Corte Costituzionale, sentenza 29 aprile – 13 maggio 2015, n. 78
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 27 gennaio 2014 (r.o. n. 87 del 2014), il Tribunale ordinario di Milano − sezione nona civile, chiamato a pronunciarsi su una istanza di ricusazione ex art. 51, primo comma, numero 4), del codice di procedura civile – proposta nei confronti di un magistrato che, ai sensi dell’art. 1, comma 51, della legge 28 giugno 2012, n. 92 (Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita), era stato designato a decidere sulla opposizione avverso l’ordinanza (di rigetto dell’impugnativa del licenziamento di una lavoratrice) da lui stesso emessa – ha sollevato, premessane la rilevanza e la non manifesta infondatezza in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione, questione incidentale di legittimità dei predetti artt. 51, primo comma, numero 4), cod. proc. civ., e 1, comma 51, della legge n. 92 del 2012, «nella parte in cui non prevedono l’obbligo di astensione per l’organo giudicante (persona fisica) investito del giudizio di opposizione ex art. 51, comma 1 [rectius: art. 1, comma 51], l. n. 92 del 2012 che abbia pronunciato l’ordinanza ex art. 1, comma 49».
Premette il rimettente che «La morfologia strutturale dell’istituto processuale introdotto dalla l. 92/2012 corrisponde […] integralmente al codice genetico tipico dei procedimenti bifasici, in cui l’unico processo di merito è scandito da due fasi: una preliminare sommaria, e una (eventuale: se c’è opposizione) a cognizione piena». Per cui «Si versa, in buona sostanza, nell’ambito delle forme procedimentali che prevedono provvedimenti interinali a contenuto decisorio, cedevoli nel corso del successivo giudizio di merito», con riguardo alle quali «è notoriamente escluso che possa trovare applicazione l’obbligo dell’astensione, tant’è che, quando il Legislatore ha voluto esprimere una riserva, lo ha fatto in modo espresso».
Ravvisa, appunto, in ciò la ragione per cui il legislatore del 2012 «ha escluso la necessità di un giudice (persona fisica) differente per la trattazione del giudizio di opposizione», disponendo che l’opposizione, di che trattasi, sia proposta con ricorso «da depositare dinnanzi al tribunale che ha emesso il provvedimento opposto».
Osserva, però, che la fase di opposizione nell’esaminato processo, «pur non istituendo, in senso tecnico, un “grado” di giudizio», potrebbe «di fatto […] assume[re] valore impugnatorio con contenuto sostanziale di revisio prioris instantiae».
Dal che, dunque, il sospetto che «La dinamica procedimentale così confezionata» comporti «violazione dell’art. 3, primo comma, della Costituzione, per la irragionevole diversità di disciplina rispetto all’ipotesi, sostanzialmente simile, prevista dall’art. 669-terdecies, secondo comma, cod. proc. civ., che ha introdotto un caso di incompatibilità del giudice in una ipotesi abbastanza analoga, per essere adottata quale tertium comparationis». E la possibilità che contrasti, altresì, con gli artt. 24 e 111 Cost., «per la lesione del diritto alla tutela giurisdizionale, sotto il profilo di esclusione della imparzialità del giudice».
1.1.− Si è costituita, nel giudizio innanzi a questa Corte, la parte ricusante che ha sollecitato, in via principale, una decisione interpretativa di rigetto delle norme denunciate, sulla premessa di una esegesi delle stesse che vi ritenga riconducibile un obbligo di astensione per il magistrato, investito del giudizio di opposizione, ove egli abbia già pronunciato l’ordinanza opposta. In subordine, ha concluso per l’accoglimento della questione di legittimità costituzionale sollevata dal rimettente. E tali richieste e conclusioni ha ribadito con successiva memoria.
1.2.‒ È intervenuto, altresì, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha, in via principale, eccepito l’inammissibilità della questione e ne ha sollecitato, in subordine, la dichiarazione di non fondatezza.
2.− Questione di legittimità costituzionale dei medesimi artt. 51, primo comma, numero 4), cod. proc. civ., e 1, comma 51, della legge n. 92 del 2012 è stata sollevata, in riferimento ai soli artt. 24 e 111 Cost., con altre tre ordinanze emesse, in altrettanti procedimenti di ricusazione, rispettivamente dal Tribunale ordinario di Milano − sezione prima civile, con ordinanza dell’11 febbraio 2014 (r.o. n. 130 del 2014) e dallo stesso Tribunale − sezione specializzata in materia di impresa, con ordinanze del 1° aprile e del 9 maggio 2014 (r.o. n. 169 e n. 170 del 2014).
