Nell’ipotesi di annullamento di dimissioni presentate da un lavoratore subordinato – nella specie perché in stato di accertata incapacità naturale – le retribuzioni a esso spettanti vanno calcolate dalla data della sentenza che dichiara l’illegittimità dell’atto unilaterale dismissivo, atteso che l’annullamento di un negozio giuridico con efficacia retroattiva non comporta di per sé il diritto alla corresponsione delle retribuzioni maturate dalla data delle dimissioni a quella delta riammissione. Stante la natura sinallagmatica del contratto di lavoro, infatti, il diritto alla retribuzione discende necessariamente dalla prestazione dell’attività, e la possibilità del pagamento della prima, in mancanza della seconda rappresenta un’eccezione che deve essere espressamente prevista dalla legge, così come ad esempio avviene nelle ipotesi di malattia o licenziamento non sorretto da una giusta causa o da un giustificato motivo.
Lo ha ribadito la Suprema Corte di Cassazione – sezione lavoro – sentenza n. 21701 depositata il 6 settembre 2018
Il caso
La Corte d’Appello, in riforma della pronuncia del Tribunale, annullava l’atto di dimissioni dal servizio di un funzionario, ritenendo che lo stesso avesse agito in condizioni di turbamento psichico tali da impedirgli di autodeterminarsi liberamente e di apprezzare l’importanza dell’atto in relazione alle sue condizioni economiche e ai suoi rapporti familiari e sociali. Ha condannato, pertanto, l’Ente a ripristinare il rapporto di lavoro, reimmettendo in servizio il dipendente in mansioni compatibili col suo stato di salute psico-fisica e a risarcirgli il danno mediante corresponsione della retribuzione a far data dalla notifica del ricorso introduttivo di primo grado.
Avverso tale sentenza interpone ricorso per cassazione l’Ente datore di lavoro con una censura, cui resiste con tempestivo controricorso il dipendente.
Le doglianze del ricorrente
Il ricorrente non contesta la motivazione della sentenza riguardo alla sussunzione della fattispecie nell’ipotesi di cui al comma 1 dell’art. 428 cod. civ., ma ritiene che la soluzione prescelta dalla Corte d’Appello, di far retroagire gli effetti della sentenza di annullamento ai fini della corresponsione della retribuzione al momento della domanda giudiziale (dalla notifica del ricorso introduttivo), non si riveli convincente con riguardo alle norme e ai principi che regolano la disciplina del rapporto di lavoro subordinato. Così statuendo, la Corte d’Appello avrebbe erroneamente riconosciuto la sussistenza di una mora credendi per il periodo tra la domanda giudiziale di primo grado e la reimmissione in servizio del dipendente, nonostante, a seguito delle intervenute dimissioni, il rapporto di lavoro fosse estinto.
Neppure la tesi della Corte territoriale sarebbe condivisibile, là dove ha invocato il principio per il quale la durata del processo non deve mai andare a danno della parte risultata vittoriosa, in quanto non ogni effetto pregiudizievole può essere posto a carico della parte soccombente, indipendentemente dal verificarsi dei presupposti perché ciò possa essere reso possibile, come – in questo caso – la necessaria costituzione in mora del datore di lavoro.
Secondo la difesa dell’Ente, dunque, una volta accertata l’insussistenza della malafede da parte dell’Istituto, ma anche di qualsivoglia responsabilità nella determinazione del dimettersi del dipendente, appare chiaro che il datore di lavoro non potesse essere considerato responsabile dell’atto e, dunque, accollarsi l’onere del pagamento delle retribuzioni dall’inizio del processo, quasi che la causa dell’atto unilaterale dismissivo del dipendente dipendesse da un suo comportamento.
La censura viene ritenuta fondata
Gli Ermellini premettono che la sentenza gravata ha ricostruito la fattispecie nell’ambito del co. 1 dell’art. 428 cod. civ., secondo il quale “Gli atti compiuti da persona che, sebbene non interdetta, si provi essere stata per qualsiasi causa, anche transitoria, incapace d’intendere e di volere al momento in cui gli atti sono stati compiuti, possono essere annullati su istanza della persona medesima o dei suoi eredi o aventi causa, se ne risulta un grave pregiudizio all’autore” e, ammesso lo stato d’incapacità temporaneo siccome accertato dalla CTU disposta in primo grado, con riferimento al momento dell’atto dismissivo assunto come pregiudizievole, e ritenuto provato il grave pregiudizio nella perdita della fonte dì reddito e nell’alterazione dei rapporti familiari e sociali, in applicazione dell’orientamento espresso dalla Suprema Corte nella decisione n. 8886/2010, ha ritenuto che il dipendente avesse diritto alle retribuzioni maturate dalla data della domanda giudiziale.
L’orientamento richiamato dalla Suprema Corte
I giudici di piazza Cavour ritengono di dover aderire all’orientamento secondo il quale, nell’ipotesi di annullamento di dimissioni presentate da un lavoratore subordinato – nella specie perché in stato di accertata incapacità naturale – le retribuzioni a esso spettanti vanno calcolate dalla data della sentenza che dichiara l’illegittimità dell’atto unilaterale dismissivo, atteso che l’annullamento di un negozio giuridico con efficacia retroattiva non comporta di per sé il diritto alla corresponsione delle retribuzioni maturate dalla data delle dimissioni a quella delta riammissione. Stante la natura sinallagmatica del contratto di lavoro, infatti, il diritto alla retribuzione discende necessariamente dalla prestazione dell’attività, e la possibilità del pagamento della prima, in mancanza della seconda rappresenta un’eccezione che deve essere espressamente prevista dalla legge, così come ad esempio avviene nelle ipotesi di malattia o licenziamento non sorretto da una giusta causa o da un giustificato motivo (Cass. n.14438/2000; n.13045/2005, n.2261/2012; n.22063/2014).
Da qui l’accoglimento del ricorso e la cassazione della sentenza impugnata che viene decisa nel merito, con conferma della statuizione sulle dimissioni e condanna del datore di lavoro a risarcire il danno patito dal ricorrente, liquidato in misura pari alle retribuzioni maturate a decorrere dal giorno 11/10/2010, coincidente con la data della sentenza che ha dichiarato l’illegittimità delle dimissioni.
Una breve riflessione
Al centro delle riflessioni della Corte vi è la natura del sinallagma. Ne consegue che se non c’è prestazione, non ci può essere diritto alla retribuzione.
La Corte, per giustificare il principio fa riferimento alla natura eccezionale dell’ipotesi inversa, che deve essere espressamente prevista dalla legge, come accade per il licenziamento ingiustificato.
Nella fattispecie in esame è rimasto accertato una assenza di colpa in capo al lavoratore ma altresì una assenza di colpa in capo al datore di lavoro.
In conseguenza di ciò, in mancanza di una previsione derogativa del principio sinallagmatico, il diritto alle retribuzioni non può che farsi decorrere dalla data della sentenza che ha dichiarato la illegittimità delle dimissioni.
avv. Filippo Pagano (f.pagano@clouvell.com)
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