I decreti con cui il tribunale fallimentare concede o rifiuta gli acconti sul compenso richiesti dal commissario giudiziale sono espressione di un potere discrezionale il cui esercizio, intervenendo in una fase processuale anteriore alla presentazione ed approvazione del rendiconto, non comporta definitivi accertamenti in fatto e in diritto in ordine alla spettanza o alla misura del compenso e non può pregiudicare la futura decisione sul compenso dovuto, sicché non sono ricorribili per cassazione ai sensi dell’art. 111 Cost., né sono qualificabili come “sentenze” in senso sostanziale ai fini della revocazione prevista dall’art. 397 cod.proc.civ.
Il Procuratore della Repubblica non ha il potere di azione, né di impugnazione, con riferimento ai provvedimenti di liquidazione del compenso al commissario giudiziale in quanto la titolarità dell’azione del P.M. in sede civile è eccezionale.
Lo ha ribadito la Suprema Corte di Cassazione – sezione prima civile – con sentenza n. 17768 del giorno 8 settembre 2016
Concordato preventivo, compensi acconto, commissario giudiziale. Il caso
Il Procuratore della Repubblica impugnava il decreto del Tribunale con cui venne liquidato – nella misura di 400.000 euro – un acconto sul compenso per le attività di commissario giudiziale di un concordato preventivo al professionista. Rilevò il tribunale, dato atto dell’ammontare dell’attivo pari ad euro 37.072.733 e del passivo ad euro 66.880.779, revenienti dalla stessa relazione del commissario e dall’inventario ai sensi dell’art.172 1.f., che si trattava del primo acconto e che la conclusione della procedura doveva collocarsi nel 2018, dato che l’ultimo pagamento concordatario era stato fissato al 31.12.2017. La citata misura della liquidazione – a parere del Procuratore della Repubblica – trattandosi di procedura aperta il 28.6.2013 nella forma del concordato con continuità e con omologazione del 17.4.2014, si fondava sull’art.38 L.F. in relazione al D.M. 25.1.2012, n.30, aggiungeva il contributo del 4% alla C.N.D.C. (per 16.000 euro), l’IVA al 22% (per 91.520 euro), disponendo infine il rimborso di euro 1.690,48 per “spese anticipate dall’accettazione dell’incarico e sino al 21.7.2014”. Infine, il decreto autorizzava il commissario al prelievo diretto dalle disponibilità bancarie della procedura per 100.000 curo e a richiedere la differenza direttamente alla società debitrice.
I motivi del ricorso per cassazione.
Con il primo motivo il ricorrente deduce la violazione di legge, quanto all’art. 111 Cost., per difetto assoluto di motivazione sul punto della liquidazione “di una somma tanto elevata, tra l’altro trattandosi di acconto”. Con il secondo motivo il ricorrente deduce la violazione dell’art.92 ord.giud., posto che l’attività liquidatoria adottata dal tribunale esulava dagli affari da trattarsi in periodo feriale, né risultava la prescritta dichiarazione di urgenza del capo dell’ufficio.
La Corte di Cassazione dichiara inammissibile il ricorso.
Secondo gli Ermellini, “i decreti con cui il tribunale fallimentare concede o rifiuta gli acconti sul compenso richiesti dal commissario giudiziale, sono espressione di un potere discrezionale il cui esercizio, intervenendo in una fase processuale anteriore alla presentazione ed approvazione del rendiconto, non comporta definitivi accertamenti in fatto e in diritto in ordine alla spettanza o alla misura del compenso e non può pregiudicare la futura decisione sul compenso dovuto, sicché non sono ricorribili per cassazione ai sensi dell’art. 111 Cost., né sono qualificabili come “sentenze” in senso sostanziale ai fini della revocazione prevista dall’art. 397 cod.proc.civ.” (Cass. 19711/2015, 19580/2015).
In tema di concordato preventivo – aggiungono i giudici di legittimità – la liquidazione del compenso spettante al commissario giudiziale è infatti disciplinata dall’art. 165, co.2 l.f., mediante il richiamo all’art. 39 (riguardante il compenso dovuto al curatore del fallimento), il quale, al secondo comma, subordina la liquidazione all’approvazione del rendiconto, così rinviandola all’esito della procedura ma riconoscendo al tribunale fallimentare la facoltà di accordare acconti per giustificati motivi.
Il PM non è titolare del potere di impugnazione.
I Giudici di piazza Cavour precisano inoltre, quanto alla proposizione dal P.M., che tale organo sia privo della titolarità del relativo potere, giusta quanto desumibile dagli artt. 69 cod.proc.civ. e 2907 cod.civ. (Cass. 19580/2015), in quanto la titolarità dell’azione del P.M. in sede civile è eccezionale, derogando al principio della domanda di parte (cd. principio dispositivo), mentre la regola della tipicità, contenuta appunto nei descritti artt. 69 cod.proc.civ. e 2907 cod.civ., porta ad escludere interpretazioni estensive o analogiche, avendo tali enunciati carattere imperativo.
Ne consegue – concludono i giudici di legittimità – che, fuori dalle ipotesi tassativamente previste, il P.M. non ha potere di azione e tanto meno d’impugnazione (Cass.17764/2012).
Una breve riflessione.
La sentenza in rassegna è interessante non tanto per il principio di cui alla prima massima, che viene ribadito, quanto soprattutto per il principio di cui alla seconda massima.
In buona sostanza, la Corte di Cassazione, dopo aver ribadito il proprio precedente orientamento a proposito della natura discrezionale della concessione di un acconto al commissario giudiziale e della inidoneità di tale provvedimento (non rivestendo la natura di sentenza) a poter pregiudicare la futura decisione sul compenso dovuto, spende qualche parola sulla legittimazione o, se si preferisce, sulla titolarità del potere di impugnazione in capo al PM.
E sotto tale ultimo profilo non possono, i giudici di legittimità, non ricordare la regola della tassatività del potere di impugnazione in capo al Pubblico Ministero, per come disciplinato dagli articoli 69 c.p.c. e 2907 c.c., regola che non può soffrire interpretazioni estensive.
avv. Filippo Pagano (f.pagano@clouvell.com)
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