SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza in data 6 marzo 2014 il Tribunale di Reggio Emilia accoglieva il ricorso ex art.1 comma 48 L.92/12 depositato il 31/10/12 da (lavoratrice Omissis) nei confronti della (datore di lavoro Omissis), dichiarando la illegittimità del recesso per giusta causa intimatole in data 25/5/12 con gli effetti reintegratori e risarcitori sanciti dall’art.18 1.300/70 nel testo vigente anteriormente alla riforma di cui alla L.92/12 ed applicabile ratione temporis. Sul reclamo interposto dalla (datore di lavoro Omissis), la Corte d’Appello di Bologna, in riforma della pronuncia del giudice di prima istanza, respingeva le domande spiegate dalla lavoratrice. Nel pervenire a tali conclusioni la Corte territoriale osservava, per quel che in questa sede rileva, che il fatto contestato alla dipendente (costituente reato) rientrava nell’ambito dei canoni di gravità sanciti dall’art.2119 c.c. e nella esemplificazione di tale paradigma offerta dall’art.229 c.c.n.l. di settore che espressamente richiama .”il diverbio litigioso seguito da vie di fatto in servizio, anche fra dipendenti, che comporti nocumento o turbativa al normale esercizio dell’attività aziendale”. In tale prospettiva, rimarcava che l’episodio oggetto di contestazione si era verificate al cospetto di altri dipendenti, non mancando di sottolinearne i riflessi, in termini di gravità, sotto il profilo del disvalore ambientale e della responsabilità gravante sul datore di lavoro ex art.2087 e,c., investito di una posizione di garanzia nei confronti delle maestranze. Avverso tale decisione interpone ricorso per cassazione la (lavoratrice Omissis) sostenuto da tre motivi. Resiste la parte intimata con controricorso illustrato da memoria ex art.378 c.p.c.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo è denunciata violazione dell’art.112 c.p.c. in relazione all’art.360 n.4 c.p.c. per “omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti”. Si stigmatizza l’impugnata sentenza per aver omesso ogni pronuncia in ordine all’eccezione svolta nella fase sommaria dalla lavoratrice con riferimento alla mancata contestazione in sede disciplinare, da parte aziendale, delle presunte violazioni dei dettami di cui agli artt. 220-225 e 229 c.c.n.l. settore terziario ad essa addebitate. Detta contestazione era da ritenersi generica, giacché recava un mero riferimento al diverbio fra le lavoratrici in assenza di alcuno specifico richiamo alla violazione di disposizioni contrattuali collettive.
Il motivo presenta evidenti profili di inammissibilità. Non può mancarsi, innanzitutto, di rimarcare, che la critica si muove su binari di incerto confine fra le ragioni di omessa pronuncia ex art.360 comma primo n.4 c.p.c. e quelle di vizio di motivazione ex art.360 comma primo n.5 c.p.c. – integralmente riprodotto nella dizione risultante dalla novella di cui alla L. 7.6.12 n.134 – in violazione della regola di chiarezza posta dall’art. 366 c.p.c.. La ricorrente, nel lamentare l’omessa pronuncia in ordine alla eccezione sollevata in prime cure, tende in realtà a pervenire ad una rinnovata valutazione delle risultanze istruttorie già oggetto di esaustiva disamina da parte della Corte di merito, con modalità non consentite in questa sede di legittimità. In tema di ricorso per cassazione, è contraddittoria la denuncia, in un unico motivo, dei due distinti vizi di omessa pronuncia e di omessa motivazione su un punto decisivo della controversia. Il primo, infatti, implica la completa omissione del provvedimento indispensabile per la soluzione del caso concreto e si traduce in una violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., che deve essere fatta valere esclusivamente a norma dell’art. 360 cod. proc. civ., n.4, e non con la denuncia della violazione di norme di diritto sostanziale, ovvero del vizio di motivazione ex art. 360, n.5, cod. proc. civ., mentre il secondo presuppone l’esame della questione oggetto di doglianza da parte del giudice di merito, seppure se ne lamenti la soluzione in modo giuridicamente non corretto ovvero senza adeguata giustificazione, e va denunciato ai sensi dell’art. 360, n. 5, cod. proc. civ. (vedi Cass. 18-6-2014 n. 13866). Non può, inoltre, sottacersi, che “Nel giudizio per cassazione – che ha ad oggetto censure espressamente e tassativamente previste dall’art.360 c.p.c., comma 1 – il ricorso deve essere articolato in specifici motivi immediatamente ed inequivocabilmente riconducibili ad una delle cinque ragioni di impugnazione previste dalla citata disposizione, pur senza la necessaria adozione di formule sacramentali o l’esatta indicazione numerica di una delle predette ipotesi. Pertanto, nel caso in cui il ricorrente lamenti l’omessa pronunzia, la parte della impugnata sentenza, in ordine ad una delle domande o eccezioni formulate non è necessario che faccia espressa menzione della ricorrenza dell’ipotesi di cui all’art.360 c.p.c., somma. 