Anche in questi giudizi – in cui non v’è stata costituzione delle rispettive parti ricusanti – è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri che, per il tramite dell’Avvocatura generale dello Stato, ha reiterato le eccezioni di inammissibilità e di non fondatezza della questione.
3.− I quattro riferiti giudizi, per la sostanziale identità della questione prospettata, possono riunirsi per essere congiuntamente esaminati e decisi.
Considerato in diritto
1.– Questa Corte è chiamata a stabilire se l’art. 51, primo comma, numero 4), del codice di procedura civile, prevedente l’obbligo di astensione in capo al magistrato che abbia conosciuto della causa «in altro grado del processo» e l’art. 1, comma 51, della legge 28 giugno 2012, n. 92 (Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita), per il quale (nel contesto del nuovo rito impugnatorio dei licenziamenti), avverso l’ordinanza che decide in via semplificata sul ricorso del lavoratore, può essere proposta opposizione «da depositare dinanzi al tribunale che ha emesso il provvedimento opposto» − nella parte in cui (dette norme) non prevedono l’obbligo di astensione per l’organo giudicante (persona fisica) investito della suddetta opposizione ove abbia pronunciato l’ordinanza opposta – violino:
− l’art. 3, primo comma, della Costituzione, per l’assunta irragionevolezza della diversità di disciplina rispetto alla (sostanzialmente) simile ipotesi prevista dall’art. 669-terdecies, secondo comma, cod. proc. civ. che – con riferimento all’istituto del reclamo nel procedimento cautelare – stabilisce l’incompatibilità tra il giudice che ha emesso il provvedimento reclamato e il giudice (in composizione collegiale, del quale il primo non può far parte) designato alla trattazione e alla decisione del proposto reclamo (parametro specificatamente dedotto solo dal Tribunale ordinario di Milano con l’ordinanza depositata il 27 gennaio 2014, iscritta al r.o. n. 87 del 2014);
‒ gli artt. 24 e 111 Cost., per la ravvisata lesione del diritto alla tutela giurisdizionale sotto il profilo di esclusione dell’imparzialità del giudice (parametri dedotti con tutte e quattro le ordinanze di rimessione).
2.− Va preliminarmente disattesa l’eccezione di inammissibilità formulata, dall’Avvocatura generale dello Stato, sul presupposto che la questione in esame sia identica, per oggetto e termini della sua prospettazione, a quella già sollevata dal Tribunale ordinario di Siena e dichiarata, appunto, manifestamente inammissibile, da questa Corte, con ordinanza n. 205 del 2014.
È pur vero, infatti, che gli odierni rimettenti, come già il Tribunale di Siena, condividono l’opzione esegetica che esclude la riconducibilità, alle disposizioni denunciate, di una previsione di incompatibilità, del magistrato (persona fisica) che abbia pronunciato l’ordinanza di cui all’art. 1, comma 49, della legge n. 92 del 2012, a decidere sull’opposizione, avverso l’ordinanza medesima, di cui al successivo comma 51 dell’art. 1 della predetta legge.
Ma, mentre il Tribunale di Siena chiedeva a questa Corte un avallo di tale interpretazione (ritenuta preferibile e più costituzionalmente conforme rispetto ad altra, a suo avviso, possibile, di segno opposto) – ciò che, dunque, si risolveva in un uso distorto del giudizio di costituzionalità – i giudici a quibus propriamente chiedono, invece, ora di verificarne la compatibilità con gli evocati parametri costituzionali.
3.‒ Va, del pari, respinta l’ulteriore eccezione di inammissibilità, articolata dall’Avvocatura generale dello Stato, in ragione della omissione, addebitata ai Tribunali rimettenti, della previa verifica di praticabilità di una lettura delle disposizioni denunziate nel senso – che si assume costituzionalmente adeguato ai parametri costituzionali evocati – della enucleabilità di una previsione di necessaria terzietà del giudice che decide sull’opposizione ex art. 1, comma 51, della legge n. 92 del 2012 rispetto a quello che ha pronunciato l’ordinanza opposta.
