CONSIDERATO IN DIRITTO
1. – Le Sezioni Unite sono chiamate a rispondere al quesito “se sia abnorme, e quindi ricorribile per Cassazione, il provvedimento con cui il giudice dell’udienza preliminare dichiari la nullità della richiesta di rinvio a giudizio per la genericità o l’indeterminatezza dell’imputazione e disponga la restituzione degli atti al Pubblico Ministero”, quesito in ordine al quale sono note le divergenze ermeneutiche sia in dottrina che negli indirizzi giurisprudenziali.
2. – Va, innanzitutto, rilevato che il ricorso ha per oggetto un provvedimento del giudice dell’udienza preliminare, in relazione al quale non è previsto dalla legge processuale alcun mezzo di gravame, sicchè l’impugnazione dell’ordinanza in esame in tanto può essere dichiarata ammissibile in quanto la si ritenga affetta da abnormità, perchè il proposto ricorso per Cassazione costituirebbe l’unico rimedio per espungerla immediatamente dall’ordinamento.
La lunga elaborazione giurisprudenziale delle Sezioni Unite (Cass., Sez. Un., 26/4/1989, Goria; Sez. Un., 9/7/1997, P.M. in proc. Quarantelli; Sez. Un., 10/12/1997, Di Battista; Sez. Un., 24/11/1999, Magnani; Sez. Un., 22/11/2000, P.M. in proc. Boniotti; Sez. Un., 22/11/2000, P.M. in proc. Istituto Buonarroti; Sez. Un., 31/1/2001, P.M. in proc. Romano; Sez. Un., 31/5/2005 n. 22909, P.M. in proc. Minervini) ha chiarito quali sono le caratteristiche della categoria della “abnormità”, precisando: – che è affetto da tale vizio il provvedimento che, per la singolarità e stranezza del suo contenuto, risulti avulso dall’intero ordinamento processuale, ovvero quello che, pur essendo in astratto manifestazione di legittimo potere, si esplichi al di fuori dei casi consentiti e delle ipotesi previste al di là di ogni ragionevole limite; – che l’abnormità dell’atto può riguardare sia il profilo strutturale, allorchè l’atto si ponga al di fuori del sistema organico della legge processuale, sia il profilo funzionale, quando esso, pur non estraneo al sistema normativo, determini la stasi del processo e l’impossibilità di proseguirlo, potendosene ravvisare un sintomo nel fenomeno della c.d. regressione anomala del procedimento ad una fase anteriore.
L’assenza di criteri uniformi d’identificazione dei caratteri distintivi del provvedimento abnorme ha contribuito ad una progressiva estensione di tale categoria, rispetto alle tradizionali invalidità dell’atto, nell’intento dichiarato da parte della giurisprudenza di legittimità di rimuovere, con il rimedio del ricorso immediato per Cassazione, situazioni processuali extra ordinem, altrimenti non eliminabili (per la preclusione derivante dalla tassatività dei mezzi di impugnazione e delle nullità), che conseguono ad atti del giudice geneticamente o funzionalmente anomali, non inquadrabili nei tipici schemi normativi ovvero incompatibili con le linee fondanti del sistema.
3. – Ciò posto, osserva il Collegio che riguardo alla specifica questione controversa si contrappongono due, principali, linee interpretative.
Secondo un primo, risalente e prevalente orientamento (v., ex plurimis, Cass., Sez. 5, 12/12/1991, Cavuoto, rv. 189547; Sez. 6, 5/5/1992, Nichele, rv. 191347; Sez. 2, 9/1/1996, Lanzo, rv. 204029;
Sez. 2, 6/2/1996, Pellegrino, rv. 204751; Sez. 1, 18/12/1996, Di Stefano, rv. 206666; Sez. 1, 17/12/1998, Adamo, rv. 212454; Sez. 1, 7/11/2001 n. 45698, Molè, rv. 220470; Sez. 1, 4/4/2003 n. 28987, Esposito, rv. 227383; Sez. 6, 7/10/2004 n. 42011, Romanelli, rv.
