenuta in conformità alla diligenza dovuta, in relazione alle specifiche circostanze del caso concreto ( v. Cass., 9/10/2012, n. 17143 ), bensì ad evento imprevedibile e non superabile con l’adeguata diligenza cfr., Cass., 21/7/2011, n. 15993; Cass., 7/6/2011, n. 12274. E già Cass., 24/5/2006, n. 12362; Cass., 11/11/2005, n. 22894. In altri termini, dare la prova del fatto impeditivo ( v. Cass., 28/5/2004, n. 10297; Cass., 21/6/2004, n. 11488 ), rimanendo altrimenti soccombente, in applicazione della regola generale ex artt. 1218 e 2697 c.c. di ripartizione dell’onere probatorio fondata sul principio di c.d. vicinanza alla prova o di riferibilità (v. Cass., 9/11/2006, n. 23918; Cass., 21/6/2004, n. 11488; Cass., Sez. Un., 23/5/2001, n. 7027; Cass., Sez. Un., 30/10/2001, n. 13533; Cass., 13/9/2000, n. 12103), o ancor più propriamente ( come sottolineato anche in dottrina ), sul criterio della maggiore possibilità per il debitore onerato di fornire la prova, in quanto rientrante nella sua sfera di dominio, in misura tanto più marcata quanto più l’esecuzione della prestazione consista nell’applicazione di regole tecniche sconosciute al creditore, essendo estranee alla comune esperienza, e viceversa proprie del bagaglio del debitore come nel caso specializzato nell’esecuzione di una professione protetta ( cfr., da ultimo, Cass., 20/10/2014, n. 22222).

Provati dal paziente danneggiato il contratto ( o il contatto sociale ) e l’insorgenza o l’aggravamento della patologia ed allegato l’inadempimento del debitore astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato, rimane a carico del debitore dimostrare o che tale inadempimento non vi è stato ovvero che, pur esistendo, ovvero che esso non sia stato causa del danno. Con la conseguenza che, ove all’esito del giudizio permanga incertezza sull’esistenza del nesso causale fra condotta del medico e danno, questa ricade sul debitore ( v. Cass., Sez. Un., 11/1/2008, n. 577, e conformemente, da ultimo, Cass., 12/12/2013, n. 27855 e Cass., 3/9/2014, n. 20547 ).

Orbene, la corte di merito ha nell’impugnata sentenza disatteso ( anche ) i suindicati principi.

In particolare là dove ha affermato che «con motivazione assai stringata e non perfettamente intellegibile il tribunale ha affermato che la responsabilità per l’insorgenza della fistola oro-antrale andava attribuita al (Omissis) “dal momento che il trattamento della stessa da parte del convenuto, benché verosimilmente esente da particolari problemi di esecuzione, non ha avuto esito positivo”. Probabilmente il tribunale ha inteso dire che la fistola oro-antrale era stata riscontrata nella sua oggettività e che, pertanto, essa andava attribuita al (Omissis) quale inadempimento contrattuale: in tal modo interpretata la soluzione adottata dal primo giudice, essa risulterebbe nondimeno intrinsecamente errata, dal momento che la responsabilità per inadempimento è pur sempre una responsabilità per colpa, sicché, mancando “particolari problemi di esecuzione”, ossia se ben s’intende, essendo stata positivamente constatata la correttezza dell’intervento del (Omissis), la sua responsabilità avrebbe dovuto essere comunque esclusa», atteso che «il dottor (Omissis) ha riconosciuto la bontà dell’esecuzione dell’opera del (Omissis), provvedendo all’installazione del ponte … ed è del tutto ovvio che tale installazione non vi sarebbe stata se fosse stata presente in loco una fistola: va da sé che quest’ultima si è creata, in una situazione di corretta esecuzione del precedente lavoro, dopo l’intervento dei dottori (Omissis e Omissis), sicché non v’è modo di attribuirne la responsabilità al (Omissis), che tale fistola è stato chiamato a curare successivamente al suo insorgere».

Dopo aver premesso che «il tribunale ha inteso dire che la fistola oro-antrale era stata riscontrata nella sua oggettività>>, la corte di merito ha invero esteso anche alla cura di detta fistola la «correttezza dell’intervento del (Omissis)», dal giudice di prime cure viceversa «positivamente accertata>> solo con riferimento all’attività di stomatologia, ortodonzia, chirurgia conservativa con impianti di protesi fisse e rialzo del seno mascellare.

A tale stregua, il giudice del gravame ha ritenuto la sentenza di primo grado censurabile per avere il giudice di prime cure a tale attività ascritto l’insorgenza della fistola in questione («essendo stata positivamente constatata la correttezza dell’intervento del (Omissis), la sua responsabilità avrebbe dovuto essere comunque esclusa … il dottor (Omissis) ha riconosciuto la bontà dell’esecuzione dell’opera del (Omissis), provvedendo all’installazione del ponte … ed è del tutto ovvio che tale installazione non vi sarebbe stata se fosse stata presente in loco una fistola>>), al riguardo sottolineando che la stessa si era invero «creata» solo «dopo l’intervento dei dottori (Omissis e Omissis)», all’esito di una «corretta esecuzione del precedente lavoro» da parte dell’odierno resistente, sicché «non v’è modo di attribuirne la responsabilità al Tiroli>>.

