Convivenza more uxorio ed azione generale di arricchimento

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L’azione generale di arricchimento ha come presupposto la locupletazione di un soggetto a danno dell’altro che sia avvenuta senza giusta causa, sicché non è dato invocare la mancanza o l’ingiustizia della causa qualora l’arricchimento sia conseguenza di un contratto, di un impoverimento remunerato, di un atto di liberalità o dell’adempimento di un’obbligazione naturale. È, pertanto, possibile configurare l’ingiustizia dell’arricchimento da parte di un convivente “more uxorio” nei confronti dell’altro in presenza di prestazioni a vantaggio del primo esulanti dal mero adempimento delle obbligazioni nascenti dal rapporto di convivenza – il cui contenuto va parametrato sulle condizioni sociali e patrimoniali dei componenti della famiglia di fatto – e travalicanti i limiti di proporzionalità e di adeguatezza.

Lo ha ribadito la Suprema Corte di Cassazione – sezione terza civile – con sentenza n.18632 del 22 settembre 2015

Convivenza more uxorio ed azione generale di arricchimento

Convivenza more uxorio ed azione generale di arricchimento

Il caso

Un uomo convenne in giudizio la ex convivente chiedendone la condanna al pagamento della somma di euro 170.000,00, da lui versata quale pagamento di parte del prezzo dell’immobile acquistato dalla stessa in proprietà esclusiva.

La donna propone ricorso per cassazione, affidato a tre motivi, avverso la sentenza della Corte di appello di Trento – sezione distaccata di Bolzano (del 21 gennaio 2012), di conferma della decisione emessa dal Tribunale di Bolzano, sezione distaccata di Bressanone, che aveva accolto la domanda attorea.

La decisione della Corte territoriale

La Corte di merito ha confermato la statuizione del primo giudice, ritenendo provato l’assunto attoreo del pagamento di parte del prezzo realmente convenuto tra le parti stipulanti – donna e il venditore – previa ritenuta ammissibilità della prova per testi ai sensi dell’art. 2722 c.c., in riferimento a fatti e non a patti e da parte di terzo estraneo al contratto.

Quindi, esclusa la configurabilità di un contratto a favore di terzo, ha ritenuto applicabile l’art. 2041 c.c. in riferimento a prestazione all’interno di un rapporto more uxorio, travalicante i limiti di proporzionalità e adeguatezza in considerazione delle condizioni sociali e patrimoniale dei componenti della famiglia di fatto, con conseguente esclusione della possibilità di riconduzione nell’alveo delle obbligazioni naturali scaturenti dal rapporto di convivenza.

I motivi del ricorso per cassazione.

Con il primo motivo di ricorso, unitamente a vizi motivazionali, la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 2721 e 2722 c.c. per essere il proprio ex convivente parte del contratto, anche riconducendo la fattispecie nell’ambito di una simulazione relativa parziale.

Perché la Suprema Corte rigetta il motivo

Per i giudici di legittimità, la Corte di merito ha ritenuto accertato l’esistenza di un contratto intervenuto solo tra la donna e il venditore, nonché il versamento da parte dell’uomo al venditore dell’importo corrispondente alla differenza tra quello risultante dal contratto scritto e quello realmente convenuto, sul presupposto della convivenza more uxorio della acquirente.

Le limitazioni della prova testimoniali ex art. 2722 codice civile

La Corte di merito ha ritenuto accertato, quindi, la qualità di terzo del convivente rispetto al contratto ed ha fatto corretta applicazione del principio affermato dalle Sezioni Unite, secondo cui «La pattuizione con cui le parti di una compravendita immobiliare abbiano convenuto un prezzo diverso da quello indicato nell’atto scritto, soggiace, tra le stesse parti, alle limitazioni della prova testimoniale stabilite dall’art. 2722 cod. civ., avendo la prova ad oggetto un elemento essenziale del contratto che deve risultare per iscritto.»(n. 7246 del 2007).

Il secondo motivo del ricorso per cassazione.

Con il secondo motivo, si deduce illogicità e contraddittorietà di motivazione dei fatti di causa per non aver configurato una simulazione relativa parziale, tesi sviluppata anche nel primo motivo in riferimento al divieto della prova testimoniale, e si richiede la rimessione della causa al primo giudice ex art. 354 c.p.c., per la necessità di integrare il contraddittorio nei confronti del venditore.

Il motivo viene dichiarato inammissibile

Per gli Ermellini, il motivo è inammissibile per la preliminare ragione che esso è del tutto nuovo e dedotto per la prima volta in cassazione. Di tale prospettazione non vi è infatti traccia nella sentenza impugnata, né la ricorrente deduce, dimostrandolo, che essa ha avuto ingresso nel giudizio di merito.