230384; Sez. 6, 10/11/2004 n. 48697, Casamonica, rv. 230842; Sez. 6, 29/9/2004 n. 42534, D’Avanzo, rv. 231185; Sez. 6, 25/11/2004 n. 2567, Scipioni, rv. 230883), la tesi dell’abnormità sarebbe fondata sul duplice argomento che per la mancata, generica o insufficiente enunciazione del fatto, che pure costituisce uno dei requisiti formali della richiesta di rinvio a giudizio ai sensi dell’art. 417 c.p.p., lett. b), non è prevista alcuna nullità e che, ai sensi del successivo art. 423 c.p.p., è consentito al P.M. di procedere alle necessarie modifiche ed integrazioni dell’imputazione indeterminata nel corso dell’udienza preliminare, imponendosi l’eventuale proscioglimento dell’imputato ove ciò non avvenga: con la conseguenza che l’ordinanza del G.u.p. dichiarativa della nullità della richiesta di rinvio a giudizio e/o restitutoria degli atti al P.M. determinerebbe un’indebita e patologica regressione del procedimento, in violazione del principio d’irretrattabilità dell’azione penale.
L’opposto orientamento (v., fra le tante, Sez. 1, 5/5/2000, P.M. in proc. Ferrentino, rv. 216422; Sez. 5, 11/7/2001 n. 36009, Di Lorenzo, rv. 220208; Sez. 1, 24/10/2003 n. 1334, Guida, rv. 229513; Sez. 6, 8/1/2004, P.M. in proc. D’Alessandro, rv. 228032; Sez. 5, 20/5/2004 n. 27990, Fraglia, rv. 228684; Sez. 4, 3/6/2004 n. 39472, Scolari, rv. 229572; Sez. 4, 14/10/2005 n. 46271, Statello, rv. 232825) nega, invece, l’abnormità di siffatto provvedimento, ritenendo che rientri nei poteri del G.u.p., a garanzia del contraddittorio e del diritto di difesa dell’imputato, verificare l’adempimento da parte del P.M. dell’obbligo di procedere, nell’atto di esercizio dell’azione penale, all’enunciazione in forma chiara e precisa del fatto, sicchè l’esercizio di detto potere, sebbene talora non corretto per le forme adottate, non può comunque ritenersi extra ordinem.
4. – I due orientamenti che definiscono i termini del conflitto non esauriscono, in realtà, l’orizzonte ermeneutico della giurisprudenza di legittimità in merito alle modalità di emendatio delle lacune dell’enunciazione del fatto nell’atto imputativo, in quanto le soluzioni adottate si sono progressivamente diversificate alla luce dei plurimi interventi della Corte costituzionale, in tema di “rimedi” funzionali a garantire l’effettività del principio di necessaria aderenza del fatto storico all’imputazione formulata. E di ciò occorre dare conto perchè, nel caso in esame, il provvedimento adottato dal G.u.p. non contiene alcuna declaratoria di nullità della richiesta di rinvio a giudizio, pur disponendo ugualmente la restituzione degli atti al P.M. e la regressione del procedimento attraverso il richiamo del disposto dell’art. 521 c.p.p., comma 2.
Il Giudice delle leggi, infatti, prima con sentenza n. 88 del 1994, ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 424 c.p.p., “nella parte in cui non prevede che il giudice possa, all’esito dell’udienza preliminare, trasmettere gli atti al Pubblico Ministero per descrivere il fatto diversamente da come ipotizzato nella richiesta di rinvio a giudizio”, ritenendo parimenti compatibili, a tal fine, tanto il “meccanismo di adeguamento delle imputazioni”, contemplato dall’art. 423 c.p.p., per la diversità del fatto e ritenuto idoneo (secondo la lettura estensiva offerta dalla Corte costituzionale anche in altre occasioni: sentt. n. 265 del 1994 e n. 384 del 2006) a “sanare” l’erroneità o l’incompletezza originaria dell’imputazione, quanto il ricorso all’applicazione analogica dell’art. 521 c.p.p., comma 2. E poi, con ordinanza n. 131 del 1995, ha dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 417 c.p.p., nella parte in cui non prevede alcuna sanzione per la richiesta di rinvio a giudizio difforme dal modello legale, siccome generica nella formulazione del capo d’imputazione e nell’indicazione delle fonti di prova, ribadendo quanto già affermato con la sentenza n. 88 del 1994, sul rilievo che non è precluso al giudice dell’udienza preliminare “sollecitare il pubblico ministero a procedere alle necessarie integrazioni e precisazioni dell’imputazione” inadeguata, anche mediante un provvedimento di trasmissione degli atti che intervenga dopo la chiusura della discussione.
