Qui di seguito la motivazione integrale della sentenza della Corte di Cassazione penale sezioni unite 26 giugno 2014 n. 36847
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE PENALI
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SANTACROCE Giorgio – Presidente –
Dott. MANNINO Saverio F. – Consigliere –
Dott. MILO Nicola – Consigliere –
Dott. LOMBARDO Alfredo Mari – Consigliere –
Dott. CONTI Giovann – rel. Consigliere –
Dott. BIANCHI Luisa – Consigliere –
Dott. BRUNO Paolo Antoni – Consigliere –
Dott. MACCHIA Alberto – Consigliere –
Dott. CASSANO Margherita – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
1. D.G.A., nato a (OMISSIS);
2. D.G.P., nato a (OMISSIS);
avverso la ordinanza del 30/09/2013 della Corte di appello di Roma;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e i ricorsi;
sentita la relazione svolta dal consigliere Giovanni Conti;
lette le richieste del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto
Procuratore Generale Dott. SELVAGGI Eugenio, che ha concluso
chiedendo il rigetto dei ricorsi.
Fatto
RITENUTO IN FATTO
1. Con ordinanza del 30 settembre-3 ottobre 2013, la Corte di appello di Roma dichiarava inammissibile la ricusazione, proposta con atto depositato il 27 settembre 2013, nell’interesse degli imputati D. G.A. e D.G.P., nei confronti dei componenti del Collegio della Quarta Sezione penale del Tribunale di Roma.
2. Esponeva la Corte di appello che l’indicato Tribunale, investito del dibattimento a carico di L.G. e altri, all’udienza del 25 settembre 2013, aveva, previa separazione della relativa posizione, pronunciato sentenza ex art. 444 c.p.p., nei confronti del coimputato L.L. in relazione a tutti i reati contestatigli.
I componenti del Tribunale – che aveva ripreso nello stesso giorno la trattazione del dibattimento nei confronti dei restanti imputati – su sollecitazione dei difensori di D.G.A. e D.G. P., fondata sul fatto che i medesimi giudici avevano poco prima applicato la pena richiesta nei confronti del predetto coimputato, dichiaravano di astenersi dalla partecipazione al giudizio, pur dando atto di non avere in tale sede valutato “profili di merito relativi alla posizione degli attuali imputati”.
Con provvedimento emesso in quella stessa mattina, il Presidente del Tribunale non accoglieva la dichiarazione di astensione, osservando che i membri del Collegio, secondo quanto risultava dalla motivazione della sentenza di patteggiamento relativa a L.L., non avevano, neppure implicitamente, valutato la posizione dei coimputati.
Alla ulteriore ripresa del dibattimento, avvenuta sempre nello stesso 25 settembre 2013, i difensori di D.G.A. e P., e questi ultimi di persona, preso atto di detto provvedimento, dichiaravano di ricusare i componenti del Collegio ai sensi dell’art. 37 c.p.p., in relazione all’art. 36 c.p.p., comma 1, lett. g), e art. 34 c.p.p..
Il Tribunale disponeva conseguentemente la trasmissione al Presidente della Corte di appello di Roma di copia del verbale di udienza, del provvedimento preso dal Presidente del Tribunale sulla dichiarazione di astensione, della sentenza di applicazione di pena emessa nei confronti di L.L. e del decreto di giudizio immediato.
L’atto di ricusazione veniva poi dai difensori di D.G. A. e P. ulteriormente formalizzato in data 27 settembre 2013, con corredo di documentazione, mediante deposito nella Cancelleria della Corte di appello di Roma.
In tale atto veniva in particolare richiamata la sentenza Corte cost.
n. 371 del 1996, che aveva dichiarato la illegittimità costituzionale dell’art. 34 c.p.p., comma 2, “nella parte in cui non prevede che non possa partecipare al giudizio nei confronti di un imputato il giudice che abbia pronunciato o concorso a pronunciare una precedente sentenza nei confronti di altri soggetti, nella quale la posizione di quello stesso imputato in ordine alla sua responsabilità penale sia già stata comunque valutata”.
Si osservava poi che con la sentenza di patteggiamento emessa nei confronti di L.L. i giudici del Tribunale “avevano sicuramente operato, quanto meno in relazione al delitto di cui all’art. 416 cod. pen., una valutazione sulla responsabilità dei restanti (tre) coimputati del reato associativo con il L. (capo B)”; e, conseguentemente, avevano “matematicamente ritenuto che almeno due dei restanti tre coimputati al Capo B … si siano associati con lo stesso. Altrimenti, il reato associativo, per cui il L. è stato riconosciuto colpevole, non potrebbe sussistere”.
Secondo le parti ricusanti, “si tratta proprio di un caso del tutto simile a quello su cui si è pronunciata la Corte costituzionale con la sentenza 371/96”.