Una siffatta esegesi alternativa − sostenuta anche dalla difesa della ricusante costituita, al diverso fine di sollecitare, sulla base della stessa, una decisione interpretativa di rigetto della questione sollevata dal rimettente – è stata, però, esattamente ritenuta non praticabile dai giudici a quibus. I quali hanno escluso di poter «piegare la disposizione [di cui all’art. 1, comma 51, della legge n. 92 del 2012] fino a spezzarne il legame con il dato letterale», che esprime «una scelta precisa del legislatore», per cui «il rito nasce ab origine come affidato al medesimo giudice».
Con la prima delle ordinanze richiamate, il Tribunale ordinario di Milano ha, poi, del pari correttamente escluso che un obbligo di astensione del giudice della opposizione possa evincersi, dalla norma denunciata, in esito ad un processo ermeneutico analogo a quello che ha condotto questa Corte, nella sentenza (interpretativa di rigetto) n. 387 del 1999, ad enucleare una incompatibilità del giudice pronunciatosi con decreto ex art. 28, primo comma, della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento) a conoscere della opposizione, al decreto stesso di cui al successivo terzo comma del medesimo art. 28.
Ed, infatti, mentre il rito di cui al citato art. 28 della legge n. 300 del 1970, attivato su ricorso degli organismi locali, ha la funzione esclusiva di reprimere la condotta antisindacale del datore di lavoro, ed ha vocazione, quindi, sanzionatoria ed ambito di cognizione correlativamente limitato – per cui la successiva opposizione ha contenuto effettivamente impugnatorio del provvedimento opposto – il procedimento disciplinato dalla legge n. 92 del 2012 ha, viceversa, ad oggetto un determinato rapporto di lavoro, in un giudizio che vede confrontarsi parti legate da un vincolo negoziale, con un ambito di cognizione ben più ampio, che può arrestarsi ad una prima fase di valutazione sommaria, ma suscettibile di evolversi nell’esame più approfondito che le parti richiedano nella successiva fase, appunto, della opposizione.
L’interpretazione, della disposizione denunciata, presupposta dai rimettenti − che trova, del resto, ulteriore conferma nel fatto che la stessa disciplina normativa prevede il rimedio impugnatorio tipico del reclamo (comparabile all’appello) avverso la sentenza del giudice di prime cure (adottata all’esito dell’opposizione) e quello del ricorso per cassazione nei riguardi della sentenza di secondo grado – si è, nel frattempo, consolidata, comunque, in termini di diritto vivente, per effetto dell’intervento ermeneutico della Corte di cassazione a sezioni unite civili (ordinanza 18 settembre 2014, n. 19674), poi ribadito dalla sesta sezione civile – sottosezione L (ordinanza 20 novembre 2014, n. 24790) e dalla sezione lavoro (sentenze 17 febbraio 2015, n. 3136 e 16 aprile 2015, n. 7782) della stessa Corte.
Il giudice della nomofilachìa ha chiarito, infatti, che il carattere peculiare del rito impugnatorio dei licenziamenti, ridisegnato dal legislatore del 2012, sta nell’articolazione in due fasi del giudizio di primo grado. Nel contesto del quale «Quindi dopo una fase iniziale concentrata e deformalizzata – mirata a riconoscere, sussistendone i presupposti, al lavoratore ricorrente una tutela rapida ed immediata e ad assegnargli un vantaggio processuale […] ove il fondamento della sua domanda risulti prima facie sussistere alla luce dei soli atti di istruzione indispensabili – il procedimento si riespande, nella fase dell’opposizione, alla dimensione ordinaria della cognizione piena con accesso per le parti a tutti gli atti di istruzione ammissibili e rilevanti» (ordinanza n. 19674 del 2014).
Dal che la conclusione che la fase di opposizione – non costituendo una revisio prioris instantiae della fase precedente ma solo «una prosecuzione del giudizio di primo grado» – non postula l’obbligo di astensione (del giudice che abbia pronunziato l’ordinanza opposta), previsto dall’art. 51, primo comma, numero 4), cod. proc. civ. con (tassativo) riferimento al magistrato che abbia conosciuto della controversia «in altro [e non dunque, nel medesimo] grado del processo».
4.‒ Nel merito, il sospetto di illegittimità costituzionale delle norme denunciate, così come correttamente interpretate, non ha fondamento.
4.1.‒ Non sussiste in primo luogo la violazione dell’art. 3 Cost., prospettata per l’asserita irragionevole disparità di trattamento della disciplina impugnata rispetto a quella del reclamo contro i provvedimenti cautelari di cui all’art. 669- terdecies cod. proc. civ.
