Qui di seguito la motivazione integrale della sentenza della Suprema Corte di Cassazione civile sezione lavoro 6 novembre 2014 n. 23669
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE – SEZIONE LAVORO – Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. MACIONE Luigi – Presidente – Dott. DE RENZIS Alessandro – Consigliere – Dott. MAISANO Giulio – Consigliere – Dott. BERRINO Umberto – Consigliere – Dott. ARIENZO Rosa – rel. Consigliere – ha pronunciato la seguente: sentenza sul ricorso 4949/2014 proposto da: BANCA DEI COLLI EUGANEI – CREDITO COOPERATIVO – LOZZO ATESTINO SOCIETA’ COOPERATIVA C.F. (OMISSIS), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, L.G. FARAVELLI 22, presso lo studio dell’avvocato MARESCA ARTURO, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati DI STEFANO ALESSANDRO, FERRANTE STEFANO, giusta delega in atti; – ricorrente – contro S.E. C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CRESCENZIO 58, presso lo studio dell’avvocato COSSU BRUNO, che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati PICCININI ALBERTO, RUSCONI FABIO, giusta delega in atti; – controricorrente – avverso la sentenza n. 817/2013 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA, depositata il 19/12/2013 r.g.n. 875/2013; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 24/09/2014 dal Consigliere Dott. ROSA ARIENZO; uditi gli Avvocati MARESCA ARTURO e FERRANTE STEFANO; uditi gli Avvocati COSSU BRUNO e PICCININI ALBERTO; udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MATERA Marcello, che ha concluso per il rigetto del ricorso.
Fatto
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza non definitiva del 18.12.2013, la Corte di appello di Venezia accoglieva il reclamo proposto da S.E. e, in riforma della sentenza impugnata, annullava il licenziamento intimato al predetto il 31.7.2012 ai sensi della L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 4, come novellato dalla L. n. 92 del 2012, e condannava la Banca reclamata a reintegrare il reclamante nel posto di lavoro, disponendo la prosecuzione del giudizio sulla domanda di risarcimento dei danni.
Rilevava la Corte che dal contenuto della lettera di contestazione del 19.7.2012 risultava che al Direttore della filiale di (OMISSIS) erano contestate condotte consistenti nell’incaricare abitualmente i dipendenti della filiale di fare la spesa per il direttore durante l’orario di lavoro e di timbrare l’entrata in servizio a nome dello stesso, nell’incaricare ripetutamele di acquistare il pesce in un Comune vicino durante l’orario di lavoro e nell’avere fornito ad un addetto della filiale password e chiavi di accesso alla filiale, ossia comportamenti continuati e divenuti abituali, posti in essere dal momento dell’assegnazione alla filiale fino a quello della contestazione, per quanto atteneva agli incarichi di fare la spesa e di timbrare il cartellino, consistenti pertanto in condotte ripetute, ed in un comportamento caratterizzato dalla permanenza per quanto riguardava l’affidamento stabile ad altro dipendente di password e chiavi. Osservava che la contestazione aveva riguardo ad un “modus operandi” del direttore che denotava un atteggiamento perdurante ed attuale di grave scorrettezza ed inadempienza nella gestione dell’ufficio e che, solo intesa in questi termini la condotta contestata, poteva ritenersi che la contestazione avesse ad oggetto comportamenti sufficientemente individuati e non generici come ritenuti dal reclamante, posto che, se la Banca avesse avuto riguardo a singoli episodi riferiti ad alcune occasioni, sarebbe stato necessario precisare in quanti casi si erano verificati i fatti ed in quali e quante giornate lo S. avesse conferito gli incarichi contestatigli. Alla luce di tale premesse, osservava che i testimoni esaminati nella fase ordinaria del giudizio avevano riferito fatti riguardanti il momento in cui la Banca era venuta a conoscenza degli stessi, ma nessuno di essi era stato in grado di riferire per conoscenza diretta delle condotte imputate al Direttore, a ciò dovendo aggiungersi la scarsa attendibilità del testimone M., che aveva indicato persone coinvolte nelle vicende in contestazione che, tuttavia, non avevano confermato i fatti. Altri testi si erano limitati a confermare le dichiarazioni già rese nella fase sommaria come informatori, ma non erano stati acquisiti in giudizio elementi di fatto ulteriori che giustificassero una lettura delle risultanze istruttorie diverse da quella eseguita nell’ordinanza, che aveva rilevato discordanza degli elementi emersi, per essere stato il testimone D. addetto alla filiale solo fino ad una certa data ed avere il teste T. dichiarato di non essere in grado di specificare il periodo in cui registrava le presenze dello S., e non essendo emersi elementi di riscontro dai tabulati delle telefonate asseritamente intercorse tra i due.
