La responsabilità precontrattuale prevista dall’art. 1337 c.c., coprendo nei limiti del cosiddetto interesse negativo, tutte le conseguenze immediate e dirette della violazione del dovere di comportarsi secondo buona fede nella fase preparatoria del contratto, secondo i criteri stabiliti dagli artt. 1223 e 2056 c.c., si estende al danno per il pregiudizio economico derivante dalle rinunce a stipulare un contratto, ancorché avente contenuto diverso, rispetto a quello per cui si erano svolte le trattative, se la sua mancata conclusione si manifesti come conseguenza immediata e diretta del comportamento della controparte, che ha lasciato cadere le dette trattative quando queste erano giunte al punto di creare un ragionevole affidamento nella conclusione positiva di esse.
Lo ha affermato la Suprema Corte di Cassazione – sezione seconda civile – con sentenza n. 4718 del 10 marzo 2016
Abbandono delle trattative affidanti e responsabilità precontrattualeIl caso
Con atto di citazione una società immobiliare deduceva che nel novembre del 1999 aveva incaricato una agenzia immobiliare di vendere o dare in locazione un immobile a destinazione industriale. L’incaricato aveva indicato come interessato all’acquisto il socio di una società, sicché si avviavano le trattative e il 16 dicembre 1999 quest’ultimo aveva richiesto la sottoscrizione di una proposta irrevocabile di vendita in proprio favore.
Il 18 gennaio 2000 l’amministratore dell’attrice aveva provveduto a cancellare l’ipoteca iscritta sull’immobile a garanzia di un debito pregresso e incaricato due professionisti dell’esecuzione delle operazioni necessarie per l’accatastamento e il frazionamento del bene. All’incontro fissato avanti al notaio per il 3 febbraio 2000 però il promissario acquirente non si era presentato. Tanto premesso, l’Immobiliare domandava che i convenuti fossero condannati al risarcimento del danno.
Le difese dei convenuti
I convenuti si costituivano. Il socio eccepiva di essere intervenuto nelle trattative solo quale rappresentante della società e rilevava di aver scoperto casualmente l’esistenza dell’ipoteca, affermando, altresì, che l’immobile non era conforme agli standard urbanistici necessari per svolgere l’attività commerciale. La società, oltre a prospettare le medesime circostanze allegate dal proprio legale rappresentante, eccepiva che il socio non aveva mai inteso sottoscrivere alcun contratto preliminare, che la proposta di vendita non aveva natura irrevocabile e che non era mai stata stabilita la data del rogito o della consegna del bene. Precisava che l’immobile era classificato catastalmente D7, in quanto utilizzato per vendita di ceramiche e che era preclusa alcuna immediata utilizzazione alternativa dello stesso per lo svolgimento di attività commerciali.
La sentenza di primo grado
Il Tribunale, con sentenza del 14 ottobre 2004, respingeva la domanda, rilevando che il socio aveva partecipato alla trattativa come rappresentante della società e che quest’ultima era bensì receduta dalle trattative, ma lecitamente.
L’atto di appello
La sentenza era appellata dalla Immobiliare e in esito al giudizio di impugnazione, in cui si costituivano sia il socio che la società, la Corte di appello di Venezia, in parziale riforma della sentenza gravata, condannava la società al pagamento della somma di € 25.822,84, oltre interessi legali.
La sentenza di appello
La corte veneta riteneva che la società appellante avesse confidato nel buon esito delle trattative, indipendentemente dal fatto che fosse stato stabilito il prezzo della compravendita, o che fossero stati discussi tutti gli elementi dell’accordo; rilevava inoltre: che il socio era venuto in possesso delle planimetrie e delle schede catastali dell’immobile, di cui conosceva, quindi, la destinazione industriale; che il vincolo amministrativo costituito dalla rilevante parte della superficie da destinare a parcheggio pubblico risultava dalle norme tecniche di attuazione allegate al piano regolatore generale del Comune; che non era rilevante che la Immobiliare avesse mancato di comunicare alla controparte il vincolo amministrativo, posto che quest’ultima era a conoscenza della consistenza catastale e della classificazione del bene. Da qui il ricorso per cassazione.
