Corte Suprema di Cassazione – sezione seconda civile – sentenza n. 1361 del 19 gennaio 2017
Esposizione del fatto
Con atto di citazione notificato il 26.6.2001 attori (Omissis) convenivano innanzi al tribunale di Massa convenuta (Omissis), per sentir accertare la simulazione dei contratti stipulati l’11.1.2001 ed il 18.1.2001 con i quali il padre Omissis, deceduto il 24.4.2001, aveva ceduto la piena proprietà di un fabbricato sito in Massa al prezzo di lire 40.000.000 (pari a 20.658,28 euro) ed 1/4 della proprietà superficiaria di altro immobile, sito sempre in Massa, al prezzo di lire 74.253.909 (pari a 38.348,94 euro) in quanto ambedue dissimulavano una donazione, nulla per difetto di forma.
La convenuta, costituitasi, resisteva, deducendo che i contratti non dissimulavano alcuna donazione, avendo ella corrisposto al (venditore Omissis) il corrispettivo tramite due assegni, corrispondenti al prezzo pattuito, emessi in data 11 e 18 gennaio 2001. Il Tribunale di Massa: con la sentenza n. (Omissis) del 25.2.2008 dichiarava che i contratti stipulati 1’11 e 18 gennaio da (venditore Omissis) e (acquirente Omissis) erano simulati, in quanto dissimulavano donazioni nulle per difetto di forma. Condannava pertanto la convenuta alla restituzione degli immobili, ovvero, in caso di alienazione a terzi, al pagamento del loro controvalore, oltre ad interessi dalla domanda.
La Corte d’Appello di Genova confermava integralmente la sentenza impugnata. La Corte d’Appello, in particolare, escludeva il difetto di ultra petizione della pronuncia del primo giudice che aveva condannato la convenuta al versamento alle attrici del valore degli immobili nel caso in cui gli stessi fossero stati nel frattempo venduti a terzi. La Corte, inoltre, riteneva adeguatamente provata la simulazione sulla base delle acquisizioni processuali, in quanto l’insieme degli elementi dedotti dalle attrici presentava caratteri di gravità’, univocità e concordanza, dovendo in particolare ritenersi provato che il corrispettivo della vendita non fosse mai entrato nel patrimonio del simulato alienante.
Per la cassazione di detta sentenza ha proposto ricorso per cassazione acquirente (Omissis), con tre motivi, illustrati da memoria ex art. 378 cpc. Attori (Omissis) resistono con controricorso.
Considerato in diritto
Con il primo motivo la ricorrente denunzia la violazione dell’ art.112 cpc in relazione all’art. 360 n.3) codice di rito, deducendo che la sentenza della Corte di Appello aveva omesso di rilevare la nullità della sentenza di primo grado, in quanto il Tribunale, a fronte della richiesta contenuta nella domanda originaria delle attrici di restituzione dei beni oggetto dei contratti simulati, aveva condannato la convenuta al pagamento del valore dei beni per il caso in cui essi fossero già stati alienati, con ciò attribuendo alle attrici un bene diverso da quello ritualmente richiesto.
Premessa la riconducibilità del motivo all’ipotesi di cui al n.4) invece che al n.3) dell’art. 360 codice di rito, la censura non ha pregio. La questione puo’ infatti essere decisa alla stregua del consolidato indirizzo di questa Corte , secondo cui la domanda di risarcimento del danno che si sostituisca a quella di adempimento non integra alcuna ” mutatio libelli “, atteso che la reintegrazione per equivalente rappresenta un surrogato legale della reintegrazione in forma specifica, sicché, nella domanda diretta al trasferimento del bene, può ritenersi implicita la domanda volta all’acquisizione del suo equivalente pecuniario (Cass. 15883/2005;12964/2005; 22223/14). In tema di danni, rientra pertanto nei poteri discrezionali del giudice del merito (il cui mancato esercizio non è sindacabile in sede di legittimità) attribuire al danneggiato il risarcimento per equivalente, anziché in forma specifica come domandato dall’attore (sulla base di valutazione che si risolve in giudizio di fatto, ai sensi dell’art. 2058, secondo comma, cod. civ., del pari insindacabile in cassazione), costituendo il risarcimento per equivalente, un “minus” rispetto al risarcimento in forma specifica e intendendosi, perciò, la relativa richiesta implicita nella domanda di reintegrazione, con la conseguenza che non incorre nella violazione dell’art. 112 cod. proc. civ. il giudice che pronunci d’ufficio una condanna al risarcimento per equivalente (Cass. 4925/2006; Cass.259/2013).
Con il secondo motivo si denunzia la violazione dell’art. 1414 c.c., in relazione all’art. 360 n.3) per avere la Corte d’Appello considerato come contratto simulato un contratto effettivamente voluto dalle parti.
Il motivo è inammissibile, in quanto con esso non si censura in effetti la violazione o falsa applicazione di una norma di diritto, ma la errata valutazione delle risultanze processuali, deducendo la mancata prova della simulazione, per inidoneità degli elementi posti a fondamento della pronuncia impugnata a dare la prova della simulazione.
Con il terzo motivo si denunzia la insufficiente motivazione su un punto controverso e decisivo per il giudizio ex art. 360 n.5) cpc, deducendo l’adesione acritica della sentenza impugnata alle conclusioni del Ctu fondata sui movimenti del conto corrente intestato alla ricorrente, in un periodo successivo alla conclusione dei contratti. Pure tale motivo è inammissibile in quanto si risolve in una mera rivalutazione dei fatti già oggetto del sindacato del giudice di merito. Non è, in particolare, ravvisabile la acritica adesione alle conclusioni della Ctu, denunziata dalla ricorrente, atteso che la Corte d’Appello ha ritenuto provata la simulazione sulla base di accertamenti contabili rilevanti, la cui fondatezza non risulta specificamente censurata, quali la sostanziale corrispondenza tra l’importo degli assegni emessi dalla acquirente (Omissis) per la vendita ed i successivi versamenti in contanti sul conto intestato alla medesima, nonché il fatto, anch’esso pacifico, che il conto corrente del simulato alienante, alla data del decesso, a soli tre mesi dalla stipula delle due compravendite e nonostante il rilevante corrispettivo formalmente pattuito, presentasse uno “scoperto” di lire 6.625.893. La statuizione di simulazione dei due contratti di compravendita in quanto dissimulanti una donazione, risulta invero argomentata con logicità, completezza e coerenza, con esame critico ed esaustivo di tutti gli elementi istruttori. Non sussiste dunque il dedotto vizio di carenza motivazionale, configurabile soltanto qualora dal ragionamento del giudice di merito emerga la totale obliterazione di elementi che potrebbero condurre ad una diversa decisione, ovvero quando sia evincibile l’obiettiva carenza, nel complesso della medesima sentenza, del procedimento logico che lo ha indotto, sulla base degli elementi acquisiti, al suo convincimento. Nel caso, invece, in cui vi sia mera difformità rispetto alle attese ed alle deduzioni della parte ricorrente sul valore e sul significato degli elementi delibati dal giudice di merito, il motivo di ricorso si risolve, come nel caso di specie, in un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e del convincimento di quest’ultimo, tesa all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, certamente estranea alla natura ed ai fini del giudizio di cassazione (Cass.Ss.Uu.24148/2013).
Il ricorso va dunque respinto e la ricorrente va condannata alla refusione delle spese del presente giudizio, che si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente alla refusione delle spese, che liquida in 2.700,00 euro, di cui 2.500,00 euro per compensi, oltre ad accessori di legge.