La disciplina processuale assunta dal rimettente a tertium comparationis − lungi dall’essere, come da sua prospettazione, «abbastanza analoga» − è, in realtà, ben differente da quella in esame: per essere, come detto, quest’ultima scandita da una prima, necessaria, fase sommaria e informale e da una successiva, eventuale, fase a cognizione piena; mentre, nell’ipotesi disciplinata dal richiamato art. 669-terdecies cod. proc. civ., il reclamo avverso l’ordinanza, con la quale è stata concessa o denegata la misura cautelare dal giudice monocratico del Tribunale, integra una vera e propria impugnazione che «si propone al collegio» del quale, appunto, «non può far parte il giudice che ha emanato il provvedimento reclamato».
Una significativa analogia è ravvisabile, viceversa, tra l’ordinanza di cui al comma 49 dell’art. 1 della legge n. 92 del 2012 e l’ordinanza successiva alla chiusura dell’istruzione (anticipatoria dell’esito del giudizio di primo grado, ove non revocata con la sentenza, per altro eventuale, che definisce il giudizio), di cui all’art. 186-quater cod. proc. civ. Con riguardo alla quale questa Corte ha già rilevato come un tal meccanismo processuale «lungi dal violare il diritto di difesa per eventuale incidenza della forza della prevenzione nel giudizio del decidente, offre alle parti una garanzia di maggiore ponderazione del contenzioso in sede decisoria» (ordinanza n.168 del 2000).
4.2.‒ Priva di fondamento è anche la denuncia di violazione degli artt. 24 e 111 Cost. «per la lesione», come sinteticamente motivato dai rimettenti, «del diritto alla tutela giurisdizionale sotto il profilo di esclusione della imparzialità del giudice».
Questa Corte ha già affermato, e più volte ribadito, che, nel processo civile – al quale (diversamente da quanto sostenuto dalla difesa della ricusante) non sono applicabili le regole, in tema di incompatibilità relative al processo penale (sentenza n. 387 del 1999) − il principio di imparzialità del giudice, cui è ispirata la disciplina dell’astensione, si pone in modo diverso in riferimento, rispettivamente, alla pluralità dei gradi del giudizio ed alla semplice articolazione dell’iter processuale attraverso più fasi sequenziali, necessarie od eventuali (per tutte, ordinanza n. 220 del 2000).
Ed in ragione di tale premessa ha reiteratamente escluso che il suddetto principio – che rimanda anche agli artt. 3, 25, 101 e 104 Cost., oltre che ai parametri evocati dai rimettenti − risulti violato con riguardo a varie tipologie di procedimenti bifasici.
È stata così ritenuta costituzionalmente legittima la mancata previsione dell’obbligo di astensione ex art. 51, primo comma, numero 4), cod. proc. civ. con riguardo al giudice che abbia conosciuto della causa in fase cautelare, chiamato a partecipare alla sua decisione nel merito (ordinanza n. 359 del 1998 e sentenza n. 326 del 1997); al giudice delegato al fallimento chiamato a comporre il collegio in sede di reclamo avverso i provvedimenti da lui stesso emessi (sentenza n. 363 del 1998); al giudice che abbia trattato la fase sommaria e sia poi chiamato a decidere nel merito una causa possessoria (ordinanze n. 101 del 2004 e n. 220 del 2000); al giudice della esecuzione [che, prima della introduzione del nuovo art. 186-bis disp. att. cod. proc. civ., era] chiamato a conoscere della opposizione agli atti esecutivi ex artt. 617 e 618 cod. proc. civ. (ordinanza n. 497 del 2002); al giudice che, con la già richiamata ordinanza ex art. 186-quater cod. proc. civ., abbia deciso, nei limiti in cui ritiene già raggiunta la prova (sull’istanza della parte di pagamento di somme ovvero di consegna o rilascio di beni), a conoscere il prosieguo della causa ai fini della successiva decisione (ordinanza n. 168 del 2000).
È stato, per altro, anche precisato che sussiste, invece, l’obbligo di astensione quando il procedimento svolgentesi davanti al medesimo giudice sia solo «apparentemente “bifasico”» mentre, in realtà, esso «per la sostanziale identità di valutazioni da compiersi in entrambe le fasi […] si articola in due momenti, il secondo dei quali assume il valore di vera e propria impugnazione, e acquista, pertanto, i caratteri essenziali di “altro grado del processo”» (sentenza n. 460 del 2005).