Di talchè, dopo i menzionati interventi della Corte costituzionale, due sono stati sostanzialmente gli schemi procedurali, alternativi o talora consecutivi, eletti dai giudici per porre il pubblico ministero in condizione di adeguare l’imputazione contestata in modo generico (oltre alle soluzioni più radicali dell’espianto dell’atto imputativo attraverso la declaratoria di nullità o del diretto intervento del giudice sul profilo dell’imputazione): uno, “interno” alla fase, che si risolve nell’invito o sollecitazione “interlocutoria” del giudice al titolare dell’azione penale ad esercitare nell’udienza preliminare i poteri attribuitigli dall’art. 423 c.p.p. per precisare gli estremi del fatto contestato (v., per un caso emblematico, Cass., Sez. 6, 23/10/1992, Piana, rv. 192921 e Sez. 6, 2/3/1998, Romano, rv. 211947); l’altro “esterno” alla fase, che consiste nella trasmissione degli atti al Pubblico Ministero all’esito dell’udienza preliminare perchè eserciti nuovamente l’azione penale, in applicazione analogica dell’art. 521 c.p.p., comma 2, norma dettata per l’accertamento della diversità del fatto all’esito del dibattimento. Con l’avvertenza, tuttavia, che le decisioni, in un senso o nell’altro, si palesano eterogenee quanto all’ampiezza della nozione di “diversità” del fatto, che, non solo nelle prassi applicative ma anche nei dicta della Corte costituzionale, risulta onnicomprensiva sia della fattispecie di imputazione generica o insufficiente, sia di quella relativa alla contestazione di un fatto puntualmente determinato, ma diverso.
5. – Tanto premesso, le Sezioni Unite ritengono di condividere la tesi interpretativa dell’abnormità del provvedimento, con cui il giudice dell’udienza preliminare dichiari la nullità della richiesta di rinvio a giudizio per la genericità o l’indeterminatezza dell’imputazione e/o (come nel caso in esame) disponga la restituzione degli atti al pubblico ministero perchè eserciti nuovamente l’azione penale, anche se necessitano di essere puntualizzati i limiti di applicabilità di tale soluzione e rivisitate le ragioni di ordine logico-giuridico che la giustificano.
6. – In ordine al quadro normativo di riferimento, va rilevato che l’art. 417 c.p.p., lett. b), introdotto dalla L. 15 dicembre 1999, n. 479, art. 18, comma 1, la cui inosservanza da parte del P.M. costituisce il presupposto del provvedimento del G.u.p. oggetto dell’odierna impugnazione, contempla, tra i requisiti formali della richiesta di rinvio a giudizio, l’enunciazione “in forma chiara e precisa” del fatto contestato, senza prevedere, peraltro, alcuna sanzione d’inammissibilità o di nullità per l’ipotesi che l’imputazione non risulti conforme al modello legale.
Dall’esame dei lavori preparatori della citata legge s’evince, infatti, che nel testo licenziato il 10/2/1999 dalla Camera dei Deputati, rimasto immutato nel corso del successivo iter parlamentale, venne meno, nonostante l’ampio dibattito svoltosi in Commissione Giustizia, ogni riferimento all’originaria proposta di sanzionare con la nullità la violazione dell’obbligo di enunciazione in forma chiara e precisa dell’imputazione. Nullità che, per contro, è espressamente stabilita dall’art. 416 c.p.p., comma 1, modif.
dalla citata L. n. 479 del 1999, art. 17, comma 3, soltanto nei casi in cui la richiesta di rinvio a giudizio non sia stata preceduta dall’avviso ex art. 415 bis c.p.p., e dall’invito a presentarsi per rendere l’interrogatorio ai sensi dell’art. 375 c.p.p., comma 3.