Allo stesso modo anche i testi F. e R. non avevano fornito elementi a sostegno della tesi della Banca, atteso che l’istruttoria svolta aveva escluso la commissione delle condotte come contestate, ossia con riferimento ai connotati dell’abitualità che le rendeva più gravi rispetto ad una condotta occasionale, quale era quella emersa dalle prove espletate, che non era idonea a giustificare la massima sanzione disciplinare. Non erano, poi, emersi elementi idonei a confortare la natura disciplinare del licenziamento irrogato, nè poteva conferirsi rilevanza alle prove riproposte in appello, disattese dai giudice di primo grado, in assenza di specifica censura avverso le ragioni per le quali l’istanza era stata respinta, ovvero avverso l’omissione di pronuncia al riguardo. Il reclamante veniva, alla stregua di tali considerazioni, reintegrato nel posto di lavoro e, per la determinazione del risarcimento, veniva disposta la prosecuzione del giudizio.
Per la cassazione di tale decisione ricorre la Banca, affidando l’impugnazione a sei motivi, illustrati nella memoria depositata ai sensi dell’art. 378 c.p.c., cui resiste, con controricorso, lo S., il quale espone ulteriormente con memoria le proprie difese.
Diritto
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo, la Banca ricorrente denunzia omesso esame circa fatti decisivi per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, assumendo che non sia stato riportato nella sentenza gravata il testo integrale della contestazione disciplinare e che la Banca aveva contestato non un modus operandi, bensì diverse condotte differenziate le une dalle altre, aventi ciascuna autonomo rilievo disciplinare, e che la motivazione secondo cui solo se intesa nel primo senso la contestazione poteva ritenersi non generica era meramente apparente, in quanto, per consolidato orientamento giurisprudenziale, la regola della specificità della contestazione non imponeva l’indicazione del giorno e dell’ora in cui i fatti erano compiuti. Peraltro, non vi era nella contestazione alcun riferimento ad un affidamento stabile e definitivo della password, od anche all’incarico ripetuto di acquistare il pesce nel Comune vicino alla filiale, e la Corte aveva omesso di valutare dichiarazioni telefoniche e scritte degli informatori, confermate in istruttoria con riguardo a quanto verbalizzato nella fase sommaria.
Con il secondo motivo, la ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, della L. n. 300 del 1970, art. 7, sostenendo che la Corte d’appello non ha tenuto conto di tutti i fatti contestati come cristallizzati nella contestazione disciplinare, ma ha dato rilievo al modus operandi di cui non vi era traccia nella contestazione disciplinare.
Con il terzo motivo, la società si duole della violazione e falsa applicazione dell’art. 112 disp. gen., dell’art. 1362 c.c., artt. 115 e 116 c.p.c., artt. 2104 e 2119 c.c., L. n. 604 del 1966, art. 1 e L. n. 300 del 1970, art. 18, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, evidenziando la erronea individuazione del fatto contestato dalla Banca, che consisteva in diversi addebiti, ciascuno caratterizzato da autonomo rilievo disciplinare.
Il quarto motivo contiene la denunzia di violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., per essere la Corte del merito incorsa nel vizio di ultrapetizione. Nello stesso si assume che la Corte ha posto a fondamento del proprio giudizio non solo argomentazioni mai spiegate dalla difesa del ricorrente, ma un elemento materiale diverso (complessivo abituale e continuato modus operandi).
Omissione di pronuncia e di decisione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4, ed in riferimento alla violazione dell’art. 112 c.p.c. e L. n. 604 del 1966, art. 3, sulla domanda di derubricazione del licenziamento per giusta causa in licenziamento per giustificato motivo soggettivo viene ascritta, con il quinto motivo, alla decisione impugnata.
Infine, con il sesto motivo, la Banca lamenta la violazione e la falsa applicazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, della L. n. 300 del 1970, art. 18, commi 4 e 5. Osservando che il giudice, accertata l’insussistenza totale ed assoluta del fatto contestato, avrebbe potuto rilevare quanto meno la sussistenza parziale del fatto che giustificava la condanna all’indennità risarcitoria omnicomprensiva tra un minimo di 12 ed un massimo di 24 mensilità.
Il ricorso è infondato.
In ordine al primo motivo, è sufficiente osservare che l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, riformulato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, applicabile nella specie ratione temporis, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (cfr., in tali termini, Cass. s. u. 8053/2014).