Il terzo motivo del ricorso per cassazione.

Con il terzo motivo, unitamente a vizi motivazionali, si deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 2041, 2034 e 1411 c.c.. Il motivo viene sviluppato sotto tre profili.

La tesi del contratto a favore di terzo.

Il primo profilo è incentrato in riferimento al contratto a favore di terzo (art. 1411 c.c.). La Corte di merito ha escluso la sussistenza del contratto a favore di terzo, che secondo l’allora appellante sarebbe stato stipulato dall’uomo con il venditore, avrebbe avuto ad oggetto il pagamento di parte del prezzo per l’acquisto dell’immobile già oggetto di separato contratto tra venditore e la donna, sarebbe stato giustificato dall’interesse dell’uomo consistente nella intenzione di unirsi in matrimonio. In particolare, il giudice di merito ha ritenuto mancante ogni prova in ordine all’accordo tra l’uomo e il venditore in favore della donna, quale estranea al contratto.

La Corte di legittimità boccia la tesi del contratto a favore di terzo

Per i giudici di piazza Cavour, la tesi dell’allora appellante, secondo cui il venditore avrebbe stipulato, per lo stesso immobile, un contratto con la donna per un importo (euro 122.500,00) e, all’insaputa della stessa, un contratto con il suo convivente per il prezzo integrativo, appare azzardata, oltre che priva di ogni riscontro.

I giudici di legittimità ricordano che il giudice di merito aveva ritenuto provato: che il prezzo convenuto per l’immobile fosse maggiore di quello risultante dal preliminare e dal definitivo (quest’ultimo coincidente con quello pagato dalla donna); che la differenza fosse stata pagata dall’uomo; che la donna fosse a conoscenza del pagamento della differenza da parte del proprio convivente (pag. 9-12 sentenza), come risultante anche da un documento (richiamato con il n. 8) sottoscritto dalla donna, contenente l’offerta al venditore, per il maggior importo con un contratto informale, per un minor importo con il contratto preliminare e l’atto notarile.

Le deduzioni della ricorrente.

Senonchè, a fronte di tali argomentazioni, la ricorrente si limita a dedurre, confusamente, contraddizioni in cui sarebbe incorsa la Corte di appello tra conoscenza o meno da parte della donna del pagamento fatto dall’uomo, poi aggiunge (in part. pag. 11 del ricorso), che il convincimento della Corte della carenza di prova di un accordo tra il proprio convivente e il venditore è errato, contraddittorio, irrilevante. E si limita a sostenere che la circostanza che il proprio convivente abbia pagato all’insaputa della convivente attribuisce al pagamento la forza di un accordo tra le parti favorevole alla donna. Per tali motivi il profilo di censura viene ritenuto inammissibile.

Il secondo profilo di censura viene formulato in riferimento alla violazione degli art. 2041 e 2034 c.c., ma anch’esso viene rigettato in quanto per gli Ermellini, nell’escludere l’esistenza di una obbligazione naturale fondata sulla convivenza more uxorio e ritenere l’applicabilità dell’art. 2041 c.c., la Corte di merito ha fatto corretta applicazione della giurisprudenza di legittimità.

Il principio di diritto affermato.

La Suprema Corte ribadisce il principio in forza del quale, «L’azione generale di arricchimento ha come presupposto la locupletazione di un soggetto a danno dell’altro che sia avvenuta senza giusta causa, sicché non è dato invocare la mancanza o l’ingiustizia della causa qualora l’arricchimento sia conseguenza di un contratto, di un impoverimento remunerato, di un atto di liberalità o dell’adempimento di un’obbligazione naturale. È, pertanto, possibile configurare l’ingiustizia dell’arricchimento da parte di un convivente “more uxorio” nei confronti dell’altro in presenza di prestazioni a vantaggio del primo esulanti dal mero adempimento delle obbligazioni nascenti dal rapporto di convivenza – il cui contenuto va parametrato sulle condizioni sociali e patrimoniali dei componenti della famiglia di fatto – e travalicanti i limiti di proporzionalità e di adeguatezza. » (Cass. n. 11330 del 2009).

Nella specie, proseguono i giudici di piazza Cavour, la Corte di appello ha ritenuto che il pagamento di euro 170 mila da parte dell’uomo non potesse ritenersi rientrante nell’ambito della obbligazione naturale nascente dal rapporto di convivenza. E tanto, dopo aver preso in considerazione le condizioni sociali delle parti e aver, con apprezzamento di fatto, valutato la prestazione patrimoniale non proporzionata all’entità del patrimonio, in considerazione della pensione (di euro 2.300 circa) dell’uomo e della circostanza che, per poter effettuare il pagamento in questione, l’uomo aveva venduto titoli e azioni.

