Qui di seguito la motivazione integrale della sentenza della Corte di Cassazione penale sez. IV – 9 ottobre 2014 n.47289
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUARTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ZECCA Gaetanino – Presidente –
Dott. BLAIOTTA Rocco Marc – rel. Consigliere –
Dott. ZOSO Liana M.T. – Consigliere –
Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –
Dott. IANNELLO Emilio – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
S.M. N. IL (OMISSIS);
avverso la sentenza n. 2840/2011 CORTE APPELLO di BOLOGNA, del
22/10/2013;
visti gli atti, la sentenza e il ricorso;
udita in PUBBLICA UDIENZA del 09/10/2014 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. ROCCO MARCO BLAIOTTA;
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. Romano, che ha
concluso per l’inammissibilità del ricorso.
uditi i difensori avv.ti Petrillo e Passalacqua, che hanno chiesto
l’accoglimento del ricorso.
Fatto
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Il Tribunale di Rimini ha affermato la responsabilità dell’imputato in epigrafe in ordine al reato di lesioni gravi colpose in danno di C.V. e lo ha altresì condannato al risarcimento del danno nei confronti della parte civile. La pronunzia è stata confermata dalla Corte d’appello di Bologna.
All’imputato è stato mosso l’addebito di aver cagionato alla vittima, nel corso dell’esecuzione di isterectomia per via lapararoscopica, una lesione dell’uretere con conseguente formazione di una fistola dalla quale discendeva la necessità di ulteriori interventi chirurgici che comportavano lesioni personali della durata di 276 giorni e l’indebolimento permanente della parete addominale e della funzione renale.
2. Ricorre per cassazione l’imputato con un lungo atto che ripercorre diffusamente gli apprezzamenti tecnici compiuti nel corso dei giudizi di merito pervenendo a porre alcune censure. In breve, la prima attiene al fatto che nessuna dimostrazione sia stata data in ordine all’esistenza di una condotta colposa, cioè concretamente rimproverabile. Dalla verificazione dell’evento si è fatta in sostanza discende automaticamente la responsabilità, senza dimostrazione dell’esistenza di colpa. Sono state completamente trascurate le considerazioni afferenti alla circostanza che è fisiologica e non eliminabile una non trascurabile percentuale di complicanze. E si è pure erroneamente ritenuto che si fosse in presenza di un intervento di routine, senza considerare la fibromatosi dell’organo che motivava l’intervento e lo rendeva non immune da rischi che costituiscono una contingenza non del tutto eliminabile.
Oggetto di censura è pure il diniego dell’applicazione della innovazione normativa introdotta con la c.d. L. Balduzzi. La pronunzia ritiene che la disciplina sia applicabile ai soli casi di imperizia.
Orbene non è dubbio che in ogni caso, nella vicenda in esame, sarebbe eventualmente configurabile esclusivamente tale profilo di colpa. Neppure corretta è l’affermazione che la limitazione di responsabilità sia afferente ai soli casi in cui si configura una particolare difficoltà tecnica dell’atto operatorio. Nel caso di specie nessun elemento viene indicato per ritenere che si sia in presenza di colpa grave. Mentre non è dubbio che il chirurgo si sia attenuto alle accreditate linee guida nell’esecuzione dell’intervento.
3. Il reato è estinto per intervenuta prescrizione, essendo decorso il termine massimo di sette anni e sei mesi dal fatto del (OMISSIS). Nè, alla stregua delle pronunzie di merito, si configura la situazione di evidenza della prova che potrebbe determinare l’adozione di pronunzia liberatoria nel merito ai sensi dell’art. 129 c.p.p..
Le deduzioni difensive vanno dunque esaminate solo sotto i profili civilistici connessi alla condanna al risarcimento del danno nei confronti della parte civile.
4. Il ricorso è parzialmente fondato.
Il primo giudice, sulla base delle valutazioni dei periti, ha ritenuto che la lesione si verificò durante la sutura vaginale e che al riguardo si configurino due profili di colpa. Uno connesso alla erronea sutura, che determinò un’indebita pinzatura dell’uretere; e che configura una non corretta condotta chirurgica. L’altro afferente alla mancanza di un controllo postoperatorio della condizione della paziente attraverso una cistoscopia.