1, n.4 (con riferimento all’art. 112 c.p.c.), purché nel motivo si faccia inequivocabilmente riferimento alla nullità della decisione derivante dalla relativa omissione. Va invece dichiarato inammissibile il motivo allorquando, in ordine alla suddetta doglianza, il ricorrente sostenga che la motivazione sia stata omessa o insufficiente o si limiti ad argomentare sulla violazione di legge” (vedi Cass. S.U. 24-7- 2013 n.17931, Cass. 31-10-13 n.24553). Calando il suddetto principio – al quale si intende dare continuità – nella fattispecie in esame, deve ritenersi che il motivo di ricorso in precedenza riportato sia inammissibile, giacché non reca alcun riferimento alla denuncia di vizi dell’attività del giudicante che comportino la nullità della sentenza o del procedimento, per il pregiudizio subito dal diritto di difesa della parte in dipendenza di un error in procedendo, essendosi la ricorrente limitata a censurare una omessa pronuncia (rectius motivazione) su di una circostanza che non riveste alcun valore decisivo ai fini della soluzione della controversia (mancato richiamo nella lettera di contestazione delle disposizioni del c.c.n.l. di settore che si assumevano violate).
Con il secondo mezzo di impugnazione si deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 2104, 2106 e 2119 c.c. nonché di plurime disposizioni del c.c.n.l. settore terziario. La ricorrente reputa non corretta l’attività ermeneutica svolta dalla Corte territoriale, avente ad oggetto il disposto di cui all’art.2119 c.c. e la sussunzione del fatto nell’archetipo normativo. Lamenta l’omessa considerazione del costante orientamento giurisprudenziale alla cui stregua il comportamento del lavoratore, per quanto grave, se dotato di carattere episodico non può dar luogo ad un giudizio di particolare gravità tale da giustificare il recesso per giusta causa. Anche tale motivo palesa evidenti profili di inammissibilità, giacche sollecita, nella forma apparente della denuncia di error in iudicando, un riesame dei fatti, non consentita nella presente sede. Va in proposito rimarcato che, in tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione. Il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi – violazione di legge in senso proprio a causa dell’erronea ricognizione dell’astratta fattispecie normativa, ovvero erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta – è segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (vedi Cass. 16 luglio 2010 n.16698, cui adde Cass. 18 novembre 2011 n.24253). Nella specie ricorre proprio siffatta ultima ipotesi in quanto la violazione di legge viene dedotta mediante la contestazione della valutazione delle risultanze di causa la cui censura è ammissibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione, che qui non viene denunciato, ma non sotto il profilo della violazione o falsa applicazione di legge. E, sempre sulla medesima linea interpretativa, va rimarcato come la giurisprudenza di questa Corte sia costante nel ritenere che “la violazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. è apprezzabile, in sede di ricorso per cassazione, nei limiti del vizio di motivazione di cui all’art.360, primo comma n.5), cod. proc. civ. (v., fra le altre, Caso. l° settembre 2011 n.17977). Nello specifico, si impone, quindi, l’evidenza della inammissibilità del motivo laddove tende a pervenire ad una rinnovata valutazione degli elementi fattuali sottesi alla pretesa azionata, non consentita in questa sede di legittimità. La censura, si palesa, peraltro, priva di fondamento giacche la Corte territoriale, all’esito di una approfondita ricognizione del materiale probatorio acquisito, come accennato nello storico di lite, ha rimarcato i profili di gravità che qualificavano la condotta della lavoratrice, valorizzandone i riflessi in termini obiettivi di disvalore ambientale, riverberati sul