Analogo rispetto dei canoni di chiarezza e precisione è inoltre prescritto dall’art. 429 c.p.p., comma 1, lett. c), modif. dalla citata L. n. 479 del 1999, art. 18, comma 2, per la descrizione del fatto contenuta nel decreto che dispone il giudizio (dello stesso tenore è anche l’art. 552 c.p.p., comma 1, lett. c), modif. dalla citata L. n. 479 del 1999, art. 44, quanto al decreto di citazione a giudizio).
Ma, in tal caso, l’art. 429 c.p.p., comma 2, sanziona con la nullità del decreto che dispone il giudizio (come fa anche, per il decreto di citazione a giudizio, l’art. 552 c.p.p., comma 2) il difetto di determinatezza o l’insufficienza dell’atto imputativo. Nullità, questa, annoverata espressamente dall’art. 181 c.p.p., comma 3 tra quelle relative, che vanno eccepite entro il termine previsto dall’art. 491 c.p.p., comma 1, ed al cui accertamento da parte del giudice del dibattimento consegue, ai sensi dell’art. 185 c.p.p., comma 3, l’immediata regressione del procedimento allo stato o al grado in cui è stato compiuto l’atto nullo. Vale a dire all’udienza preliminare, nel corso della quale, per rimuovere la causa della nullità, il Pubblico Ministero dovrà necessariamente procedere al corretto adeguamento dell’ipotesi accusatola deficitaria o imprecisa, mediante l’esaustiva ridescrizione del fatto, sulla base degli elementi di fatto e delle ragioni giuridiche indicati nell’ordinanza del giudice del dibattimento (Cass., Sez. Un., 10/12/1997, Di Battista).
7. – Merita altresì di essere sottolineato che, nel contesto delle sopravvenute, significative, novità normative (in particolare, la L. n. 479 del 1999) e dei plurimi interventi della Corte costituzionale (v., fra le tante, sentt. n. 224 del 2001 e n. 335 del 2002), si è imposta un’opportuna rimeditazione riguardo alla struttura e alle funzioni dell’udienza preliminare, nel senso di una sua progressiva marginalizzazione quale “momento processuale” orientato al mero controllo dell’azione penale promossa dal P.M. in vista dell’apertura della fase del giudizio, e, per contro, del suo avvicinamento ai segmenti di uno sviluppo procedimentale in cui, per la completezza del quadro probatorio di cui il giudice dispone, per il potenziamento dei poteri riconosciuti alle parti in materia di prova e per l’obiettivo arricchimento, qualitativo e quantitativo, dell’orizzonte prospettico del giudice rispetto all’epilogo decisionale, è stimolata la valutazione del “merito” circa la consistenza dell’accusa, in base ad una prognosi sulla possibilità di successo nella fase dibattimentale (Cass., Sez. Un., 30/10/2002 n. 39915, Vottari).
D’altra parte, se l’udienza preliminare resta connotata da una maggiore fluidità dell’addebito, che si cristallizza solo con il decreto che dispone il giudizio, deve pure convenirsi che l’intervento del giudice per assicurare la costante corrispondenza dell’imputazione a quanto emerge dagli atti costituisca un atto doveroso e un’esigenza insopprimibile, non solo a garanzia del diritto di difesa dell’imputato e dell’effettività del contraddittorio, ma anche al fine di consentire che il controllo giurisdizionale sul corretto esercizio dell’azione penale si svolga in piena autonomia e si concluda eventualmente con una decisione di rinvio a giudizio che, nel fissare il thema decidendum, abbia ad oggetto un’imputazione riscontrabile negli atti processuali e sia supportata da specifiche fonti di prova in ordine ai fatti storici contestati con chiarezza e precisione, anzichè un’imputazione priva di concreto contenuto materiale, inidonea a reggere l’urto della verifica preliminare di validità nella fase introduttiva del dibattimento.