Il giudice d’appello ha sottoposto a compiuta revisione gli apprezzamenti tecnici dei periti e dei tre consulenti di parte. Ed ha ritenuto che su alcuni punti le conclusioni raggiunte nella prima sentenza presentino inevitabili margini di dubbio. Da un lato non è provato che l’esecuzione della cistoscopia avrebbe consentito di individuare immediatamente la lesione dell’uretere. D’altra parte, tale indagine di controllo non risulta compiuta comunemente dopo l’intervento di cui si tratta. Inoltre, per ciò che riguarda l’individuazione della causa della lesione, non è certa la sua riconducibilità all’operazione di pinzatura. Non può escludersi, sempre alla luce delle valutazioni espresse dagli esperti, tenuto conto del periodo intercorso tra l’atto chirurgico e l’insorgenza della complicanza, che la detta lesione sia la conseguenza della caduta dell’escara prodotta dall’elettrocoagulatore che impropriamente toccò l’uretere, bruciandolo.
La pronunzia ritiene, pertanto, che la colpa dell’imputato sia ravvisabile solo in relazione all’esecuzione dell’atto chirurgico, quale che sia la causa della lesione. Infatti, come ritenuto dai periti, in ogni caso si è in presenza di comportamento viziato da imperizia, negligenza ed imprudenza. Infatti la lesione presuppone un movimento anomalo dell’operatore o comunque un atto che ha comportato una lesione che normalmente non si verifica. Tale valutazione, secondo il giudice di merito, è corroborata dalla circostanza che si trattava di un intervento standardizzato, in un caso il cui non era presente alcuna delle patologie riportate in letteratura che possono aumentare il rischio di lesioni e quindi parzialmente giustificare l’errore del chirurgo. Tale valutazione è stata condivisa dallo stesso consulente dell’imputato il quale ha parlato di un caso assolutamente semplice.
La sentenza aggiunge che, come riferito dai periti, la frequenza della complicanza in questione si aggira tra lo 0,02 ed il 6%, ma essa va riferita ai casi complessi in cui, ad esempio, siano presenti neoplasie o grosse formazioni che determinano un aumento della difficoltà dell’intervento. Nel caso in esame invece non si configurava alcuna situazione problematica.
Il giudice d’appello considera inoltre che la tesi difensiva che riporta la complicanza ad una fatalità, ad un’evenienza da accettare e tale da escludere la colpa, non può essere accolta. Infatti, quale che sia l’ipotesi causale accettata, la lesione è comunque frutto di una operazione non corretta compiuta nel corso della esecuzione dell’atto chirurgico. In breve, il medico avrebbe dovuto prestare la massima attenzione nell’esecuzione della sutura vaginale ovvero nell’utilizzo dell’elettrobisturi.
La pronunzia ritiene inoltre che non è pertinente il richiamo della difesa dell’imputato alle innovazioni introdotte con la L. n. 189 del 2012. Tale normativa non è conferente rispetto al caso in esame: il chirurgo ha seguito la procedura corretta per quel semplice intervento, ma lo ha eseguito male causando il danno a causa di una errata manovra. La limitazione della responsabilità ai soli casi di colpa grave derivante da tale disciplina è comunque connessa solo a prestazioni che presentino speciali difficoltà tecniche e comunque solo all’ambito della perizia.
5. L’apprezzamento afferente alla individuazione di condotta colposa non è nel suo nucleo censurabile. In breve, il giudice di merito ha ritenuto che l’imputato abbia gestito in modo imperito lo strumentario laparoscopico, alternativamente adoperando in modo maldestro la pinzatrice, oppure gestendo in modo malaccorto l’elettrocoagulatore, sì da vulnerare l’uretere. Tale argomentato apprezzamento è immune da censure logiche o giuridiche; nè è vulnerato dalle censure difensive. Non è dubbio che molti atti medici siano gravati da complicanze di vario genere. L’espressione è tuttavia vaga ed abbisogna di una chiarificazione non tanto meramente lessicale, quanto connessa alle regole di giudizio del diritto penale in tema di causalità e di colpa. Va posto in luce che l’indicazione generica in ordine all’entità delle complicanze non chiarifica nè distingue in ordine al dato non di rado dirimente, afferente alla causa della complicanza. Si vuoi dire che in taluni casi la complicanza stessa costituisce una contingenza avversa, spesso connessa alle complesse, imponderabili ed ingovernabili interazioni che si sviluppano in ambito biomedico; che prescinde dalla presenza di condotte rimproverabili del terapeuta. In altri casi, invece, la complicanza è conseguenza di condotta non appropriata del sanitario.