3. La Corte di appello, con la ordinanza in epigrafe, osservava che la dichiarazione di ricusazione era inammissibile in quanto manifestamente infondata, dal momento che dall’esame della sentenza di patteggiamento emergeva che nessuna valutazione sulla responsabilità di altri imputati era stata effettuata dal Tribunale, nè in assoluto, nè con riferimento all’ipotesi di cui all’art. 416 c.p..
Considerava, altresì, destituita di fondamento la tesi difensiva secondo cui tale valutazione, nel caso in esame, aveva investito logicamente e “matematicamente” i ricorrenti, non essendo essi gli unici altri due concorrenti necessari della contestata ipotesi associativa, atteso che dalla lettura del capo di imputazione si evinceva che il delitto associativo era stato contestato anche a L.G. e a I.M., nelle more deceduto, in concorso con D.G.M. e I.G..
4. Avverso detta ordinanza hanno proposto ricorso per cassazione nell’interesse di D.G.A. e di D.G.P. i comuni difensori avvocati Alfonso Stile e Giro P. Sepe, denunciando, con un unico motivo, la inosservanza di norme processuali e il vizio di motivazione in relazione agli artt. 34 e 37 c.p.p. e ss., art. 178 c.p.p., comma 1, lett. a), nonchè violazione dell’art. 111 Cost., e art. 6 CEDU. Rilevano i ricorrenti che, diversamente dalle indicazioni contenute nell’ordinanza impugnata, il reato di cui all’art. 416 c.p., è stato contestato nel decreto di giudizio immediato a L.G., D.G.A., D.G.P. e L.L.;
mentre D.G.M. e I.G., pure destinatane del medesimo decreto di giudizio immediato, erano coimputate per i solo reati-fine e non erano, quindi, chiamate a rispondere del reato associativo.
Si osserva poi, con argomentazioni che ricalcano quelle contenute nell’atto di ricusazione, che il caso in esame è analogo a quelli in relazione ai quali è intervenuta la sentenza n. 371 del 1996 della Corte costituzionale, atteso che, almeno con riguardo al contestato reato di cui all’art. 416 c.p., il Tribunale, nella sentenza di patteggiamento relativa a L.L., ha operato una valutazione sulla responsabilità penale dei restanti coimputati, avendo “matematicamente” ritenuto che almeno due di essi si fossero associati con lui.
5. Con requisitoria scritta in data 27 dicembre 2013, il Sostituto Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte di cassazione, Eugenio Selvaggi, ha concluso per il rigetto dei ricorsi.
Osserva che la questione in esame si traduce nell’interrogativo se la valutazione – in astratto e in concreto – operata nel procedimento di applicazione di pena alla luce dell’art. 129 c.p.p., sia riconducibile alla valutazione che diviene rilevante (ossia inquinante) ai fini dell’imparzialità (ossia del pregiudizio) del giudice. Rileva, quindi, che sul piano astratto la tesi difensiva sarebbe fondata, ma l’accertamento va operato in concreto, come induce a ritenere la stessa Corte costituzionale nella sentenza citata nel ricorso.
Considera, ancora, l’Ufficio requirente che, esaminando la sentenza di patteggiamento nei confronti di L.L., risulta che nessuna valutazione, oltre a quella minimale prevista dalla legge, è stata effettuata, sicchè l’ordinanza impugnata è immune da vizi censurabili in sede di legittimità. Unica alternativa sarebbe sollevare una questione di legittimità costituzionale tale da modificare la normativa nel senso di introdurre un motivo astratto e automatico di incompatibilità.
6. In data 6 marzo 2014, la difesa ha depositato note di replica alla requisitoria del Procuratore Generale riproponendo le medesime argomentazioni già prospettate in sede di ricorso e concludendo: in via principale, per l’annullamento senza rinvio dell’ordinanza impugnata; in via subordinata, per l’annullamento con rinvio per l’errore della Corte di appello sui partecipi al reato associativo;
in via ulteriormente subordinata, per la proposizione di questione di legittimità costituzionale nei termini rappresentati dal Procuratore Generale; chiedendo poi, per le ipotesi gradate, la sospensione dell’attività processuale ex art. 41 c.p.p..
7. La Quinta Sezione penale, cui il ricorso è stato tabellarmente assegnato, con ordinanza del 4 – 17 aprile 2014 ne ha disposto la rimessione alle Sezioni Unite.
