Fatto e diritto
1.- II ricorso è proposto avverso due provvedimenti emessi dal giudice dell’esecuzione presso il Tribunale di Bari — sezione distaccata di (Omissis): il primo, in data 31 marzo 2014, a seguito di ricorso del 21 marzo 2014, proposto dal Condominio (Omissis), terzo pignorato, avverso l’ordinanza di assegnazione del 18 febbraio 2014 emessa a favore della creditrice pignorante (Omissis) contro la sua debitrice, (Omissis); il secondo, in data 23 maggio 2014, a seguito di istanza dello stesso Condominio col quale era stato chiesto di revocare il primo provvedimento. Con il primo, il giudice dell’esecuzione ha reputato inapplicabili le disposizioni contenute negli artt. 617 e/o 615 cod. proc. civ. e, senza instaurare il contraddittorio e senza concedere il termine per l’instaurazione del giudizio di merito, ha così deciso: “rigetta l’istanza”. Con il secondo, ha rigettato l’istanza di revoca del primo provvedimento, ed ha confermato quest’ultimo.
2.- Il ricorrente formula un unico motivo di ricorso per “violazione e falsa applicazione delle norme di diritto (artt. 360 n, 3 — 618 e segg. c.p.c.) con riferimento alle disposizioni di cui agli arti. 617 e 615 cpc” lamentando che, essendo state proposte opposizioni esecutive ai sensi degli artt. 615 e 617 cod. proc, civ., il relativo giudizio avrebbe dovuto essere trattato, dopo l’instaurazione del contraddittorio, secondo le norme del rito ordinario di cognizione. L’intimata (Omissis) non si difende.
3- Preliminarmente va dato atto che, pur essendovi una situazione di difetto del contraddittorio per non essere stato il ricorso notificato alla debitrice esecutata, (Omissis), il Collegio non ritiene necessario ordinare la notificazione a quest’ultima. Si intende seguire l’orientamento, affermato in recenti pronunce di questa Corte, per il quale nel giudizio di cassazione, il rispetto del principio della ragionevole durata del processo impone, in presenza di un’evidente ragione d’inammissibilità del ricorso o di sua manifesta infondatezza, di definire con immediatezza il procedimento, senza la preventiva integrazione del contraddittorio nei confronti di litisconsorti necessari cui il ricorso non risulti notificato, trattandosi di un’attività processuale del tutto ininfluente sull’esito del giudizio (cfr. Cass. S.U. n. 6826/10, nonché Cass. n. 690/12 e n. 15106/13).
4.- Il ricorso, da qualificarsi come ricorso straordinario ai sensi dell’art. 111 Cost. e 360, ult. co., cod. proc. civ., è inammissibile. E’ corretto l’assunto del ricorrente secondo cui il giudice dell’esecuzione non avrebbe potuto definire dinanzi a sé la causa introdotta come opposizione agli atti esecutivi, senza dare corso al giudizio di merito ai sensi dell’art. 618 cod. proc. civ. —e ciò, a prescindere dall’ammissibilità e/o dalla fondatezza del rimedio prescelto dall’opponente. Tuttavia, malgrado il giudice dell’esecuzione non abbia fissato il termine per l’inizio del giudizio di merito, i provvedimenti impugnati non sono definitivi, quindi suscettibili di ricorso straordinario per Cassazione ex art. 111 Cost. Essi non hanno precluso l’accesso dell’odierno ricorrente, già opponente, alla tutela a cognizione piena, per le ragioni di cui appresso; – il giudizio di opposizione agli atti esecutivi è soggetto alla disciplina degli artt. 617- 618 e.p.e. nel testo sostituito, con decorrenza dal 1° marzo 2006, dalla legge n. 52 del 2006; la seconda di tali norme prevede che il giudice dell’esecuzione fissa un termine perentorio per l’introduzione del giudizio di merito, previa iscrizione a ruolo a cura della parte interessata, osservati i termini a comparire di cui all’art. 163-bis c.p.c., o altri se previsti, ridotti della metà; la norma va letta in combinato disposto con l’art. 617 c.p.c. e con la prima parte dello stesso art. 618 c.p.c., che prevedono che sia il giudice dell’esecuzione a provvedere sull’istanza di sospensione del processo esecutivo ovvero di adozione di provvedimenti indilazionabili; – il sistema di norme modificate dalla legge n. 52 del 2006 ha innovato rispetto al regime precedente, secondo il quale era lo stesso giudice