Orbene, siffatta ricostruzione è erronea, come del pari erronea (oltre che contraddittoria, attesa la sopra riportata premessa) è la relativa valutazione operata dalla corte di merito.

Dopo avere escluso la possibilità di ravvisarsi una condotta imprudente, imperita o negligente da parte dell’odierno resistente nell’espletamento della suindicata pregressa attività di stomatologia, ortodonzia, chirurgia conservativa con impianti di protesi fisse e rialzo del seno mascellare, il giudice di prime cure ha infatti diversamente ritenuto quanto all’attività dal dentista odierno resistente posta in essere per la cura della fistola oro-antrale de qua.

Preso atto della sua obiettiva sussistenza ( di cui, come detto, la stessa corte di merito dà atto nell’impugnata sentenza: «il tribunale ha inteso dire che la fistola oro-antrale era stata riscontrata nella sua oggettività» ), ed osservato che la relativa cura da parte del (Omissis) non ha avuto esito positivo, non risultando risolutiva della problematica e rendendo anzi necessari due interventi di CALDWELL LUC, diversamente da quanto affermato dalla corte di merito nell’impugnata sentenza il giudice di prime cure ha in realtà esclusivamente di un tanto ( e non già della relativa insorgenza ) ritenuto responsabile il (Omissis), nell’implicita valorizzazione della mancanza di prova liberatoria dal medesimo al riguardo fornita.

Dell’impugnata sentenza, assorbiti gli altri motivi nonché ogni ulteriore e diversa questione, va pertanto disposta la cassazione in relazione, con rinvio alla Corte d’Appello di Roma, che in diversa composizione procederà a nuovo esame, facendo applicazione dei seguenti principi:

L’indicazione dei motivi di appello richiesta dall’art. 342 c.p.c. non deve necessariamente consistere in una rigorosa e formalistica enunciazione delle ragioni invocate a sostegno dell’appello, richiedendosi invece soltanto una esposizione chiara ed univoca, anche se sommaria, sia della domanda rivolta al giudice del gravame sia delle ragioni della doglianza, all’interno della quale i motivi di gravame, dovendo essere idonei a contrastare la motivazione della sentenza impugnata, devono essere più o meno articolati, a seconda della maggiore o minore specificità nel caso concreto di quella motivazione, potendo sostanziarsi pure nelle stesse argomentazioni addotte a suffragio della domanda disattesa dal primo giudice.

Ne consegue che deve considerarsi integrato in sufficiente grado l’onere di specificità dei motivi di impugnazione, valutato in correlazione con il tenore della motivazione della sentenza impugnata, allorquando alle argomentazioni in essa esposte siano contrapposte quelle dell’appellante in guisa tale da inficiarne il fondamento logico giuridico, come nel caso in cui lo svolgimento dei motivi sia compiuto in termini incompatibili con la complessiva argomentazione della sentenza, restando in tal caso superfluo l’esame dei singoli passaggi argomentativi.

Sono pertanto idonee a fondare una specifica contrapposizione dell’appellante rispetto alla pronunzia emessa dal giudice di primo grado, consentendo al giudice del gravame di percepirne con certezza il contenuto, le censure concernenti in particolare l’adesione alle conclusioni del CTU asseritamente fondate su una palese devianza da nozioni correnti della scienza medica e nell’omissione di accertamenti strumentali indicati come imprescindibili per la formulazione di una corretta diagnosi.

In tema di responsabilità civile derivante da attività medico-chirurgica, il paziente che agisce in giudizio deducendo l’inesatto adempimento dell’obbligazione sanitaria deve provare il contratto ed allegare l’inadempimento del professionista, restando a carico dell’obbligato l’onere di provare l’esatto adempimento, con la conseguenza che la distinzione fra prestazione di facile esecuzione e prestazione implicante la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà non vale come criterio di ripartizione dell’onere della prova, ma rileva soltanto ai fini della valutazione del grado di diligenza e del corrispondente grado di colpa, spettando, al sanitario la prova della particolare difficoltà della prestazione, in conformità con il principio di generale favor per il creditore danneggiato cui l’ordinamento è informato.

Ai fini del riparto dell’onere probatorio l’attore, paziente danneggiato, deve limitarsi a provare l’esistenza del contratto (o il contatto sociale) e l’insorgenza o l’aggravamento della patologia ed allegare l’inadempimento del debitore, astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato, rimanendo a carico del debitore dimostrare o che tale inadempimento non vi è stato ovvero che, pur esistendo, esso non sia stato causa del danno.

Il giudice di rinvio provvederà anche in ordine alle spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte accoglie p.q.r. il ricorso. Cassa in relazione l’impugnata sentenza e rinvia, anche per le spese del giudizio di cassazione, alla Corte d’Appello di Roma, in diversa composizione.

 

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