7.1. Rileva in premessa la Sezione rimettente che dal decreto di giudizio immediato e dalla sentenza di applicazione della pena ex art. 444 c.p.p., pronunciata nei confronti di L.L. risulta che imputati del reato di cui all’art. 416 c.p. (capo B) sono, oltre allo stesso L.L., anche L.G., D.G.A. e D.G.P., nonchè I. M. (deceduto); mentre, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte di appello, non sono concorrenti in tale reato D.G. M. e I.G., menzionate nel capo di imputazione solo in quanto ad esse è stata contestato il concorso nella commissione dei reati-fine di cui ai capi D e E. 7.2. Ciò premesso, l’ordinanza procede ad una ricognizione della giurisprudenza costituzionale in tema di incompatibilità in caso di pluralità di procedimenti nei confronti di concorrenti nel medesimo reato.
In tale ricognizione si evidenzia l’orientamento, affermato fin dalle pronunce iniziali della Corte costituzionale, che esclude in tal caso una incompatibilità del giudice sulla base del principio che l’identità dell’oggetto del giudizio non è “ravvisabile nell’ipotesi di concorso di persone nel medesimo reato, perchè alla comunanza dell’imputazione fa necessariamente riscontro una pluralità di condotte distintamente ascrivibili a ciascuno dei concorrenti, le quali, ai fini del giudizio di responsabilità, devono formare oggetto di autonome valutazioni sotto il profilo tanto materiale che psicologico, e ben possono, quindi, sfociare in un accertamento positivo per l’uno e negativo per l’altro” (così, ex plurimis, sent. n. 186 del 1992). Tale indirizzo è stato ribadito anche in relazione a casi in cui la fattispecie oggetto del giudizio a quo è a concorso necessario (da ultimo, ord. n. 86 del 2013).
La Quinta Sezione ricorda peraltro il rilievo dato alla “ipotesi estrema” presa in esame dalla sentenza n. 371 del 1996, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 34 c.p.p., comma 2, nella parte in cui non prevede che non possa partecipare al giudizio nei confronti di un imputato il giudice che abbia pronunciato o concorso a pronunciare una precedente sentenza nei confronti di altri soggetti, nella quale la posizione di quello stesso imputato in ordine alla sua responsabilità penale sia già stata comunque valutata.
In tal sentenza la Corte costituzionale, pur confermando in linea di massima il tradizionale orientamento, prendendo in esame la peculiare ipotesi di reati a concorso necessario (in una fattispecie di associazione per delinquere composta da tre persone in relazione alla quale il giudice, dopo aver giudicato due dei concorrenti, era stato chiamato a giudicare il terzo associato), ha osservato che nel caso “in cui non solo vi sia concorso nel medesimo reato ma la posizione di uno dei concorrenti costituisca elemento essenziale per la stessa configurabilità del reato contestato agli altri concorrenti, ai quali soltanto sia formalmente riferita l’imputazione per la quale si procede, la valutazione della posizione del terzo, dalla quale non si sia potuto prescindere ai fini dell’accertamento della responsabilità degli imputati, costituisce sicuro ed evidente motivo di incompatibilità nel successivo processo a carico di tale terzo”.
L’incompatibilità, precisa la sentenza in esame, sussiste “non solo quando nel primo giudizio la posizione del terzo sia stata valutata a seguito di un puntuale ed esauriente esame delle prove raccolte a suo carico, ma anche quando abbia formato oggetto di una delibazione di merito superficiale e sommaria, apparendo anzi, in questa seconda ipotesi, ancor più evidente e grave la situazione di pregiudizio nella quale il giudice verrebbe a trovarsi”.
7.3. La deduzione difensiva circa la riconducibilità della fattispecie in esame nella sfera applicativa della declaratoria di parziale illegittimità costituzionale statuita con la sent. n. 371 del 1996 impone – secondo la Sezione rimettente – di affrontare la questione relativa alla valenza pregiudicante della sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti: in altri termini, si pone la questione se l’ipotesi di incompatibilità, introdotta dalla sentenza n. 371 del 1996, a partecipare al giudizio nei confronti di un imputato del giudice che abbia pronunciato o concorso a pronunciare una precedente sentenza nei confronti di altri soggetti, nella quale la posizione di quello stesso imputato in ordine alla sua responsabilità penale sia già stata comunque valutata, sia configurabile anche quando la precedente sentenza sia di applicazione della pena su richiesta delle parti ex art. 444 c.p.p..
Sulla questione la Quinta Sezione segnala indirizzi discordanti nella giurisprudenza di legittimità.