I primi due motivi di ricorso
Col primo motivo di ricorso la società promissaria acquirente denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1337 e 1338 c.c., nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione della sentenza circa un punto decisivo della controversia. La corte di merito, secondo la ricorrente, aveva ritenuto la mancanza di giusta causa del recesso dalle trattative senza valutare se queste fossero giunte a un punto tale da aver ingenerato nell’altra parte il ragionevole affidamento sulla futura conclusione del contratto. Infatti, la motivazione spesa risultava carente, incongrua e contraddittoria, non potendosi ritenere che la controparte avesse confidato nella conclusione del contratto in assenza di un accordo sul prezzo, nonché sullo stato e sulle modalità di consegna dell’immobile: e ciò anche in considerazione delle perplessità che i tecnici di parte acquirente avevano manifestato in merito all’effettiva idoneità del bene rispetto alla destinazione commerciale che lo doveva riguardare. Inoltre la sentenza nulla aveva argomentato in ordine alla sussistenza del giustificato motivo che poteva sorreggere il recesso dalle trattative.
Col secondo motivo è lamentata la violazione e falsa applicazione dell’art. 116 c.p.c., nonché l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia. La corte distrettuale aveva sovvertito la decisione assunta dal tribunale senza fornire adeguata motivazione circa la diversa valutazione dei fatti e dei riscontri probatori. Il giudice di prime cure aveva infatti rilevato che al momento della trattativa il piano regolatore generale identificava la zona ove insisteva l’immobile come D2/1 zona degli insediamenti commerciali e annonari – mentre l’art. 19 delle norme tecniche di attuazione dello stesso piano regolatore ammetteva il cambio di destinazione d’uso a condizione che la relativa unità immobiliare venisse dotata di area di parcheggio pubblico pari all’80% della superficie utile dell’unità stessa: per modo che l’aspirante acquirente avrebbe dovuto sostenere oneri economici significativi quanto alle opere di urbanizzazione primaria e secondaria. La ricorrente ha sottolineato che il tribunale aveva fornito una convincente e logica motivazione anche in relazione alle risultanze istruttorie per escludere la responsabilità precontrattuale di essa ricorrente, mentre la corte di Venezia, nel riformare la decisione impugnata, si era limitata a formulare semplici presunzioni, senza tener conto delle deposizioni e della relazione del consulente tecnico d’ufficio.
Le ragioni della decisione
Secondo gli Ermellini, il recesso delle trattative può essere causa di responsabilità precontrattuale quando sia privo di giustificato motivo. Perché, in tal caso, possa ritenersi integrata la responsabilità precontrattuale, è necessario:
- che tra le parti siano in corso trattative;
- che le trattative siano giunte ad uno stadio idoneo a far sorgere nella parte che invoca l’altrui responsabilità il ragionevole affidamento sulla conclusione del contratto;
- che la controparte, cui si addebita la responsabilità, le interrompa senza un giustificato motivo;
- che, infine, pur nell’ordinaria diligenza della parte che invoca la responsabilità, non sussistano fatti idonei ad escludere il suo ragionevole affidamento nella conclusione del contratto.
La verifica della ricorrenza di tutti i suddetti elementi, risolvendosi in un accertamento di fatto, è demandato al giudice di merito ed è incensurabile in sede di legittimità se adeguatamente motivato (Cass. 29 marzo 2007, n. 7768; Cass. 18 giugno 2004, n. 11438; in senso sostanzialmente conforme, Cass. 14 febbraio 2000, n. 8 Corte di Cassazione – copia non ufficiale 1632).
Secondo i giudici di legittimità, che la corte di merito non abbia preso in considerazione il dato dell’avanzamento della trattativa, e che abbia quindi trascurato di considerare che la stessa si trovasse in uno stadio tale da ingenerare nell’odierna controricorrente il legittimo affidamento circa la conclusione del contratto, è evenienza da escludere, visto che nella sentenza impugnata si sottolinea come il recesso sia stato posto in atto appena due giorni prima dell’incontro fissato col notaio per il rogito: l’appuntamento presso il professionista era stato infatti programmato per il perfezionamento del contratto di compravendita. Né coglie nel segno – proseguono gli Ermellini – il rilievo per cui l’affidamento nel buon esito della trattativa non avrebbe potuto coltivarsi in assenza di un accordo sul prezzo e “sullo stato e sulle modalità di consegna dell’immobile, anche in considerazione delle perplessità che i tecnici di parte acquirente avevano manifestato in merito all’effettiva idoneità del bene all’attività commerciale che la società, potenziale acquirente, si prefiggeva di svolgervi”.