In tal senso, risulta evidente il collegamento fra le novellate disposizioni dell’art. 421 bis c.p.p. e art. 422 c.p.p., che configurano i poteri di iniziativa probatoria del giudice per rendere effettivo il principio di completezza delle indagini ed evitare situazioni di stallo decisorio, e il successivo art. 423 c.p.p., atteso che l’integrazione della prova è funzionale alla precisazione dell’accusa, mentre l’insufficienza della contestazione condiziona a sua volta la verifica di completezza degli esiti d’indagine, insieme con le determinazioni negoziali per la celebrazione dei riti alternativi, scelti dall’imputato soprattutto in ragione della precedente opera di precisazione della contestazione e degli elementi che la fondano.
8. – Da simili rilievi esegetici sulla centralità dell’atto imputativo e sulla struttura dell’udienza preliminare, che bene si armonizzano con il silenzio del legislatore in ordine alle conseguenze dell’inosservanza del requisito contenutistico della richiesta di rinvio a giudizio, deriva, come logico corollario, che l’udienza preliminare si configuri come il luogo privilegiato di stabilizzazione dell’accusa e che il progressivo consolidamento dell’imputazione debba essere realizzato, in primis, all’interno della fase, mediante il meccanismo d’integrazione e specificazione predisposto per la diversità del fatto dall’art. 423 c.p.p., comma 1, nella lettura estensiva che di tale disposizione normativa offre – come si è detto – la giurisprudenza costituzionale (C. cost, n. 88 del 1994 e n. 131 del 1995; n. 265 del 1994 e n. 384 del 2006).
S’intende, in altre parole, affermare il principio per cui il giudice dell’udienza preliminare, dal momento della presentazione dell’atto introduttivo fino all’esito della discussione nel confronto dialettico fra le parti, ancor prima dell’adozione dei tipici provvedimenti conclusivi della fase ex art. 424 c.p.p., qualora ravvisi nell’atto di imputazione l’assenza del contenuto minimo indispensabile o la sua imperfezione e inadeguatezza per difetto di chiarezza e precisione dei fatti storici contestati, ha il “potere- dovere” di attivare i meccanismi correttivi nel corso dell’attività fisiologica della medesima udienza, rappresentando, con ordinanza motivata e interlocutoria, gli clementi di fatto e le ragioni giuridiche del vizio d’imputazione e richiedendo espressamente al pubblico ministero di provvedere, di conseguenza, alle opportune precisazioni e integrazioni, secondo il paradigma contestativo dettato dall’art. 423 c.p.p., comma 1.
Il rimedio al deficit dell’atto imputativo assume, pertanto, valenza endofasica ed attiene, pure nell’atipicità delle forme in cui lo strumento di controllo del giudice può, di volta in volta, atteggiarsi, all’arca concettuale della funzione di direzione dell’udienza e di garanzia circa la correttezza dell’accusa.
Mette conto di rilevare come, sebbene debba individuarsi nel pubblico ministero l’organo a cui è attribuita, in linea di principio, l’operazione materiale d’integrazione e aggiornamento della contestazione indeterminata o generica, la regola di condotta vada, tuttavia, simmetricamente configurata, in termini non già di mera facoltà dello stesso di procedere all’adeguamento richiesto dal giudice, bensì – anche in forza del disposto dell’art. 124 c.p.p., comma 1, sull’obbligo dei magistrati di osservare le norme processuali anche quando la loro inosservanza non importa nullità – di vero e proprio “dovere” di operare, in tal senso, una ridescrizione compiuta ed esaustiva dell’ipotesi accusatoria. Dovere che, se non adempiuto, rischia di inficiare, di riflesso, la corretta enunciazione dell’imputazione nel provvedimento conclusivo che dispone il giudizio, vanificando così la garanzia del filtro rispetto alle imputazioni “azzardate” e conseguendone la situazione invalidante di cui all’art. 429 c.p.p., comma 2, insieme con la regressione del processo all’udienza preliminare.