7.4. Un primo orientamento esclude in radice la configurabilità della incompatibilità in esame, valorizzando la peculiarità della sentenza di applicazione della pena: il giudice che abbia deciso ai sensi dell’art. 444 c.p.p., nei confronti di un concorrente nel reato, pur quando questo sia necessariamente plurisoggettivo, non è incompatibile con il giudizio degli altri concorrenti che non abbiano patteggiato la pena, data la peculiarità di una simile sentenza, che non postula la dimostrazione in positivo della responsabilità dell’imputato, ma solo l’accertamento della inesistenza di cause di non punibilità a norma dell’art. 129 dello stesso codice (Sez. 2, n. 36536 del 20/06/2003, Lucarelli, Rv. 226453; Sez. 6, n. 1752 del 14/05/1998, Cerciello Rv. 211078; Sez. 6, n. 1385 del 16/04/1998, Ferrantelli, Rv. 210664; Sez. 6, n. 3771 del 03/10/1997, Giallombardo, Rv. 209077).
La Quinta Sezione prosegue evidenziando che il nucleo essenziale dell’orientamento da ultimo ricordato, incentrato sulla natura della valutazione negativa dell’applicabilità dell’art. 129 c.p.p., non è smentito dalle conclusioni cui è pervenuta Sez. U, n. 17781 del 29/11/2005, dep. 2006, Diop, Rv. 233518. Tesa alla ricostruzione degli effetti della sentenza di patteggiamento (più che alla definizione della natura del relativo accertamento), la pronuncia delle Sezioni Unite ha ritenuto di dover “assegnare valore esclusivamente normativo al principio di equiparazione” e, argomentando con riferimento alla assoggettabilità a revisione della sentenza ex art. 444 c.p.p., è giunta alla conclusione che tale equiparazione, da un lato, implica l’applicazione di tutte le conseguenze penali della sentenza di condanna non categoricamente escluse, e, dall’altro, non implica un processo di vera e propria identificazione tra i due tipi di pronuncia.
7.5. Un ulteriore indirizzo della giurisprudenza di legittimità non esclude, in via generale, l’attitudine della sentenza ex art. 444 c.p.p., ad assumere valenza pregiudicante ai fini dell’incompatibilità del giudice, ma circoscrive la portata di detta attitudine all’ipotesi in cui, nel vagliare le altrui posizioni, il giudice stesso abbia effettuato anche una concreta delibazione dell’accusa concernente l’imputato rimasto estraneo alla richiesta di patteggiamento (Sez. 5, n. 8472 del 26/01/2005, Cacciurri, Rv.
231490; Sez. 6, n. 32424 del 14/07/2003, Tagliafierro, Rv. 226511).
L’indirizzo è stato affermato anche con riguardo al reato necessariamente plurisoggettivo: pertanto non può essere ricusato, da parte dell’imputato, ai sensi dell’art. 34 c.p.p., comma 2, (come inciso dalla sent. n. 371 del 1996 della Corte Costituzionale), il giudice che abbia pronunciato o concorso a pronunciare sentenza di patteggiamento nei confronti di un soggetto coimputato dell’istante quando detta sentenza – anche se relativa a reato necessariamente plurisoggettivo – non contenga alcun cenno alla posizione dell’imputato concorrente in quel reato, per il quale il procedimento sia proseguito nelle forme ordinarie. Tuttavia, una situazione di incompatibilità è configurabile allorchè venga accertato che il giudice del patteggiamento, anzichè limitarsi al controllo giuridico della fattispecie contestata ed alla verifica della inesistenza di ipotesi di non punibilità, abbia invece proceduto a valutazioni di merito, tali da poter vulnerare la posizione del terzo (Sez. 4, n. 44511 del 23/09/2003, Broch, Rv. 226409).
7.6. Il terzo orientamento individuato nell’ordinanza di rimessione si contrappone al primo, affermando che sulla base della sent. n. 371 del 1996 della Corte costituzionale deve ritenersi sussistere l’incompatibilità a giudicare un imputato in ogni caso in cui il giudice abbia, in una precedente sentenza, espresso incidentalmente valutazioni di merito in ordine alla sua responsabilità penale: tale principio trova applicazione anche nel caso in cui la precedente sentenza sia stata pronunciata a norma dell’art. 444 c.p.p., atteso che se è vero che con la sentenza applicativa della pena su richiesta delle parti il giudice non compie un giudizio di colpevolezza “pieno e incondizionato”, egli tuttavia perviene comunque a una valutazione di merito dei fatti, idonea a pregiudicare la sua imparzialità nel successivo giudizio (Sez. 6, n. 3822 del 11/12/1996, dep. 1997, Di Donato, Rv. 208192).
L’orientamento in esame, dunque, propende per il riconoscimento della valenza pregiudicante della sentenza di patteggiamento, nelle ipotesi riconducibili alla sentenza n. 371 del 1996, anche in assenza di espliciti riferimenti, nella sentenza ex art. 444 c.p.p., alla posizione di alcuno dei terzi coimputati (sulla stessa linea, Sez. 2, n. 106 del 13/01/1999, Compagnon, Rv. 212785).