dell’esecuzione che all’udienza disponeva la prosecuzione del giudizio (relativo all’opposizione agli atti esecutivi) con le forme della cognizione ordinaria. Le nuove norme hanno escluso l’automatismo della prosecuzione con la cognizione piena; il giudice dell’esecuzione, dopo avere provveduto sull’istanza di sospensione, si limita a fissare un termine per l’introduzione della causa di merito ed è quindi rimesso all’iniziativa della parte interessata l’effettivo inizio di tale giudizio nel termine fissato; – i provvedimenti impugnati sono stati emessi a seguito di un procedimento instaurato dinanzi al giudice dell’esecuzione, che però non si è in alcun modo conformato alle disposizioni di cui sopra, ponendo a fondamento del rigetto la circostanza che il processo esecutivo fosse oramai chiuso dinanzi a se; malgrado ciò, egli avrebbe dovuto comunque consentire la tutela a cognizione piena; – tuttavia, il provvedimento di fissazione del termine per l’inizio del giudizio di merito, concretandosi in una autorizzazione (peraltro dovuta ex lege) all’introduzione del giudizio di merito, siccome ricollegato alla precedente fase sommaria e diretto anche alla discussione sugli eventuali provvedimenti sommari adottati in quella fase, si connota come provvedimento lata sensu istruttorio, cioè sull’ordine del procedimento (così, tra le tante, Cass, ord. n. 20532/2009 e n. 15630/2010). Il vizio consistente nell’omessa concessione del termine in parola trova un rimedio nell’ordinamento, precisamente nell’art. 289 c.p.c., secondo il cui comma primo i provvedimenti istruttori che non contengono la fissazione dell’udienza successiva o del termine entro il quale le parti debbono compiere gli atti processuali, possono essere integrati su istanza di parte o d’ufficio, entro il termine perentorio di sei mesi dall’udienza in cui i provvedimenti furono pronunciati, oppure dalla loro notificazione o comunicazione se prescritte; – il ricorrente, dunque, avrebbe dovuto chiedere al giudice dell’esecuzione di integrare il provvedimento ai sensi dell’art. 289 c.p.c. ed, in caso di rifiuto, ovvero anche a prescindere dalla formulazione di un’istanza ai sensi dell’art. 289 c.p.c., avrebbe potuto iscrivere la causa di opposizione al ruolo contenzioso (cfr. Cass, ord. n. 20532/2009 cit.). Riguardo a quest’ultima soluzione, si fa integrale rinvio alla motivazione del precedente di questa Corte n. 22033/2011, che si è occupato funditus della questione. Appare qui sufficiente ribadire che, se è vero che il giudice dell’esecuzione ha definito, davanti a sé, il giudizio col primo dei provvedimenti qui impugnati, per contro, tale provvedimento, essendo stato emesso da un giudice investito di una cognizione sommaria e, pertanto, destinata a sfociare in provvedimenti ridiscutibili secondo le regole della cognizione piena e, dunque, del tutto provvisori, non può “acquisire una forza diversa a cagione della sua irritualità e, quindi, non può considerarsi “definitivo” dell’azione, nonostante che l’irritualità consista proprio nella chiusura illegittima del procedimento. Questa chiusura è essa stessa del tutto provvisoria e non definitiva” poiché riguarda solo la fase sulla quale il giudice doveva provvedere, in via del tutto provvisoria in vista della possibile evoluzione dell’azione con la cognizione piena; cognizione, nient’affatto preclusa al ricorrente, che si sarebbe potuto avvalere dei rimedi sopra richiamati. Il ricorso straordinario va perciò dichiarato inammissibile. Non vi è luogo a provvedere sulle spese del giudizio di legittimità poiché l’intimata non si è difesa. Avuto riguardo all’epoca di proposizione del ricorso per cassazione (posteriore al 30 gennaio 2013), la Corte dà atto dell’applicabilità dell’art.13, comma 1 quater, del D.P.R. 30 maggio 2002, n.115 (nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228).
La Corte dichiara inammissibile il ricorso. Nulla sulle spese. Ai sensi dell’art.13, comma 1 quater, del D.P.R. 30 maggio 2002, n.115 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dell’art. 1 bis dello stesso art. 13.
Così deciso in Roma, in data 9 marzo 2016.