vincolo fiduciario sotteso al rapporto di lavoro. L’episodio di cui la ricorrente si era resa protagonista, si era, infatti, verificato al cospetto di altri dipendenti ed andava riguardato anche in rapporto alla peculiarità delle mansioni ascritte alla lavoratrice, implicanti un diretto contatto con la clientela, ed alla funzione di garanzia della sicurezza dei dipendenti di cui è investita la parte datoriale dalla disposizione codificata all’art.2087 c.c.. Si tratta di una motivazione congrua e completa, elaborata attraverso un accertamento in concreto della reale entità e gravità del comportamento addebitato al dipendente che non si arresta alla astratta corrispondenza della condotta del lavoratore alla fattispecie tipizzata contrattualmente, e si sottrae pertanto alla censura all’esame, atteso che “il giudizio di proporzionalità tra licenziamento disciplinare e addebito contestato è devoluto al giudice di merito, la cui i valutazione non è censurabile in sede di legittimità, ove sorretta da motivazione sufficiente e non contraddittoria” (vedi ex alis, Cass. 25 maggio 2012 n. 8293).
Con il terzo motivo si denuncia insufficiente o contraddittoria motivazione ai sensi dell’art.360 comma primo n.5 in relazione all’art.112 c.p.c. Si deduce il non corretto esercizio del prudente apprezzamento, da parte dei giudici del gravame, nella valutazione delle circostanze fattuali che hanno definito la vicenda scrutinata, risultando sorretto da un ragionamento incompleto, incoerente, illogico. La censura è priva di pregio. Premesso che il vizio di motivazione concerne esclusivamente la motivazione in fatto, occorre subito rilevare che, risultando la sentenza della Corte territoriale depositata in data 29 maggio 2014, si applica il punto n. 5) dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nella versione di testo introdotta dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, comma l, lett. b), conv. con modificazioni in L. n. 134 del 2012, la quale consente il ricorso per cassazione solo per “per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti” per le sentenze pubblicate dal 7 settembre 2012. Le Sezioni unite di questa Corte (Cass. SS.UU. n. 8054 del 2014) hanno espresso su tale norma i seguenti principi di diritto: a) la disposizione deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art.12 preleggi, come riduzione al minimo costituzionale del sindacato sulla motivazione in sede di giudizio di legittimità, per cui l’anomalia motivazionale denunciabile in sede di legittimità è solo quella che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante e attiene all’esistenza della motivazione in sè, come risulta dal testo della sentenza e prescindendo dal confronto con le risultanze processuali e si esaurisce, con esclusione di alcuna rilevanza del difetto di sufficienza, nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili”, nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”; b) il nuovo testo introduce nell’ordinamento un vizio specifico che concerne l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia); c) l’omesso esame di elementi istruttori non integra di per sè vizio di omesso esame di un fatto decisivo, se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, benché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze istruttorie; d) la parte ricorrente dovrà indicare – nel rigoroso rispetto delle previsioni di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6) e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4) – il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui ne risulti l’esistenza, il “come” e il “quando” (nel quadro processuale) tale fatto sia stato oggetto di discussione tra le parti, e la “decisività” del fatto stesso. Nello specifico la motivazione, congrua e completa per quanto innanzi detto, si sottrae, pertanto, alle censure formulate sul punto, dalla ricorrente. In definitiva, il ricorso è respinto. Il governo delle spese del presente giudizio segue il regime della soccombenza nella misura in dispositivo liquidata.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in euro 100,00 per esborsi ed euro 3.500,00 per compensi professionali, oltre accessori di legge. Ai sensi dell’art.13 comma 1 quater d.p.r. n.115. del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, dovuto per il ricorso, a norma del comma l bis dello stesso art.13. Così deciso in Roma il 15 dicembre 2015.