7.7. Stante il ravvisato contrasto giurisprudenziale la Quinta Sezione ha dunque ritenuto sussistere i presupposti per investire della decisione del ricorso le Sezioni unite.
8. Con decreto in data 23 aprile 2014, il Primo Presidente ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite, fissandone per la trattazione l’odierna udienza camerale.
9. Con atto depositato in data 5 giugno 2014, il Procuratore Generale ha ribadito, con ulteriore sviluppo argomentativo, le proprie conclusioni, osservando che la pur prospettata via costituita dall’attivazione di un incidente di legittimità costituzionale incontrerebbe l’ostacolo di incidere su scelte discrezionali rimesse al legislatore, anche per i riflessi organizzativi ed ordinamentali che essa implicherebbe.
10. In data 11 giugno 2014, gli avvocati Stefano Maranella, difensore della parte civile Aura Piantanida, e Guseppe Vitiello, difensore delle parti civili A.F. e D.P.N., hanno depositato rispettivamente memorie con le quali hanno illustrato le ragioni della infondatezza dei ricorsi, in particolare rilevando che nel caso in esame non ricorre una ipotesi di reato a concorso necessario e che nella sentenza di patteggiamento emessa con riferimento a L.L. non è stata espressa alcuna valutazione, neppure incidentale nei confronti dei correi, sicchè non può dirsi sussistere una situazione di pregiudizio nei confronti di questi ultimi da parte dei componenti del Collegio giudicante.
Diritto
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. La questione per la quale il ricorso congiuntamente proposto da D.G.A. e D.G.P. è stato rimesso alle Sezioni Unite è così riassumibile:
“Se l’ipotesi di incompatibilità del giudice derivante dalla sentenza della Corte costituzionale n. 371 del 1996 – che ha dichiarato la incostituzionalità dell’art. 34 c.p.p., comma 2, “nella parte in cui non prevede che non possa partecipare al giudizio nei confronti di un imputato il giudice che abbia pronunciato o concorso a pronunciare una precedente sentenza nei confronti di altri soggetti, nella quale la posizione di quello stesso imputato in ordine alla sua responsabilità penale sia già stata comunque valutata” – sussiste anche per il giudice del dibattimento che, in un separato procedimento, abbia pronunciato sentenza di applicazione della pena su richiesta nei confronti di un concorrente necessario nello stesso reato oggetto del giudizio”.
2. Va in primo luogo verificata la tempestività della dichiarazione di ricusazione, in relazione al fatto che le parti ricusanti l’hanno formalizzata dopo avere invitato i giudici ad astenersi e solo dopo il provvedimento di non accoglimento della astensione da parte del Presidente del Tribunale.
2.1. Una giurisprudenza che può dirsi consolidata esclude che il difensore possa “attendere” l’esito della procedura di astensione prima di presentare la dichiarazione di ricusazione (v. tra le altre Sez. 6, n. 49080 del 03/12/2013, Pagnotta, Rv. 258364; Sez. 5, n. 33422 del 26/06/2008, Scaramucci, Rv. 241385; Sez. 2, n. 9166 del 19/02/2008, Farruggio, Rv. 239553; Sez. 4, n. 2057 del 29/08/1996, Costa, Rv. 206105).
Va peraltro considerato che nel caso di specie: l’invito alla astensione è stato formulato nel corso della udienza dibattimentale nello stesso giorno in cui era stata emessa la sentenza ex art. 444 c.p.p., considerata pregiudicante a carico di un coimputato; il Presidente del Tribunale aveva nella stessa mattina emesso il provvedimento di rigetto; l’udienza era stata ripresa sempre nella stessa mattina; e, appresa la decisione, i difensori avevano immediatamente proposto la dichiarazione di ricusazione.
A prescindere da tale considerazione, deve essere esclusa la tardività della dichiarazione di ricusazione per il solo fatto che essa sia stata preceduta dall’invito astenersi una volta che i termini ex art. 38 c.p.p., comma 2, per proporre la dichiarazione di ricusazione siano rispettati, come – per quello che subito si osserverà – deve ritenersi appunto essere avvenuto nel caso in esame.
Anzi, va affermato che se è vero in via generale che il termine per la dichiarazione di ricusazione decorre autonomamente, e non è collegato al rigetto della dichiarazione di astensione, diversamente è da dire nel caso in cui il giudice sia stato invitato ad astenersi dalla stessa parte e, accogliendo tale invito, abbia formulato la dichiarazione di astensione. In detta ipotesi, infatti, l’iniziativa del giudice che recepisca la sollecitazione della parte determina in capo a questa una legittima aspettativa a vedere riconosciuta la situazione di pregiudizio alla imparzialità e serenità del giudizio: imporre alla parte di affiancare un’autonoma dichiarazione di ricusazione alla dichiarazione di astensione, fondata sulle stesse ragioni, comporterebbe non solo un appesantimento procedurale ma anche l’adozione di una incongrua iniziativa “antagonista” rispetto a un giudicante che si è invece mostrato sensibile alle ragioni prospettate dalla parte circa la sussistenza di una delle ipotesi di cui all’art. 36 c.p.p. (in tali termini, Sez. 6, n. 3853 del 11/04/2002, Arnone, n.m. sul punto).