Insomma, la funzione e gli epiloghi decisori dell’udienza preliminare determinano in capo a quel giudice il dominio e la responsabilità dell’atto introduttivo del giudizio e, per altro verso, nel Pubblico Ministero, titolare dell’azione e dell’imputazione, l’organo vincolato allo schema contestativo, nei termini indicati in sede giurisdizionale, per uniformare la storicità del fatto alle emergenze probatorie in atti.
Senza considerare, inoltre, che le stesse ragioni sopra indicate fondano il potere del giudice dell’udienza preliminare, nell’inerzia del Pubblico Ministero, di apportare direttamente al fatto, nel decreto che dispone il giudizio, le integrazioni e precisazioni (di tipo non strettamente contenutistico e che non attengano alla materiale consistenza dei fatti addebitati) che, nei limiti enunciati nella richiesta di rinvio a giudizio, si rendano necessarie per descrivere con completezza il fatto storico oggetto dell’imputazione, anche in sede di correlazione delle fonti di prova con i fatti cui esse si riferiscono, ai sensi dell’art. 429 c.p.p., comma 1, lett. d), (Cass., Sez. Un., 10/12/1997, Di Battista); nonchè, quale espressione indefettibile del principio di legalità e della funzione di ius dicere, di dare al fatto contestato una diversa definizione o qualificazione giuridica, riconducendo così la fattispecie concreta allo schema legale che le è proprio, in forza della valenza generale della regola contenuta nell’art. 521 c.p.p., comma 1 (C. Cost., n. 347 del 1991 e n. 112 del 1994; Cass., Sez. Un., 19/6/1996, Di Francesco).
9. – Le precedenti riflessioni sembrano dunque convergere univocamente nel senso che i rimedi per “sanare” l’eventuale discrasia registratasi tra l’imputazione e le emergenze dell’indagine debbano, in linea di principio, essere sperimentati “all’interno” della fase dell’udienza preliminare, con particolare riguardo al meccanismo di costante adeguamento dell’imputazione previsto dall’art. 423 c.p.p., comma 1, ancor prima degli epiloghi decisori sul merito della regiudicanda, secondo il disposto dell’art. 424 c.p.p., comma 1 (decreto che dispone il giudizio o sentenza di non luogo a procedere).
In questa prospettiva occorre collocare il potere del giudice dell’udienza preliminare di trasmettere gli atti al Pubblico Ministero per il nuovo esercizio dell’azione penale, qualora quest’ultimo rimanga inerte di fronte allo specifico provvedimento ordinatorio dello stesso giudice che abbia richiesto la revisione dell’imputazione, secondo il modulo contestativo – endofasico – predisposto dall’art. 423 c.p.p..
Trattasi, a questo punto, di razionale e doveroso – seppure residuale – epilogo decisionale “in rito”, con il quale il giudice, in virtù dell’applicazione analogica dell’art. 521 c.p.p., comma 2, e in coerenza con le esigenze di legalità del processo, attesta il vizio dell’atto imputativo (considerato nella sua centralità e proiezione funzionale), consistente nella non corrispondenza fra il fatto storico emergente dagli atti processuali e la descrizione dello stesso nella richiesta di rinvio a giudizio. Vizio che, siccome non “sanato” all’esito del percorso fisiologico interno alla fase mediante l’attivazione dei normali meccanismi correttivi, comporta la regressione del processo alla fase delle indagini preliminari, ai fini del necessario adeguamento dell’imputazione da parte del titolare dell’azione penale (che dovrà conformarsi ai risultati del controllo giurisdizionale sulla richiesta di rinvio a giudizio), non potendo certamente essere costretto il giudice, in una sorta di “sudditanza” nei confronti del pubblico ministero (Cass., Sez. 1, 5/5/2000, P.M. in proc. Ferrentino, rv. 216422), ad emettere un decreto dispositivo del giudizio recante un’imputazione incompleta o imprecisa, destinato, come tale, ad essere travolto nella fase dibattimentale dalla sanzione di nullità.