Quando le trattative possono considerarsi affidanti.
Secondo i giudici di legittimità, perché le trattative possano considerarsi affidanti è necessario che nel corso di esse le parti abbiano preso in considerazione almeno gli elementi essenziali del contratto, come la natura delle prestazioni o l’entità dei corrispettivi (Cass. 13 marzo 1996, n. 2057; Cass. 25 febbraio 1992, n. 2335; Cass. 30 marzo 1990, n. 2623): ciò implica, ad esempio, che la misura del compenso sia stata oggetto di una determinazione pure approssimativa (cfr., in motivazione, Cass. 13 marzo 1996, n. 2057 cit.). Nella specie, la sentenza non contiene affermazioni nel senso che, in concreto, l’oggetto del trasferimento e l’entità, pure approssimativa, del corrispettivo abbiano mancato di essere presi in considerazione dalle parti nel corso delle trattative. La corte distrettuale ha anzi evidenziato come fosse stata raggiunta un’intesa sul prezzo, menzionando, in proposito, la deposizione di un testimone. L’oggetto della prestazione (l’immobile) era stato poi individuato fin dall’inizio della trattativa, con la proposta irrevocabile, e, di certo, sulla sua definizione non potevano incidere gli elementi che condizionavano la destinazione dell’insediamento allo svolgimento dell’attività che l’odierna ricorrente intendeva svolgervi.
Per quanto concerne il profilo afferente i motivi atti a giustificare il recesso dalle trattative, le corte di merito ha ampiamente chiarito come essi fossero insussistenti. Ha evidenziato, in particolare: che il legale rappresentante dell’odierna ricorrente era venuto in possesso delle planimetrie e delle schede catastali dell’immobile; che lo stesso sapeva che l’immobile aveva una destinazione industriale speciale; che il vincolo amministrativo costituito dalla rilevante parte della superficie da destinare a parcheggio pubblico emergeva dalle norme tecniche di attuazione allegate al piano regolatore generale del Comune, e quindi da disposizioni conosciute o agevolmente conoscibili; che la mancata comunicazione del vincolo amministrativo risultava irrilevante una volta che l’acquirente, che era ovviamente a conoscenza della finalità dell’operazione, aveva appreso quale fosse il bene oggetto della trattativa e quale fosse la sua consistenza catastale e la sua classificazione. Tali argomentazioni – secondo i giudici di piazza Cavour – appaiono congrue ed esaurienti, tenuto anche conto che la parte che intraprenda contrattazione per l’acquisto di un immobile ha l’onere di verificare la rispondenza di esso rispetto alla destinazione che si prefigga di imprimergli e il recesso dalla negoziazione determinato dalla verifica delle condizioni necessarie per attuare quella destinazione non esclude la responsabilità precontrattuale di cui all’art. 1337 c.c. ove le trattative siano pervenute ad uno stadio tanto avanzato da radicare nell’altra il ragionevole affidamento circa la conclusione dell’affare.
Non può d’altra parte la ricorrente – proseguono ancora gli Ermellini – pretendere un diverso apprezzamento delle risultanze su cui è stata fondata la decisione del giudice del gravame. Infatti, il ricorso per cassazione conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale, ma solo la facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllarne l’attendibilità e la concludenza e di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge (Cass. 4 novembre 12 Corte di Cassazione – copia non ufficiale 2013 n. 24679; Cass. 16 novembre 2011, n. 27197; in senso sostanzialmente conforme, Cass. 6 aprile 2011, n. 7921). I primi due motivi risultano quindi infondati.
Gli ulteriori motivi di ricorso
Il terzo motivo di impugnazione censura la sentenza per violazione e falsa applicazione degli artt. 1326 e 1337 c.c., nonché per omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia. La corte di appello – a detta della ricorrente – aveva impropriamente valorizzato la dichiarazione sottoscritta il 16 dicembre 1999 dal legale rappresentante della società promittente venditrice, con cui era espresso l’impegno di quest’ultima società in ordine alla cessione dell’immobile alla promissaria acquirente. La detta dichiarazione, infatti, valeva quale proposta e, come tale, necessitava dell’accettazione dell’altra parte.