Peraltro, è necessario considerare che la previa contestazione dell’addebito, necessaria in funzione di tutte le sanzioni disciplinari, ha lo scopo di consentire al lavoratore l’immediata difesa e deve conseguentemente rivestire il carattere della specificità, che è integrato quando sono fornite le indicazioni necessarie ed essenziali per individuare, nella sua materialità, il fatto o i fatti nei quali il datore di lavoro abbia ravvisato infrazioni disciplinari o comunque comportamenti in violazione dei doveri di cui agli artt. 2104 e 2105 cod. civ.. L’accertamento relativo al requisito della specificità della contestazione costituisce oggetto di un’indagine di fatto, incensurabile in sede di legittimità, salva la verifica di logicità e congruità delle ragioni esposte dal giudice di merito, (cfr. Cass. 30.3.2006 n. 7546, nella quale la S.C. ha confermato la sentenza impugnata che aveva motivatamente riscontrato nella lettera di contestazione una esposizione troppo generica di comportamenti qualificati negativamente, senza una concreta indicazione degli stessi, che consentisse al lavoratore di difendersi adeguatamente).
La ricostruzione del materiale probatorio è, in ogni caso, anche congruamente motivata, essendo stato rilevato come le deposizioni rese non rivestissero valore decisivo ai fini della prova dell’abitualità della condotta, essendo in parte contraddittorie ed in parte riferite a periodi limitati che non consentivano di ritenere la conoscenza diretta, da parte di ciascun testimone escusso, delle circostanze di fatto, non confortate da prove documentali, quali tabulati delle telefonate con le quali, in alcune occasioni, sarebbero stati conferiti incarichi ai dipendenti, in dispregio delle regole disciplinanti la condotta dei lavoratori nell’orario di lavoro e per finalità esulanti del tutto da quelle di adempimento dell’attività lavorativa.
Il motivo è anche inammissibile per carenza di interesse, non essendo stata censurata la decisione nella parte in cui ha ritenuto che, ove la contestazione non avesse avuto ad oggetto il comportamento abituale ma singoli episodi, la stessa era da ritenere generica e tardiva e, comunque, priva della deduzione degli elementi materiali di una condotta idonea a costituire giusta causa di licenziamento.
Nella specifica fattispecie, deve, invero, rilevarsi che la Corte territoriale ha anche motivato in tale senso, sicchè ricorre nella specie una doppia ratio decidendi. Rispetto a tale duplicità di rationes, l’impugnazione è stata avanzata con riguardo soltanto ad una delle argomentazioni svolte, onde il motivo deve ritenersi inammissibile. Al riguardo deve, invero, richiamarsi quanto in più pronunzie affermato dalla giurisprudenza di questa Corte, enunciando il principio secondo il quale, nel caso in cui venga impugnata con ricorso per cassazione una sentenza (o un capo di questa) che si fondi su più ragioni, tutte autonomamente idonee a sorreggerla, è necessario, per giungere alla cassazione della pronuncia, non solo che ciascuna di esse abbia formato oggetto di specifica censura, ma anche che il ricorso abbia esito positivo nella sua interezza con l’accoglimento di tutte le censure, affinchè si realizzi lo scopo proprio di tale mezzo di impugnazione, il quale deve mirare alla cassazione della sentenza, “in toto” o nel suo singolo capo, per tutte le ragioni che autonomamente l’una o l’altro sorreggano. Ne consegue che è sufficiente che anche una sola delle dette ragioni non abbia formato oggetto di censura, ovvero, pur essendo stata impugnata, sia respinta, perchè il ricorso o il motivo di impugnazione avverso il singolo capo di essa, debba essere respinto nella sua interezza, divenendo inammissibili, per difetto di interesse, le censure avverso le altre ragioni poste a base della sentenza o del capo impugnato (cfr., in tal senso, Cass. sez. lav., 18.5.2006 n. 11660; Cass. 8.8.2005 n. 16602; Cass. 8.2.2006 n. 2811;
Cass. 22.2.2006 n. 3881; Cass. 20.4.2006 n. 9233; Cass. 8.5.2007 n. 10374; Cass. sez. 1^ 14.6.2007 n. 13906, conf. a Cass., sez. un. 16602/2005).
In ogni caso, l’omesso esame viene dedotto in relazione ad una contestazione di addebiti comunque esaminata (si assume in ricorso che l’esame circa una contestazione difforme equivalga all’omesso esame circa quest’ultima) e la censura investe la ricostruzione ermeneutica dell’atto negoziale compiuta dal giudice di merito, preclusa alla Corte di legittimità.