10. – In tal senso vanno dunque lette le linee interpretative del fenomeno prospettate dalla Corte costituzionale con le citate decisioni n. 88 del 1994 e n. 131 del 1995 (richiamate incidentalmente dalle sentt. n. 265 del 1994 e n. 384 del 2006) le quali, nell’apprezzare la compatibilità costituzionale di entrambe le soluzioni individuate nella prassi per imporre al Pubblico Ministero la revisione dell’imputazione in caso di accertata diversità del fatto o comunque di erroneità, insufficiente specificazione o incompletezza originaria dell’atto imputativo, fondate la prima sulla lettura estensiva del modulo previsto dall’art. 423 c.p.p., comma 1 e l’altra sull’applicazione analogica dell’art. 521 c.p.p., comma 2, sostanzialmente suggeriscono un vero e proprio “percorso” procedurale, in una composizione unitaria delle opzioni, al fine di assicurare la costante corrispondenza del fatto storico, quale emerge dagli atti e dalle fonti di prova, all’imputazione formulata e il pieno rispetto del diritto di difesa.
Il controllo del giudice dell’udienza preliminare sulla validità dell’imputazione, siccome immanente al sistema, deve esplicarsi secondo una sequenza razionale (già prefigurata da una parte della dottrina) che, in prima battuta, privilegia l’emendatio delle lacune imputative attraverso gli strumenti di adeguamento previsti dall’art. 423 c.p.p., comma 1, nell’ambito e all’interno della medesima fase processuale, evitando così situazioni di stallo decisorio che, altrimenti, comporterebbero la regressione del procedimento a seguito della trasmissione degli atti al pubblico ministero. Solo successivamente – non alternativamente – e in caso di mancata adesione del pubblico ministero alla richiesta correttiva, integrativa o modificativa nei termini indicati dall’ordinanza interlocutoria del giudice, quindi di cronicizzazione del conflitto fra giudice e pubblico ministero sulla configurazione dell’imputazione, è consentito il ricorso a un provvedimento conclusivo di restituzione degli atti, che non necessita di una previa dichiarazione di nullità (non prevista dal legislatore) della richiesta di rinvio a giudizio e determina la retrocessione del procedimento, sulla falsariga di quanto disposto dall’art. 521 c.p.p., comma 2, onde consentire il nuovo esercizio dell’azione penale in modo aderente alle effettive risultanze d’indagine.
11. – Nel percorso “virtuoso” che si è andato delineando la soluzione restitutoria comportante la regressione del procedimento viene ricondotta, pertanto, ad evenienza marginale ed eccezionale, prefigurandosi come extrema ratio: in perfetta coerenza, d’altra parte, con le esigenze di economia e di “ragionevole durata” del processo, le quali, pure nel corretto contemperamento fra il valore dell’efficienza e le garanzie del “giusto processo”, entrambi presi in considerazione dal novellato art. 111 Cost., pretendono comunque la razionalizzazione dei tempi e dell’organizzazione del processo e, con essa, l’effettività della giurisdizione penale a fronte delle legittime aspettative della collettività di fronte al delitto.
Non sembra infine superfluo rammentare, sul punto, che il progetto “Riccio” di legge delega per il nuovo codice di procedura penale, presentato al Ministro della Giustizia il 19 dicembre 2007, propone un’analoga disciplina “endofasica” delle modalità di controllo del giudice dell’udienza di conclusione delle indagini (fase che nello schema di progetto sostituisce quella dell’udienza preliminare) sui contenuti imputativi della richiesta di rinvio a giudizio.
La direttiva 66.6 del progetto definitivo espressamente prevede “la restituzione degli atti al pubblico ministero se risulta, nel corso dell’udienza, che il fatto non è enunciato in forma chiara e precisa o risulta diverso da come contestato”; e però il “dovere del giudice, prima di ordinare la restituzione degli atti, di invitare il pubblico ministero alla precisazione o alla modifica dell’imputazione”; di conseguenza, la “concessione di un termine a difesa…in caso di modifica o precisazione dell’imputazione” e la “notificazione…del verbale contenente la contestazione come riformulata, con avviso della data della nuova udienza”.