2.2. Un secondo aspetto che occorre esaminare deriva dal fatto che la dichiarazione di ricusazione venne proposta nella stessa udienza ma la sua formalizzazione avvenne solo due giorni dopo mediante il rituale deposito di essa nella Cancelleria della Corte di appello con il corredo della relativa documentazione.
L’art. 38 c.p.p., comma 2, secondo periodo, prevede che se la causa di ricusazione sia divenuta nota nel corso della udienza (come appunto è il caso di specie) la dichiarazione di ricusazione deve essere proposta in ogni caso “prima del termine della udienza”.
Le parti hanno effettivamente reso la dichiarazione prima del termine della udienza, ma l’hanno proposta oralmente davanti allo stesso Tribunale, per di più senza corredo di documentazione, e non, come prescritto, davanti alla Corte di appello. Come detto, la formalizzazione della dichiarazione avvenne solo due giorni dopo.
La giurisprudenza si è più volte occupata del problema derivante dal rigore della previsione secondo cui se la causa di ricusazione sia divenuta nota nel corso della udienza la dichiarazione di ricusazione deve essere proposta in ogni caso “prima del termine della udienza”.
Si è al riguardo affermato che nel caso in cui la cancelleria del giudice competente a ricevere la dichiarazione di ricusazione è collocata in luogo diverso da quello in cui si svolge l’udienza, e se la formale dichiarazione non può essere presentata prima dell’esaurimento della udienza, trova applicazione il termine di tre giorni previsto dall’art. 38 c.p.p., comma 2, primo periodo, (v. tra le altre Sez. 2, n. 49457 del 07/11/2013, Piazza, Rv. 257501; Sez. 5, n. 36624 del 26/05/2009, Turku, Rv. 245129).
Ad avviso del Collegio deve affermarsi che, a prescindere dalla collocazione della sede del giudice competente a ricevere la dichiarazione di ricusazione, non potendo essere imposto alla parte di abbandonare l’udienza per presentare la dichiarazione di ricusazione nella cancelleria competente (v. Sez. 1, n. 8247 del 06/02/2008, Bontempo, Rv. 239045), è solo onere della stessa di formulare in udienza la dichiarazione di ricusazione, con riserva di formalizzare tale dichiarazione nel termine di tre giorni previsto dall’art. 38 comma 2, primo periodo, cod. proc. pen. (in questo senso, Sez. 4, n. 11072 del 15/01/2013, Gravina, n.m.; Sez. 2, n. 46310 del 23/11/2011, Maniglia, Rv. 251531; Sez. 5, n. 26994 del 26/05/2009, Bontempo, Rv. 244483).
D’altra parte, nel caso in esame, dopo la dichiarazione di ricusazione fatta in udienza, lo stesso Tribunale dispose la trasmissione al Presidente della Corte di appello di Roma di copia del verbale di udienza, del provvedimento preso dal Presidente del Tribunale sulla dichiarazione di astensione, della sentenza di applicazione di pena emessa nei confronti di L.L. e del decreto di giudizio immediato, in tal modo sostanzialmente anticipando la formalizzazione della dichiarazione di ricusazione ad opera delle parti, avvenuta comunque due giorni dopo.
2.3. La dichiarazione di ricusazione deve dunque essere ritenuta tempestivamente proposta.
3. Occorre ora passare ad esaminare il merito della dichiarazione di ricusazione, che si fonda sulla sentenza della Corte costituzionale n. 371 del 1996, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 34 c.p.p., comma 2, “nella parte in cui non prevede che non possa partecipare al giudizio nei confronti di un imputato il giudice che abbia pronunciato o concorso a pronunciare una precedente sentenza nei confronti di altri soggetti, nella quale la posizione di quello stesso imputato in ordine alla sua responsabilità penale sia già stata comunque valutata”.
3.1. In punto di fatto va precisato che, diversamente da quanto ritenuto dalla Corte di appello, nella imputazione a “concorso necessario” di cui all’art. 416 c.p., (capo B) non risultano coinvolte le imputate D.G.M. e I.G., che rispondono di altre imputazioni, in concorso “non necessario” con i ricorrenti e altri imputati, e per le quali imputazioni non si pone, e comunque non è stata posta, la tematica del “pregiudizio” derivante dalla sentenza di patteggiamento pronunciata nei confronti di L.L..
Il reato di cui all’art. 416 c.p., è stato infatti contestato ai seguenti imputati: L.G., D.G.A., D. G.P., L.L. (quest’ultimo patteggiante), in concorso tra loro e con I.M., nelle more deceduto.
3.2. Ciò posto, contrariamente a quanto dedotto dai ricorrenti, non si è verificata nella specie alcuna “matematica” anticipazione di giudizio sulla posizione dei ricorrenti D.G.A. e P. per effetto della sentenza di patteggiamento pronunciata dallo stesso Collegio del Tribunale nei confronti del coimputato L.L..
I ricorrenti, partendo dal presupposto che la contestazione di cui all’art. 416 c.p. (capo B) coinvolgesse, oltre ad essi e a L. L., il solo L.G., osservano che almeno due dei tre correi dell’imputato patteggiante (e quindi almeno uno di essi ricorrenti) sarebbero stati necessariamente implicati dalla sentenza di patteggiamento.
Tale assunto trova però smentita nel fatto che anche il deceduto I.M. era considerato partecipe dell’associazione per delinquere, sicchè il Tribunale, nel decidere sulla posizione del patteggiante L.L. non doveva, nemmeno implicitamente, coinvolgere “matematicamente” quella dei ricorrenti D.G. A. e P., dal momento che l’associazione poteva “reggersi” considerando come associati, oltre a L.L., i soli L.G. e I.M., nulla rilevando che quest’ultimo fosse poi deceduto.
3.3. Va tuttavia avvertito che la precisazione sopra indicata su questo punto “in fatto” potrebbe ritenersi non necessaria ove al quesito posto dall’ordinanza di rimessione si dovesse dare risposta negativa.
Infatti, se alla sentenza di applicazione di pena non potesse in via di principio attribuirsi effetto pregiudicante ricorrendo la fattispecie descritta dalla sentenza Corte cost. n. 371 del 1996, poco varrebbe stabilire se nella specie ne sussistessero i presupposti.
Va dunque affrontato il tema posto dal quesito – su cui, come riportato nella parte in fatto, cui si rinvia, è dato registrare un contrasto giurisprudenziale – e ad esso deve essere data risposta positiva.
3.4. Infatti, la forza pregiudicante di una sentenza di merito rispetto a un successivo giudizio che riguardi la posizione di un concorrente nel medesimo reato “a concorso necessario” non dipende dall’ambito di accertamento – pieno o limitato alla verifica dei presupposti di cui all’art. 129 c.p.p. – che il primo giudizio esprime, perchè, quale che sia la valutazione di merito, inevitabilmente essa tocca un fondamentale aspetto oggetto del successivo giudizio – quello della responsabilità penale – che per la parte in tal modo “anticipata” ne risulta correlativamente pregiudicato.
Venendo più specificamente al tema, la problematica posta dalla sentenza n. 371 del 1996 resta immutata se calata in una fattispecie in cui la prima sentenza sia di patteggiamento: dovendosi necessariamente stabilire se ricorre la fattispecie minima del concorso di tre persone nel reato associativo, appare evidente che per taluno dei concorrenti non coinvolto dal patteggiamento, che dovrà essere successivamente giudicato, sussisterà un pregiudizio sia pure limitatamente alla sussistenza di una delle cause di non punibilità di cui all’art. 129 c.p.p., comma 1.
3.5. L’orientamento giurisprudenziale che collega l’effetto pregiudicante al quantum motivazionale espresso dalla sentenza di patteggiamento non può dunque essere condiviso, perchè non considera che tale effetto si produce, sia pure in parte qua, anche nel caso in cui il giudice del patteggiamento si sia limitato a stabilire la non ricorrenza dei presupposti di cui all’art. 129 c.p.p., comma 1.
Tale orientamento, inoltre, ha il difetto di avallare, sia pure implicitamente, una prassi di “esuberanza” di motivazione nelle sentenze emesse ex art. 444 c.p.p.. In questo genere di sentenze, infatti, il giudice ha come esclusivo parametro di valutazione la non sussistenza “sulla base degli atti” delle condizioni legittimanti il proscioglimento di cui all’art. 129 c.p.p., non essendo tenuto ad affrontare il “pieno merito” della responsabilità penale secondo i canoni di valutazione imposti al giudice del dibattimento (o del giudizio abbreviato) dall’art. 530 c.p.p. (v. tra le altre Sez. U, n. 10372 del 27/09/1995, Serafino, Rv. 202270; Sez. U, n. 5777 del 27/03/1992, Di Benedetto, Rv. 191135). Ed è per tale ragione che il ricorso per cassazione avverso dette sentenze che attenga al merito della responsabilità penale deve essere considerato inammissibile (v. Sez. U, n. 20 del 27/10/1999, Fraccari, Rv. 214637).