La mancata conclusione del contratto non esclude la responsabilità precontrattuale.
Per i giudici di piazza Cavour la censura va disattesa atteso che la mancata accettazione della proposta formulata dall’odierna controricorrente comporta che il contratto non si sia concluso, ma quest’ultima circostanza non vale ad escludere la responsabilità precontrattuale dell’odierna ricorrente per il suo recesso ingiustificato dalle trattative, che – come si è visto – erano pervenute ad uno stadio avanzato.
Il quarto motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 1337 c.c., nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia. La corte territoriale aveva liquidato il danno della misura di £ 50.000.000, senza considerare che i documenti comprovanti i preavvisi di parcella del tecnico e del fiscalista, i quali avrebbero dovuto documentare i maggiori esborsi sostenuti dalla controparte per la conclusione dell’affare, non comprovavano l’avvenuto pagamento delle somme ivi documentate; né la corte – secondo la ricorrente – aveva fornito alcuna motivazione in relazione al nesso di causalità tra i predetti esborsi e la conclusione del contratto.
Il pregiudizio patrimoniale suscettibile di ristoro.
Per gli Ermellini, nemmeno tale censura merita accoglimento. Difatti, il pregiudizio patrimoniale suscettibile di ristoro, in caso di responsabilità precontrattuale, comprende tanto le spese inutilmente sostenute in relazione alle trattative, quanto la perdita subita dalla parte per non aver usufruito delle occasioni presentatesi nel corso delle trattative, di stipulare un altro contratto. Il primo pregiudizio – che integra un danno emergente – si configura anche nell’ipotesi in cui abbia luogo la semplice contrazione dì un impegno di spesa, dal momento che l’assunzione del debito nei confronti del terzo incide negativamente sulla sfera del soggetto che si è obbligato, riducendo la consistenza del patrimonio di questo per effetto del sovvenire di una nuova passività.
La nozione di “perdita subita” ex art. 1223 c.c.
Secondo i giudizi di piazza Cavour, infatti, in tema di liquidazione del danno, la locuzione “perdita subita”, con la quale l’art. 1223 c.c. individua il danno emergente, non può essere considerata indicativa dei soli esborsi monetari o di diminuzioni patrimoniali già materialmente intervenuti, ma include anche l’obbligazione di effettuare l’esborso, in quanto il vinculum iuris, nel quale l’obbligazione stessa si sostanzia, costituisce già una posta passiva del patrimonio del danneggiato, consistente nell’insieme dei rapporti giuridici, con diretta rilevanza economica, di cui una persona è titolare (Cass. 10 novembre 2010, n. 22826). La deduzione secondo cui la corte di appello – prosegue la Corte regolatrice – non avrebbe fornito alcuna valida motivazione del nesso di causalità tra le “potenziali spese” e “l’eventuale conclusione del contratto” non appare poi conferente, visto che il diritto al risarcimento dipende dall’inerenza dell’attività svolta dai professionisti, con la conseguente remunerazione, alla trattativa da cui la ricorrente recedette: inerenza che non è dedotto sia stata specificamente contestata nel corso del giudizio di merito e che comunque la corte territoriale risulta aver accertato, avendo affermato, in sentenza, che l’importo riconosciuto come risarcimento è “pari alle spese sostenute in pendenza delle trattative”, per tali dovendosi evidentemente intendere quelle sopportate in conseguenza della negoziazione poi interrotta.
Il primo motivo del ricorso incidentale
Con il primo motivo di ricorso incidentale è lamentata la violazione falsa applicazione degli artt. 1337 e 1223 c.c., nonché motivazione omessa, insufficiente e contraddittoria circa un punto decisivo della controversia. La censura investe il mancato riconoscimento del danno commisurato ai canoni di locazione che la controricorrente avrebbe potuto percepire da terzi se la trattativa non fosse stata avviata: mancato riconoscimento che trova fondamento nell’affermazione secondo cui il pregiudizio da ristorare doveva essere omogeneo a quello effettivamente sofferto e riferito, quindi, alla perdita di un’occasione di vendita.
La Suprema Corte ritiene il motivo fondato.