In ordine al secondo motivo – per il quale valgono le considerazioni già svolte in ordine al primo – occorre aggiungere che l’interpretazione della contestazione nei sensi precisati dalla Corte rende evidente che l’atto non rispondeva ai requisiti della specificità se inteso nel senso indicato dalla ricorrente, sicchè non era idonea a giustificare la sanzione disciplinare irrogata e che, nella prospettiva di una conservazione dell’atto di contestazione – favorevole, peraltro, alla posizione della datrice di lavoro -, doveva accedersi alla interpretazione dello stesso nel senso d4fabitualità dei comportamenti contestati in modo generico.
Quanto al terzo motivo di impugnazione, l’art. 12 preleggi è impropriamente richiamato, dettando i canoni ermeneutici relativi alla sola legge e non anche agli atti negoziali, come la contestazione disciplinare, e, per il resto, le censure con lo stesso formulate rifluiscono nei rilievi di cui al motivo sub 1, che non sono idonei a configurare valido motivo di impugnazione ai sensi della nuova formulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5.
Vero è che in tema di licenziamento per giusta causa, quando vengano contestati al dipendente diversi episodi rilevanti sul piano disciplinare, pur dovendosi escludere che il giudice di merito possa esaminarli atomisticamente, attesa la necessaria considerazione della loro concatenazione ai fini della valutazione della gravità dei fatti, non occorre che l’esistenza della “causa” idonea a non consentire la prosecuzione del rapporto sia ravvisabile esclusivamente nel complesso dei fatti ascritti, ben potendo il giudice – nell’ambito degli addebiti posti a fondamento del licenziamento dal datore di lavoro – individuare anche solo in alcuni o in uno di essi il comportamento che giustifica la sanzione espulsiva, se lo stesso presenti il carattere di gravità richiesto dall’art. 2119 cod. civ. (cfr. Cass. 30.5.2014 n. 12195, Cass. 31.10.2013 n. 14574, Cass. 2.2.2009, n. 2579).
Tuttavia, per le considerazioni esposte, ciascun addebito è stato dal giudice dei gravame ritenuto di per sè insufficiente ad integrare una contestazione autonomamente valutabile in termini di specificità dell’addebito.
Anche il quarto motivo si appunta su rilievi riguardanti l’estensione della contestazione e presuppone, perchè possa individuarsi un interesse allo stesso, che possa conferirsi validità alla contestazione formulata con riguardo ai singoli addebiti, una volta esclusa la possibilità di interpretazione del comportamento del datore come riferito a condotte abituali, circostanza da escludere alla stregua delle argomentazioni già svolte.
Inoltre, il principio invocato della corrispondenza del chiesto al pronunciato non osta ad una ricostruzione dei fatti autonoma. Ed invero, siffatta corrispondenza, che vincola il giudice ex art. 112 cod. proc. civ. riguarda il “petitum” che va determinato con riferimento a quello che viene domandato sia in via principale che in via subordinata, in relazione al bene della vita che l’attore intende conseguire, ed alle eccezioni che in proposito siano state sollevate dal convenuto. Tuttavia, tale principio, così come quello del “tantum devolutum quantum appellatum” (artt. 434 e 437 cod. proc. civ.), non osta a che il giudice renda la pronuncia richiesta in base ad una ricostruzione dei fatti autonoma, rispetto a quella prospettata dalle parti, nonchè in base alla qualificazione giuridica dei fatti medesimi e, in genere, all’applicazione di una norma giuridica, diversa da quella invocata dalla parte (Cass. 24.3.2011 n. 6757; Cass. 11.1.2011 n. 455).
In merito alle ragioni di censura addotte nel quinto motivo, deve ritenersi che sia stato implicitamente escluso anche il giustificato motivo soggettivo, posto che la motivazione si fonda sulla affermazione della sostanziale insussistenza delle condotte ascritte al datore, stante la ritenuta insufficienza delle prove acquisite a dimostrare la sussistenza della condotta abituale, una volta ritenuta l’inidoneità della contestazione disciplinare rispetto a fatti isolati non sufficientemente individuati, rilevanti disciplinarmente.
Il nuovo art. 18 ha tenuto distinta, invero, dal fatto materiale la sua qualificazione come giusta causa o giustificato motivo, sicchè occorre operare una distinzione tra l’esistenza del fatto materiale e la sua qualificazione. La reintegrazione trova ingresso in relazione alla verifica della sussistenza/insussistenza del fatto materiale posto a fondamento del licenziamento, così che tale verifica si risolve e si esaurisce nell’accertamento, positivo o negativo, dello stesso fatto, che dovrà essere condotto senza margini per valutazioni discrezionali, con riguardo alla individuazione della sussistenza o meno del fatto della cui esistenza si tratta, da intendersi quale fatto materiale, con la conseguenza che esula dalla fattispecie che è alla base della reintegrazione ogni valutazione attinente al profilo della proporzionalità della sanzione rispetto alla gravità del comportamento addebitato.