La censura del mancato riconoscimento dell’obbligazione naturale irripetibile fondata sul rapporto di convivenza.

La ricorrente, per contro, censura il mancato riconoscimento dell’obbligazione naturale irripetibile fondata sul rapporto di convivenza.

Ma – secondo gli Ermellini – nel sostenere l’adempimento di una obbligazione naturale in ragione delle disponibilità economiche del convivente, non supporta i pretesi maggiori redditi dell’uomo e gli svantaggi assunti come subiti da lei stessa (abbandono della originaria città di residenza e del lavoro e vendita della casa nella città di provenienza) per via della scelta di convivenza con trasferimento in altra città, con precisi richiami di documentazione e risultanze istruttorie. Si limita a richiamare apoditticamente il diverso importo della pensione del proprio ex convivente, le attività lavorative svolte dallo stesso, nonché il possesso di altri immobili, ed infine, sempre genericamente, gli elementi emersi nei due gradi di giudizio. La censura viene dunque dichiarata inammissibile.

La tesi dell’arricchimento minore.

Nella parte finale del motivo, la ricorrente introduce, in subordine, anche il profilo dell’esistenza di un arricchimento minore. Invoca l’art. 2041 c.c. nella parte in cui prevede che l’indennizzo è dovuto nei limiti dell’arricchimento.

Per i giudici della Suprema Corte, in effetti, la Corte di merito non ha esaminato tale profilo per individuare l’entità dell’indebito arricchimento ed ha fatto coincidere quanto indebitamente percepito dalla donna con quanto versato dall’uomo per l’acquisto dell’appartamento in argomento. Ciononostante, la censura viene dichiarata inammissibile atteso che la ricorrente non dimostra, mediante idoneo rinvio e riproduzione degli atti processuali, di aver impugnato la sentenza di primo grado, confermata dal giudice di secondo grado, anche sotto tale profilo, e di aver svolto tali deduzioni anche nel giudizio di primo grado. La censura, pertanto, viene sviluppata in totale violazione dell’art. 366 n. 6 c.p.c. Da qui il rigetto del ricorso.

Una breve riflessione.

La sentenza in rassegna offre validi spunti di riflessione in quanto interviene in un campo, quale quello della convivenza more uxorio, in cui situazioni come quelle oggetto della sentenza si manifestano non infrequentemente.

Pomo della discordia è rappresentato dalla dazione di una (cospicua) somma di danaro da parte di un uomo che è servita a coprire parte del prezzo per l’acquisto di un immobile da parte della convivente.

Al di là dell’intreccio delle questioni giuridiche prospettate dalla donna per contrastare le richieste dell’uomo, vittorioso in tutti i gradi di giudizio, di riavere i propri soldi, ciò che balza evidente è il principio di diritto al quale i giudici di legittimità si rifanno per la soluzione del caso concreto.

Sostengono i giudici di legittimità che l’azione generale di arricchimento ha come presupposto la locupletazione di un soggetto a danno dell’altro.

Tale locupletazione deve però essere priva di causa, motivo per cui non è esperibile tale tipo di azione allorquando l’arricchimento sia conseguenza di un contratto, di un impoverimento remunerato, di un atto di liberalità o dell’adempimento di un’obbligazione naturale.

Nel caso di convivenza more uxorio, non vi è dubbio che la corresponsione di somme di danaro da parte di un convivente a vantaggio dell’altro, di norma, costituisce mero adempimento di obbligazioni nascenti dal rapporto di convivenza.

Nella specie, però, la somma di €. 170.000,00 corrisposta dall’uomo in costanza di convivenza non viene ritenuta rientrante nel novero di detti adempimenti, e ciò non solo avuto riguardo alle condizioni sociali e patrimoniali dei componenti della famiglia di fatto, ma anche avuto riguardo al ritenuto superamento dei limiti di proporzionalità e di adeguatezza. Ove detti limiti, come nel caso di specie, vengono travalicati e comunque non appaiono proporzionali, la dazione della somma determina un ingiustificato arricchimento, ripetibile da parte del soggetto che lo ha erogato.

Dunque, non basta considerare l’importo della somma, ma occorre avere soprattutto riguardo ad ulteriori parametri rivelatori dei precitati parametri di proporzionalità ed adeguatezza.

In conclusione, ci troviamo di fronte ad un principio che tutela i componenti della famiglia di fatto che hanno, durante la convivenza, corrisposto somme di denaro in favore di altri componenti della famiglia, poi disgregatasi.

avv. Filippo Pagano (f.pagano@clouvell.com)

managing partner at clouvell (www.clouvell.com)

 

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