In tali situazioni non interessa, in fin dei conti, conoscere in che percentuale di casi tale errore si verifichi, quanto piuttosto accertare che l’errore soggettivamente censurabile vi sia stato. La frequenza di tale accidente colposo potrà semmai rilevare ai fini della valutazione della gravità della colpa, posto che una elevata percentuale di errore è nella maggior parte dei casi connessa a difficoltà di vario genere legate all’esecuzione dell’atto medico o chirurgico.
Nel caso di specie, come si è esposto, la presenza di condotta imperita è senz’altro accertata e, dunque, non interessa più di tanto appurare quante volte essa si verifichi sul piano statistico.
Dunque, la sentenza è immune da censure per ciò che attiene alla ritenuta esistenza di colpa per imperizia.
6. La sentenza è invece da censurare per quanto riguarda la ritenuta inapplicabilità della già evocata innovazione legislativa che esonera da responsabilità il terapeuta, in caso di colpa lieve, quando egli si sia attenuto ad accreditate linee guida o ad affidabili pratiche terapeutiche.
Il tema è stato già diffusamente esaminato da questa Corte (Sez. 4, Cantore, 29/01/2013, Rv. 255105). Il non chiaro senso della normativa è stato esplicitato considerando, per risolverne l’apparente contraddittorietà, che potrà ben accadere che il professionista si orienti correttamente in ambito diagnostico o terapeutico, si affidi cioè alle strategie suggeritegli dal sapere scientifico consolidato, inquadri correttamente il caso nelle sue linee generali e tuttavia, nel concreto farsi del trattamento, commetta qualche errore pertinente proprio all’adattamento delle direttive di massima alle evenienze ed alle peculiarità che gli si prospettano nello specifico caso clinico. In tale caso, la condotta sarà soggettivamente rimproverabile, in ambito penale, solo quando l’errore sia non lieve.
Non solo. Potrà pure accadere che, sebbene in relazione alla patologia trattata le linee guida indichino una determinata strategia, le già evocate peculiarità dello specifico caso suggeriscano addirittura di discostarsi radicalmente dallo standard, cioè di disattendere la linea d’azione ordinaria. Una tale eventualità può essere agevolmente ipotizzata, ad esempio, in un caso in cui la presenza di patologie concomitanti imponga di tenere in conto anche i rischi connessi alle altre affezioni e di intraprendere, quindi, decisioni anche radicalmente eccentriche rispetto alla prassi ordinaria. Anche in tale ambito trova applicazione la nuova normativa.
Nella logica della novella il professionista che inquadri correttamente il caso nelle sue linee generali con riguardo ad una patologia e che, tuttavia, non persegua correttamente l’adeguamento delle direttive allo specifico contesto, o non scorga la necessità di disattendere del tutto le istruzioni usuali per perseguire una diversa strategia che governi efficacemente i rischi connessi al quadro d’insieme, sarà censurabile, in ambito penale, solo quando l’acritica applicazione della strategia ordinaria riveli un errore non lieve.
Evidentemente il legislatore ha divisato di avere speciale riguardo per la complessità e difficoltà dell’ars medica che, non di rado, si trova di fronte a casi peculiari e complessi nei quali interagiscono sottilmente e magari imponderabilmente diversi rischi o, comunque, specifiche rilevanti contingenze. In tali casi la valutazione ex ante della condotta terapeutica, tipica del giudizio sulla colpa, dovrà essere rapportata alla difficoltà delle valutazioni richieste al professionista: il terapeuta complessivamente avveduto ed informato, attento alle linee guida, non sarà rimproverabile quando l’errore sia lieve, ma solo quando esso si appalesi rimarchevole.
In conclusione, alla stregua della nuova legge, le linee guida accreditate operano come direttiva scientifica per l’esercente le professioni sanitarie; e la loro osservanza costituisce uno scudo protettivo contro istanze punitive che non trovino la loro giustificazione nella necessità di sanzionare penalmente errori gravi commessi nel processo di adeguamento del sapere codificato alle peculiarità contingenti.
Si è ritenuto in tale pronunzia che tale disciplina, trovi il suo terreno d’elezione nell’ambito dell’imperizia. Occorre qui aggiungere che non può tuttavia escludersi che le linee guida pongano regole rispetto alle quali il parametro valutativo della condotta dell’agente sia quello della diligenza; come nel caso in cui siano richieste prestazioni che riguardino più la sfera della accuratezza di compiti magari non particolarmente qualificanti, che quella della adeguatezza professionale.
Peraltro, nel caso in esame è senza dubbio in questione la perizia del terapeuta. E dunque già sotto questo profilo l’esclusione dell’applicazione della nuova normativa è censurabile.
Ma la sentenza è pure erronea quando enuncia che l’innovazione trova applicazione solo nei casi di particolare difficoltà. Nulla induce in tal senso. Pure a tale riguardo la richiamata sentenza Cantore ha posto enunciazioni che vanno qui solo richiamate. Si è considerato che la protezione offerta dalla nuova normativa non è illimitata.
A stregua della logica della norma, la regola d’imputazione soggettiva della sola colpa non lieve non interviene in tutte le situazioni in cui, nel corso del trattamento, vi sia stata, in qualche frangente, l’attuazione di una direttiva corroborata.
Al contrario, occorre individuare la causa dell’evento, il rischio che in esso si è concretizzato. Si richiede altresì di comprendere se la gestione di quello specifico rischio sia governata da linee guida qualificate, se il professionista si sia ad esse attenuto, se infine, nonostante tale complessivo ossequio ai suggerimenti accreditati, vi sia stato alcun errore e, nell’affermativa, se esso sia rimarchevole o meno. Naturalmente, si tratterà pure di valutare se una condotta terapeutica appropriata avrebbe avuto qualche qualificata probabilità di evitare l’evento, ma in ciò non vi è nulla di nuovo rispetto agli ordinari criteri di accertamento della colpa. In conclusione, il paradigma di accertamento e valutazione della colpa che si è sinteticamente tratteggiato seguendo la ratio della riforma non è sempre pertinente: l’indagine sulla correttezza della condotta medica potrà esulare dall’ambito segnato da accreditate direttive scientifiche. Ciò potrà senz’altro accadere quando tali direttive manchino o quando la questione di cui si discute nel processo concerna comunque un aspetto del trattamento che esuli dal tema dell’aderenza alle ridette linee guida.
Dunque, nel caso in esame, andrà preliminarmente chiarito se esistano linee guida accreditate e se esse siano state nel loro complesso seguite.
Posto tale inquadramento occorrerà verificare se il terapeuta abbia posto in essere condotta gravemente colposa che possa fondare l’addebito. Pure a tale riguardo la ridetta sentenza ha posto enunciazioni che vanno qui ribadite.
Si è considerato che il legislatore ha evidentemente utilizzato lo strumento costituito dal modellamento della colpa che si rinviene nella tradizione penalistica italiana proprio in tema di responsabilità medica; e che si riscontra pure in molti ordinamenti stranieri. Si è quindi scelto di distinguere colpa lieve e colpa grave. La nuova normativa non ha definito le due figure, nè ha tratteggiato la linea di confine tra esse; e d’altra parte non vi sono elementi per ritenere che si sia voluto far riferimento a categorie estranee alla tradizione penalistica nazionale, quale si esprime nella tradizione giuridica.
Si è rammentato che il giudizio sulla gravità della colpa non è per nulla estraneo all’esperienza giuridica penalistica. Esso è imposto dall’art. 133 c.p. che prevede che la misura della pena debba essere commisurata anche al grado della colpa, ma non fornisce alcuna indicazione sui criteri che debbono presiedere a tale delicata valutazione. La graduabilità della colpa si desume altresì dall’art. 43 c.p. e art. 61 c.p., n. 3 che configurano la colpa cosciente come un grado particolare e non come una figura autonoma di colpa. La materia è scarsamente approfondita sia in dottrina che in giurisprudenza, soprattutto a causa dell’opinione diffusa che il giudizio sulla colpa e sulla graduazione della pena sfugga ad una analisi razionale fondata su basi logiche e sia alimentato prevalentemente da valutazioni su base intuitiva, che riguardano elementi emotivi, la personalità dell’agente e l’atteggiamento nei confronti degli interessi in gioco. Ciò nonostante nella riflessione giuridica si rinvengono utili e sostanzialmente concordi indicazioni.
Si osserva che, poichè la colpa costituisce la violazione di un dovere obiettivo di diligenza, un primo parametro attinente al profilo oggettivo della diligenza riguarda la misura della divergenza tra la condotta effettivamente tenuta e quella che era da attendersi sulla base della norma cautelare cui ci si doveva attenere.
Occorrerà cioè considerare di quanto ci si è discostati da tale regola. Così, ad esempio, occorrerà analizzare di quanto si è superato il limite di velocità consentito; o in che misura si è disattesa una regola generica di prudenza. Occorrerà altresì considerare quanto fosse prevedibile in concreto la realizzazione dell’evento, quanto fosse in concreto evitabile la sua realizzazione.
Vi è poi nel grado della colpa un profilo soggettivo che riguarda l’agente in concreto. Si tratta cioè di determinare la misura del rimprovero personale sulla base delle specifiche condizioni dell’agente. Quanto più adeguato il soggetto all’osservanza della regola e quanto maggiore e fondato l’affidamento dei terzi, tanto maggiore il grado della colpa. Il quantum di esigibilità dell’osservanza delle regole cautelari costituisce fattore importante per la graduazione della colpa. Ad esempio, per restare al nostro campo, l’inosservanza di un norma terapeutica ha un maggiore disvalore per un insigne specialista che per comune medico generico.
Per contro il rimprovero sarà meno forte quando l’agente si sia trovato in una situazione di particolare difficoltà per ragioni quali, ad esempio, un leggero malessere, uno shock emotivo o un’improvvisa stanchezza.
Altro elemento di rilievo sul piano soggettivo è quello della motivazione della condotta. Come si è già accennato, un trattamento terapeutico sbrigativo e non appropriato è meno grave se compiuto per una ragione d’urgenza. Infine, un profilo soggettivo è costituito dalla consapevolezza o meno di tenere una condotta pericolosa e, quindi, dalla previsione dell’evento. Si tratta della colpa cosciente, che rappresenta la forma più prossima al dolo.
Peraltro, non sempre ed anzi di rado la valutazione della colpa è fondata su un unico indicatore. Ben spesso coesistono fattori differenti e di segno contrario. In tale caso si ritiene che il giudice debba procedere alla ponderazione comparativa di tali fattori, secondo un criterio di equivalenza o prevalenza non dissimile da quello che viene compiuto in tema di concorso di circostanze. L’analisi comparativa diviene ancora più complessa quando si presenti il concorso di colpa di più agenti o della stessa vittima. In ogni caso, la valutazione della colpa non potrà mancare di considerare la complessità e difficoltà dell’atto medico o chirurgico richiesto, ma è erroneo ritenere che la normativa esoneri da responsabilità solo in caso di speciale difficoltà del compito.
Conclusivamente il giudice, nell’escludere l’applicazione della normativa in questione ha errato quando ha ritenuto che nel caso in esame non fosse in questione la perizia del terapeuta. Ed ha errato quando ha ritenuto applicabile l’innovazione ai soli casi di speciale difficoltà.
Sotto tale riguardo la sentenza va annullata con rinvio davanti al giudice civile che si atterrà ai principi sopra indicati, apprezzando la gravità della colpa alla stregua di tutte le coordinate fattuali proprie del caso; e quindi in primo luogo (ma non solo) considerando la difficoltà della fattispecie e la misura della distanza tra la condotta tenuta e quella corretta.
P.Q.M.
Annulla nella prospettiva penale la impugnata sentenza perchè il reato addebitato è estinto per intervenuta prescrizione.
Annulla la stessa sentenza quanto alle statuizioni civili con rinvio davanti al giudice civile in grado d’appello competente per valore.
Così deciso in Roma, il 9 ottobre 2014.
Depositato in Cancelleria il 17 novembre 2014