La censura di cui al sesto motivo va affrontata avuto riguardo alla ritenuta insussistenza totale della condotta, che esonerava dalla valutazione di ulteriori ipotesi prospettate, neanche specificamente indicate nel motivo di impugnazione, che, come tale, non è rispettoso del principio di autosufficienza, non consentendo di individuare la fattispecie, diversa da quella della condotta ritenuta insussistente, che potrebbe giustificare la tutela unicamente risarcitoria.
Deve, invero, osservarsi che la L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 4 accomuna le ipotesi di giusta causa e giustificato motivo, escludendone gli estremi per insussistenza del fatto contestato, ovvero perchè il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi, ovvero dei codici disciplinari applicabili, e che il comma 5 prevede, nelle altre ipotesi in cui venga accertato che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro, la risoluzione del rapporto di lavoro con effetto dalla data del licenziamento e la condanna del datore di lavoro al pagamento di un’indennità risarcitoria onnicomprensiva, determinata tra un minimo di dodici e un massimo di ventiquattro mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, in relazione all’anzianità del lavoratore e tenuto conto del numero dei dipendenti occupati, delle dimensioni dell’attività economica, del comportamento e delle condizioni delle parti, con onere di specifica motivazione al riguardo.
Il legislatore della riforma introduce, nella sostanza, due distinti regimi di tutela per ipotesi di licenziamento per giusta causa o giustificato motivo soggettivo dichiarato illegittimo.
Il primo regime, come già detto, viene in considerazione nelle sole tassative ipotesi in cui il giudice accerti che il fatto (che ha dato causa al licenziamento) non sussiste, ovvero nel caso in cui ritenga che il fatto rientri nelle condotte punibili con una sanzione conservativa, sulla base delle disposizioni del contratto collettivo applicato, ovvero dei codici disciplinari applicabili alla fattispecie in esame.
Nelle suddette ipotesi continua ad applicarsi la tutela reintegratoria, unitamente a quella risarcitoria, con detraibilità dell’aliunde perceptum e dell’aliunde percipiendum.
Il secondo regime, disciplinato dal nuovo comma 5 dell’art. 18 Stat.
Lav., si applica nelle “altre ipotesi” in cui emerge in giudizio che non vi sono gli estremi integranti la giusta causa o per il giustificato motivo soggettivo, con esclusione delle ipotesi di licenziamento adottato in violazione delle regole procedurali previste dalla L. n. 300 del 1970, art. 7.
In tale secondo caso – nel quale rientra anche la violazione del requisito della tempestività, che viene considerata elemento costitutivo del diritto di recesso, a differenza del requisito della immediatezza della contestazione, che rientra tra le regole procedurali – è applicabile la sola tutela risarcitoria.
Un terzo regime, per il quale vige anche la sola tutela risarcitoria, viene, poi, in considerazione nell’ipotesi di violazione delle regole procedurali previste dalla L. n. 300 del 1970, art. 7.
Non v’è dubbio che, alla stregua della disciplina richiamata, l’ipotesi in questione sia stata correttamente inquadrata nelle fattispecie contemplate nel primo regime, per cui anche l’ultima censura va disattesa.
Il ricorso va, in conclusione, complessivamente respinto.
Le spese di lite del presente giudizio seguono la soccombenza della Banca ricorrente e si liquidano come da dispositivo. Va applicata, ratione temporis e sussistendone i presupposti, la disposizione di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate in Euro 100,00 per esborsi, in Euro 4000,00 per compensi professionali, oltre accessori come per legge e spese generali nella misura del 15%.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, da atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.
Così deciso in Roma, il 24 settembre 2014.
Depositato in Cancelleria il 6 novembre 2014
Massima
L’art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, come modificato dall’art. 1, comma 42, della legge 28 giugno 2012, n. 92, distingue il fatto materiale dalla sua qualificazione in termini di giusta causa o di giustificato motivo soggettivo, riconoscendo la tutela reintegratoria solo in caso di insussistenza del fatto materiale posto a fondamento del licenziamento, sicché ogni valutazione che attenga al profilo della proporzionalità della sanzione rispetto alla gravità della condotta contestata non è idonea a determinare la condanna del datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro.