Nulla quaestio in ordine al danno patrimoniale il quale è facilmente determinabile attraverso calcoli matematici ovvero attraverso la quantificazione delle classiche componenti del danno emergente e del lucro cessante.
Dibattiti in dottrina e giurisprudenza ha fatto nascere invece la quantificazione del danno non patrimoniale. Vediamo perché.
Nonostante la categoria dei danni patrimoniali sia una categoria cd. onnicomprensiva, non può revocarsi in dubbio che i danni cd. esistenziali rappresentino una entità diversa dai danni cd. morali (v. sul punto: Domenico Chindemi – danno esistenziale e danno morale: differenze e rispettivi ambiti di applicazione, tratto dal sito: www.lapraticaforense.it secondo cui “il danno morale ricomprende il dolore e le sofferenze cioè il cd “pretium doloris”; il danno biologico è costituito dalla lesione dell’integrità psico-fisica, suscettibile di accertamento medico-legale, risarcibile indipendentemente dalla capacità di produzione di reddito del danneggiato; il danno esistenziale va individuato, in base alla stessa definizione del Prof. Cendon, nella lesione della personalità del soggetto, nel suo modo di essere sia personale che sociale, che si sostanzia nella alterazione apprezzabile della qualità della vita consistente in un “agire altrimenti” o in un “non poter più fare come prima”. In particolare il danno morale attiene alla sfera esclusivamente personale del danneggiato ed alla sua sensibilità emotiva, mentre il danno esistenziale fa anche riferimento all’ambiente esterno ed al modo di rapportarsi con esso del soggetto leso, nell’estrinsecazione della propria personalità che viene impoverita o lesa”.
Pertanto, pur volendo aderire alla ricostruzione della unitarietà della categoria dei danni non patrimoniali, una cosa è richiedere il risarcimento dei danni esistenziali, altra cosa è richiedere il risarcimento dei danni morali. Si tratta di due “species” dell’unico “genus” danni non patrimoniali, voci di danno che non sono interscambiabili.
Ciò lo si vuole evidenziare perché spesso il danneggiato del reato di usura avanza una domanda di risarcimento danni generica, senza specificare quale tipologia di danni va a richiedere.
Secondo autorevole dottrina (Giuseppe Cassano – La responsabilità civile – pag.766 e ss.) “se prima dell’avvento delle Sezioni Unite dell’11 Novembre 2008, era pacifica l’affermazione giurisprudenziale secondo cui il soggetto passivo dei reati di usura e di estorsione subisce un’alterazione del modo di essere, che configura una alterazione peggiorativa della qualità della vita, obiettivamente apprezzabile, e deve essere definito in termini di danno esistenziale, distinto sia dal c.d. pretium doloris, sia dal c.d. danno biologico, la permanente validità di tali conclusioni va, attualmente, vagliata attraverso il “filtro” imposto dalle Sezioni Unite, attente nell’ancorare la risarcibilità del danno non patrimoniale alla configurazione della lesione di un interesse costituzionalmente rilevante”.
Inoltre, “l’accoglimento della pretesa risarcitoria presuppone un adeguato assolvimento dell’onere probatorio da parte del danneggiato…”( Di Antonio I. Natali, Antonio I. Natali, Luca C. Natali, Giuseppe Cassano – Danno non patrimoniale da inadempimenti di contratti e obbligazioni – pag. 482 e ss.).
Difatti, la liquidazione equitativa alla quale può fare ricorso il giudice non esime il danneggiato dall’onere di dover fornire la prova sulla esistenza del danno.
Il Giudice può ben fare ricorso a presunzioni, ma occorre esplicitare tale presunzioni, in punto di fatto.
Pertanto, in mancanza di un sia pur minimo assolvimento dell’onere probatorio, il giudice non può “supplire” alla inerzia del soggetto che chiede la liquidazione del danno procedendo ad una valutazione equitativa del danno.
Come va liquidato il danno morale ed esistenziale.
Con sentenza del 9.11.2012, il Tribunale di Brindisi, trattando del risarcimento del danno morale in episodio di usura di entità rilevante ha liquidato alla “vittima” la somma di €. 5.000,00.
L’EQUITA’ CALIBRATA
A tal fine il Giudice ha fatto ricorso alla cd. equità calibrata. Si legge in motivazione che “a tale esito liquidatorio si perviene anche facendo applicazione del criterio dell’equità calibrata in luogo del c.d. criterio equitativo “puro”, che rinviene la propria legittimazione nell’art. 1226 c.c.; norma applicabile anche in materia di illecito aquiliano per effetto dell’espresso richiamo operato al suddetto dall’art. 2056 c.c. al fine delinea lo statuto della responsabilità da illecito extracontrattuale. Infatti, il criterio equitativo puro, in assenza di criteri uniformi che concorrano alla determinazione della base risarcitoria, si presta, ten-denzialmente, a soluzioni risarcitorie che sono condizionate essenzialmente dalla sensibilità del Magistrato. Da ciò, la necessità di indispensabili correttivi. In particolare, una dottrina autorevole propone lo strumento dell’equità calibrata. Poiché il criterio equitativo si offre a soluzioni risarcitorie così disparate, il Giudice, a fronte della singola fattispecie concreta, deve avere contezza dei precedenti giurisprudenziali, riferiti alle singole patologie di danno non patrimoniale portate all’esame dei magistrati; e, sulla base di questi precedenti giurisprudenziali, secondo una sorta di ideale scala di valori, dovrebbe “procedere a una modulazione proporzionale, ma sempre in senso equitativo del danno”. Per cui, se, a fronte della lesione del diritto a intrattenere relazioni sessuali, si risarciscono X mila euro, a fronte della lesione del diritto a intrattenere il rapporto parentale col congiunto defunto – quale ipotesi significativamente più grave di lesione di diritti della personalità – si dovrebbe liquidare un’entità economica apprezzabilmente superiore. Quindi, l’interprete, in sostanza, secondo la tesi dell’equità calibrata, deve avere presenti quelli che sono i precedenti giurisprudenziali relative alla singole ipotesi di danno non patrimoniale risarcibile, e poi, in considerazione di questi precedenti, modulare concretamente il risarcimento in relazione alla fattispecie portata alla sua attenzione. Orbene, proprio avuto riguardo alle misure risarcitorie riconosciute a fronte di pregiudizi non patrimoniali di rango inferiore (si pensi al danno morale derivante da lesioni di lieve entità o a quello riconducibile ad un’ipotesi di diffamazione, a mezzo stampa), nonché a fronte di eventi lesivi del tipo di quello dedotto in giudizio, si ritiene equa la riparazione economica accordata nel caso di specie”.
Ci troviamo di fronte a principi “giusti”, in linea con l’orientamento consolidato della Suprema Corte di Cassazione secondo cui “l’adozione della regola equitativa di cui all’art. 1226 c.c., deve garantire non solo una adeguata valutazione delle circostanze del caso concreto, ma anche l’uniformità di giudizio a fronte di casi analoghi, essendo intollerabile e non rispondente ad equità che danni identici possano essere liquidati in misura diversa sol perchè esaminati da differenti Uffici giudiziali” (cfr. Cassazione civile sez. III – 20 febbraio 2015 n. 3374).
Più di recente, su tale scia, si è pronunciata Cassazione civile sez. III – 11/07/2014 n. 15883 secondo cui “Il giudice, nell’esercizio dei propri poteri discrezionali nella valutazione equitativa del danno, deve rispettare i principi di adeguatezza e proporzione nonché quello di parità di trattamento e, affinché la liquidazione non risulti arbitraria, deve fornire in sentenza l’indicazione delle ragioni del processo logico sul quale essa è fondata”.
L’equità va dunque intesa nel significato di “adeguatezza” e di “proporzione”, assolvendo alla fondamentale funzione di “garantire l’intima coerenza dell’ordinamento, assicurando che casi uguali non siano trattati in modo diseguale”, con eliminazione delle “disparità di trattamento” e delle “ingiustizie” (così Cass., 7/6/2011, n. 12408: “equità non vuoi dire arbitrio, perchè quest’ultimo, non scaturendo da un processo logico-deduttivo, non potrebbe mai essere sorretto da adeguata motivazione. Alla nozione di equità è consustanziale l’idea di adeguatezza e di proporzione. Ma anche di parità di trattamento”).
Secondo la Suprema Corte, pertanto, “i criteri da adottarsi al riguardo debbono consentire pertanto una valutazione che sia equa, e cioè adeguata e proporzionata (v. Cass., 7/6/2011, n. 12408), in considerazione di tutte le circostanze concrete del caso specifico, al fine di ristorare il pregiudizio effettivamente subito dal danneggiato, in ossequio al principio per il quale il danneggiante e il debitore sono tenuti al ristoro solamente dei danni arrecati con il fatto illecito o l’inadempimento ad essi causalmente ascrivibile (v., da ultimo, Cass., 23/1/2014, n. 1361)”.
avv. Filippo Pagano (f.pagano@clouvell.com)
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