Secondo i giudici di legittimità, il giudice distrettuale ha inteso escludere il risarcimento del danno commisurato ai canoni che sarebbero maturati per effetto della stipula della locazione sulla scorta del solo rilievo per cui il risarcimento dovuto ex art. 1337 c.c. non poteva ricomprendere il lucro cessante derivante dalla mancata stipula di un contratto diverso da quello di compravendita, per cui era intercorsa la trattativa. Così facendo – proseguono gli Ermellini – non ha tenuto conto del principio secondo cui la responsabilità precontrattuale prevista dall’art. 1337 c.c., coprendo nei limiti del cosiddetto interesse negativo, tutte le conseguenze immediate e dirette della violazione del dovere di comportarsi secondo buona fede nella fase preparatoria del contratto, secondo i criteri stabiliti dagli artt. 1223 e 2056 c.c., si estende al danno per il pregiudizio economico derivante dalle rinunce a stipulare un contratto, ancorché avente contenuto diverso, rispetto a quello per cui si erano svolte le trattative, se la sua mancata conclusione si manifesti come conseguenza immediata e diretta del comportamento della controparte, che ha lasciato cadere le dette trattative quando queste erano giunte al punto di creare un ragionevole affidamento nella conclusione positiva di esse (Cass. 12 marzo 1993, n. 2973).
In conseguenza dell’accoglimento di tale motivo del ricorso incidentale, rigettato il secondo motivo, la Suprema Corte cassa la sentenza impugnata demandando al giudice di rinvio la decisione in ordine alla spettanza dell’ulteriore risarcimento domandato, dovendosi conformare al seguente
principio di diritto:
“La responsabilità precontrattuale prevista dall’art. 1337 c.c., coprendo nei limiti del cosiddetto interesse negativo, tutte le conseguenze immediate e dirette della violazione del dovere di comportarsi secondo buona fede nella fase preparatoria del contratto, secondo i criteri stabiliti dagli artt. 1223 e 2056 c.c., si estende al danno per il pregiudizio economico derivante dalle rinunce a stipulare un contratto, ancorché avente contenuto diverso, rispetto a quello per cui si erano svolte le trattative, se la sua mancata conclusione si manifesti come conseguenza immediata e diretta del comportamento della controparte, che ha lasciato cadere le dette trattative quando queste erano giunte al punto di creare un ragionevole affidamento nella conclusione positiva di esse“.
Una breve riflessione
Leggendo la motivazione della sentenza in rassegna si noterà come linea di confine tra la responsabilità precontrattuale – fonte di obblighi – e la mancata conclusione del contratto – espressione del principio di libertà di autodeterminazione – sia costituita da un filo sottilissimo. La linea di confine, più precisamente, va individuata in relazione al punto fino al quale si erano spinte le trattative: se queste erano giunte al punto da creare un ragionevole affidamento nella conclusione positiva di esse, ci troviamo di fronte ad una ipotesi di responsabilità precontrattuale; se, viceversa, esse non erano giunte a tal punto, ci troviamo al di fuori dell’area della responsabilità precontrattuale ed esattamente, nell’alveo della libertà di autodeterminazione che esclude, per ciò solo, qualsiasi responsabilità in capo alla parte che non ha voluto contrarre.
Nei fatti, comunque, tale confine, a volte, non sempre risulta di facile individuazione, proprio come è accaduto nella fattispecie portata alla cognizione dei giudici di cassazione: il Tribunale aveva escluso una ipotesi di responsabilità precontrattuale mentre la Corte di appello non era stato del medesimo avviso ribaltando parzialmente la sentenza di primo grado.
Resta pertanto da dire che, a fronte di tale incertezza pratica, ciascuna parte dovrà, quanto più possibile, affidarsi ai principi di correttezza e buona fede, evitando che il proprio comportamento possa ingenerare nella controparte l’affidamento (ragionevole) sul buon esito delle trattative, se vuole evitare di trovarsi a dover pagare i danni cagionati. Danni che, come si può rilevare dal principio di diritto enunciato, non sono limitati al tipo di contratto che non si è stipulato, ma anche alle rinunce a stipulare eventuali contratti diversi.
avv. Filippo Pagano (f.pagano@clovell.com)
managing partner at clouvell (www.clouvell.com)