3.6. Tenuto conto dei ristretti spazi cognitivi “di merito” in cui si muove il giudice del patteggiamento, non dovrebbe verificarsi l’ulteriore ipotesi presa in considerazione dalla sent. n. 371 del 1996 in cui, al di là dei casi di reato a concorso necessario, nei quali la posizione del patteggiante non può prescindere, sotto l’aspetto numerico, da quella dei concorrenti, il giudice, “qualunque ne sia stato il motivo …, abbia incidentalmente espresso valutazioni di merito in ordine alla responsabilità penale di un terzo non imputato in quel processo”.
Se ciò si tuttavia si verificasse accidentalmente, a causa di una deprecabile “esuberanza” motivazionale in relazione a posizioni e ad aspetti esterni a quel giudizio, essendo comunque pregiudicato il valore della imparzialità del giudice, non dovrebbe parlarsi di un caso di incompatibilità ma di uno di ricusazione.
Ciò è stato chiarito dalla stessa Corte costituzionale nelle sentenze “trigemine” nn. 306, 307, 308 del 1997, e poi formalmente definito con la sentenza n. 283 del 2000, con la quale è stata dichiarata la illegittimità costituzionale dell’art. 37 c.p.p., comma 1, lett. b), “nella parte in cui non prevede che possa essere ricusato dalle parti il giudice che, chiamato a decidere sulla responsabilità di un imputato, abbia espresso in altro procedimento, anche non penale, una valutazione di merito sullo stesso fatto nei confronti del medesimo soggetto”: a prescindere, perciò, dal carattere indebito di tale valutazione.
4. Va dunque enunciato il seguente principio di diritto:
nL’ipotesi di incompatibilità del giudice derivante dalla sentenza della Corte costituzionale n. 371 del 1996 – che ha dichiarato la incostituzionalità dell’art. 34 c.p.p., comma 2, “nella parte in cui non prevede che non possa partecipare al giudizio nei confronti di un imputato il giudice che abbia pronunciato o concorso a pronunciare una precedente sentenza nei confronti di altri soggetti, nella quale la posizione di quello stesso imputato in ordine alla sua responsabilità penale sia già stata comunque valutata” – sussiste anche con riferimento alla ipotesi in cui il giudice del dibattimento abbia, in separato procedimento, pronunciato sentenza di applicazione della pena su richiesta nei confronti di un concorrente necessario dello stesso reato”.
5. Come anticipato, la sentenza di patteggiamento pronunciata nei confronti di L.L. si pone al di fuori della tematica del concorso necessario presa direttamente in esame dalla sentenza n. 371 del 1996.
Resta ora da stabilire se essa sia stata in concreto idonea a pregiudicare la posizione degli altri imputati, comunque concorrenti con L.L. nel reato di cui all’art. 416 c.p..
Ora, a parte il rilievo che, per le ragioni dette, la fattispecie in esame non potrebbe comunque essere ricondotta ad alcuna delle ipotesi incompatibilità di cui all’art. 34 c.p.p., ma semmai a un caso di ricusazione ex art. 37 c.p.p., comma 1, lett. b), non considerato nella dichiarazione di ricusazione che si muove invece nell’orbita di una situazione di incompatibilità de giudice, va osservato che nella sentenza di applicazione della pena emessa dal Tribunale di Roma nei confronti di L.L., assunta come atto pregiudicante, non vi è il minimo cenno alla posizione degli altri coimputati e la motivazione, con riferimento all’imputato patteggiale, si basa correttamente quali dati probatori, su atti di indagine (probatoriamente non utilizzabili nei confronti degli imputati giudicati secondo il rito ordinario) e su. criterio della non ravvisabilità di alcuna causa di proscioglimento ex art. 129 c.p.p., comma 1, osservando, con riguardo alle plurime imputazioni mosse al predetto imputato, e quindi non solo con specifico riferimento a quella di cui all’art. 416 c.p., che “dalla documentazione in atti contenuta nel fascicolo del pubblico ministero e già visionata in occasione dell’emissione del sequestro conservativo de 27.3.2103, e segnatamente dalla visura camerale, dalle sentenze dichiarative de fallimento, dalle relazioni dei curatori, dalle denunce dei danneggiati e dagli atti di p.g., e dalla documentazione ad esse allegata, non emergono elementi su cui fondare una pronuncia di assoluzione ex art. 129 c.p.p.”.
Nella sentenza in esame, dunque, non è stata espressa alcuna considerazione di merito che possa reputarsi in concreto pregiudicante rispetto alla posizione dei correi.
6. I ricorsi vanno pertanto rigettati, con condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 26 giugno 2014.
Depositato in Cancelleria il 3 settembre 2014