È quest’ultima, appunto, l’ipotesi (quella, cioè, di una seconda fase risolventesi in una «revisio prioris instantiae») che i rimettenti propendono a ritenere inverata nella opposizione di cui al denunciato comma 51 dell’art. 1 della legge n. 92 del 2012.
Ma tale prospettazione, che sta alla base del sospettato vulnus agli artt. 24 e 111 Cost., non trova giustificazione ed è anzi inequivocabilmente smentita dal ruolo e dalla funzione che assolve la richiamata fase oppositoria nella struttura del giudizio di primo grado, nel complessivo contesto del nuovo rito speciale delle controversie avente ad oggetto l’impugnativa dei licenziamenti di cui all’art. 18 della legge n. 300 del 1970.
In questo caso, l’opposizione non verte, infatti, sullo stesso oggetto dell’ordinanza opposta (pronunciata su un ricorso “semplificato”, e sulla base dei soli atti di istruzione ritenuti, allo stato, indispensabili), né è tantomeno circoscritta alla cognizione di errores in procedendo o in iudicando eventualmente commessi dal giudice della prima fase, ma – come già detto – può investire anche diversi profili soggettivi (stante anche il possibile intervento di terzi), oggettivi (in ragione dell’ammissibilità di domande nuove, anche in via riconvenzionale, purché fondate sugli stessi fatti costitutivi) e procedimentali, essendo previsto che in detto giudizio possano essere dedotte circostanze di fatto ed allegati argomenti giuridici anche differenti da quelli già addotti e che si dia corso a prove ulteriori.
Il che, appunto, esclude che la fase oppositoria (nell’ambito del giudizio di primo grado) – in cui la cognizione si espande in ragione non solo del nuovo apporto probatorio, ma anche delle ulteriori considerazioni svolte dalle parti, quantomeno in sede di discussione e nelle eventuali note difensive – possa configurarsi come la riproduzione dell’identico itinerario logico decisionale già seguito per pervenire all’ordinanza opposta. La quale − in esito alla fase di opposizione − è destinata, comunque, ad essere assorbita nella statuizione definitiva che conclude il primo grado del giudizio: decisione, quest’ultima, che può ben condurre ad un esito differente (rispetto a quello dell’ordinanza opposta) in virtù del nuovo materiale probatorio apportato al processo e del suo ampliamento soggettivo od oggettivo (nei limiti consentiti), anche alla luce della pressoché totale assenza di preclusioni e decadenze per le parti nell’ambito della prima fase.
La circostanza che l’art. 1, comma 50, della legge in esame non preveda la possibilità che l’efficacia esecutiva dell’ordinanza che definisce la prima fase possa essere sospesa o revocata fino alla pronuncia della sentenza che conclude la successiva fase di opposizione costituisce, a sua volta, conferma ulteriore della ravvisabilità, nella specie, di un giudizio unico anche se contraddistinto da due fasi, in conformità, del resto, al diritto vivente ormai univocamente formatosi sulla questione.
Pertanto, il fatto che entrambe le fasi di detto unico grado del giudizio possano essere svolte dal medesimo magistrato non confligge con il principio di terzietà del giudice e si rivela, invece, funzionale all’attuazione del principio del giusto processo, per il profilo della sua ragionevole durata. E ciò a vantaggio anche, e soprattutto, del lavoratore, il quale, in virtù dell’effetto anticipatorio (potenzialmente idoneo anche ad acquisire carattere definitivo) dell’ordinanza che chiude la fase sommaria, può conseguire una immediata, o comunque più celere, tutela dei propri diritti, mentre la successiva, ed eventuale, fase a cognizione piena è volta a garantire alle parti, che non restino soddisfatte dal contenuto dell’ordinanza opposta, una pronuncia più pregnante e completa.
Per Questi Motivi
La Corte Costituzionale
riuniti i giudizi, dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 51, primo comma, numero 4), del codice di procedura civile, e 1, comma 51, della legge 28 giugno 2012, n. 92 (Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita), sollevata, dal Tribunale ordinario di Milano − sezione nona civile e dallo stesso Tribunale, sezione prima civile e sezione specializzata in materia di impresa, in riferimento agli artt. 24 e 111 della Costituzione, con le quattro ordinanze indicate in epigrafe, e, dal solo Tribunale di Milano − sezione nona civile, in riferimento anche all’art. 3 Cost.