Anche nel progetto riformatore, dunque, oltre ad essere escluso l’annullamento della richiesta di rinvio a giudizio, è previsto un meccanismo di restituzione degli atti al pubblico ministero che opera solo “all’interno” della fase, senza regressione del procedimento. E nella relazione accompagnatoria (p. 98) si evidenzia, a proposito delle vicende dell’imputazione, come “la convinzione che il vizio di imputazione costituisca scorretto esercizio dell’azione penale autorizza il giudice alla restituzione degli atti al pubblico ministero”, precisandosi tuttavia che “esigenze di economia processuale e la natura della sede consentono un potere sollecitatorio del giudice al pubblico ministero, che non inficia assolutamente la libertà operativa del magistrato di accusa nè riduce le garanzie per l’imputato …”.
12. – Alla stregua delle suesposte considerazioni, le caratteristiche distintive dell’atto abnorme sembrano configurabili nell’impugnata ordinanza che, rilevata all’esito della discussione la sommarietà e la genericità della descrizione del fatto contenuta nella richiesta del pubblico ministero di rinvio a giudizio e richiamata la sentenza n. 88 del 1994 della Corte costituzionale, “visti gli artt. 423 e 521 c.p.p. ordina(va) la restituzione degli atti all’ufficio del P.M.”, sostanziandosi essa in un provvedimento, non solo contraddittorio per il riferimento al meccanismo integrativo, invero non attivato, ma altresì radicalmente eccentrico rispetto alle sequenze procedimentali nelle quali si snoda il percorso “virtuoso” sopra delineato.
Il pur legittimo potere di controllo dell’azione e dell’imputazione, riservato al giudice dell’udienza preliminare, è stato esercitato nel caso in esame oltre ogni ragionevole limite, non essendo consentito a quel giudice di disporre ex abrupto la regressione del procedimento alla fase. antecedente delle indagini preliminari, segnandone così l’anomalo epilogo, senza avere prima richiesto al pubblico ministero di attivare il rimedio correttivo del vizio dell’atto imputativo nell’ambito della medesima udienza.
Di talchè, a conclusione dell’analisi logico-sistematica della normativa, può enunciarsi il seguente principio di diritto: “è abnorme, e quindi ricorribile per Cassazione, il provvedimento con cui il giudice per l’udienza preliminare disponga la restituzione degli atti al pubblico ministero per la genericità o l’indeterminatezza dell’imputazione, senza avergli previamente richiesto di precisarla”.
La soluzione ermeneutica prospettata sembra la più aderente all’impianto strutturale e funzionale dell’udienza preliminare, attesa la dimostrata centralità dell’atto imputativo, nonchè alle esigenze di economia della giurisdizione, poichè, sulla base di una rilettura rigorosa e costituzionalmente orientata della categoria dell’abnormità nell’elaborazione giurisprudenziale di questa Corte, ogni fattispecie di indebita regressione costituisce un serio vulnus all'”ordo processus”, inteso come sequenza logico-cronologica coordinata di atti, in spregio dei valori di rilievo costituzionale (art. 111 Cost., comma 2: regola precettiva e interpretativa, a un tempo) dell’efficienza e della ragionevole durata del processo.
E, poichè occorre riconoscere che la ratio decidendi dell’ordinanza impugnata non risulta coerente col principio di diritto suindicato, in quanto la retrocessione in tal caso disposta non appare giuridicamente corretta, palesandosi incompatibile con le linee fondanti del sistema, il ricorso del Pubblico Ministero dev’essere accolto.
Annulla senza rinvio l’ordinanza impugnata e dispone la trasmissione degli atti al Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Pordenone per l’ulteriore corso.
Così deciso in Roma, il 20 dicembre 2007.
Depositato in Cancelleria il 1 febbraio 2008