In tema di divisione ereditaria, l’art. 723 cod. civ. prescrive che i condividenti, nel corso delle operazioni divisionali, sono tenuti al rendiconto, ma non stabilisce le modalità del rendiconto suddetto, né, in particolare, impone il ricorso a quelle degli artt. 263 e segg. cod. proc. civ., la cui adozione, pertanto, è meramente facoltativa ed affidata alle scelte discrezionali del giudice del merito, il quale può preferire indagini e prove di tipo diverso.
Lo ha ribadito la Suprema Corte di Cassazione – sezione seconda civile – con ordinanza n. 11290 del 9 maggio 2017
Il caso
Un erede ricorre, con tre motivi, nei confronti del fratello coerede, che si costituisce con controricorso, per la cassazione della sentenza della Corte d’Appello con la quale era stata integralmente confermata la sentenza del Tribunale che, previo accertamento della consistenza dell’asse ereditario, aveva accolto la domanda di scioglimento della comunione relativa all’eredità della madre, deceduta ab intestato.
La sentenza di appello.
La Corte d’Appello, per quanto qui ancora rileva, concludeva per la correttezza dell’operazione di ricostruzione della massa ereditaria, nell’ambito del procedimento divisionale, attraverso una CTU contabile, rilevando che la legge prescrive l’obbligo dei condividenti, nel corso delle operazioni di divisione, di rendere i conti ma non stabilisce le modalità di rendiconto.
Il giudice di appello escludeva inoltre la sussistenza di un mandato con rappresentanza tra il coerede odierno ricorrente e la madre e qualificava la scrittura privata, datata 29 luglio 1999, come donazione, nulla per difetto di forma, e non anche come contratto atipico di vitalizio alimentare, mancando, nell’atto, qualsiasi pur generico riferimento ai bisogni della madre per il futuro, oppure a necessità della predetta commisurate alla durata della sua vita: al contrario risultava che la de cuius disponeva di consistenti mezzi propri oltre alla pensione, e che sosteneva autonomamente le spese della vita domestica anche a beneficio del figlio convivente, in favore del quale aveva emesso diversi assegni ed effettuato bonifici.
Da qui il ricorso per cassazione.
I motivi di ricorso.
Con il primo motivo di ricorso il coerede, odierno ricorrente, denuncia la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 263 e seguenti c.p.c. e 723 c.c. in relazione all’art. 360 n.3 c.p.c., deducendo l’erroneità della scelta, nell’ambito del processo divisionale, di effettuare le operazioni di ricostruzione della massa ereditaria attraverso una CTU contabile, piuttosto che seguire il procedimento di cui agli arti. 263 e seguenti.
Il motivo viene ritenuto infondato.
Precisano i giudici della Suprema Corte, che, secondo il consolidato indirizzo interpretativo della Corte di legittimità, in tema di divisione ereditaria, l’art. 723 cod. civ. prescrive che i condividenti, nel corso delle operazioni divisionali, sono tenuti al rendiconto, ma non stabilisce le modalità del rendiconto suddetto, né, in particolare, impone il ricorso a quelle degli artt. 263 e segg. cod. proc. civ., la cui adozione, pertanto, è meramente facoltativa ed affidata alle scelte discrezionali del giudice del merito, il quale può preferire indagini e prove di tipo diverso (Cass. Civ. Sez. II sent. del 13/07/1991 n. 7797; Sez. 2, Sentenza n. 1509 del 19/02/1997).
A tale indirizzo interpretativo – chiariscono gli Ermellini – risulta essersi conformata la Corte territoriale la quale ha ritenuto corretta la procedura, seguita dal Tribunale nell’ambito del processo divisionale, di ricostruire la massa ereditaria attraverso una C.T.U. contabile, anziché ricorrere alle modalità di cui agli artt. 263 e seguenti.
Non è dunque ravvisabile – a parere dei giudici di piazza Cavour – la dedotta violazione degli arti. 263 ss c.p.c. e 723 c.c.
Con il secondo motivo il ricorrente denunzia la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1703 e seguenti c.c., per aver la Corte erroneamente escluso la configurabilità di un mandato con rappresentanza tra l’altro coerede e la de cuius, avuto riguardo alle operazioni compiute sul conto corrente acceso da quest’ultima presso l’Istituto di Credito, ritenendo sussistente il mero conferimento del potere ad operare sul conto suddetto con delega di firma; deduce inoltre vizio di motivazione ai sensi dell’art. 360 n.5 c.p.c. per errata valutazione delle risultanze della C.T.U.
Anche tale motivo viene ritenuto infondato.
Non sussiste infatti la dedotta violazione delle disposizioni in materia di mandato, poiché la Corte territoriale, con valutazione di merito congrua, logica e coerente, ha escluso, con riferimento al conto corrente acceso presso l’Istituto di Credito, intestato alla sola de cuius, l’esistenza di un mandato in capo al figlio, rilevando come la scrittura prodotta costituisse, al contrario, il mero conferimento della facoltà di operare sul conto intestato alla madre, con delega di firma.
Ed invero secondo il consolidato indirizzo della Suprema Corte, l’accordo tra il cliente e la banca in base al quale anche altro soggetto (a ciò delegato) è autorizzato a compiere operazioni sul conto corrente, spiega unicamente l’effetto, per le operazioni e nei limiti di importo stabiliti, di vincolare la banca a considerare alla stessa stregua di quella del delegante la firma del delegato, e non comporta anche il conferimento a quest’ultimo di un potere generale di agire in rappresentanza del delegante per il compimento di qualsiasi tipo di atto negoziale riferibile al conto (Cass.11866/2007).
In ogni caso – proseguono gli Ermellini – pur applicando la normativa in materia di mandato, deve escludersi che l’odierno ricorrente fosse esonerato dall’obbligo di rendiconto nei confronti egli eredi, posto che secondo il consolidato indirizzo di questa Corte l’estinzione del mandato per morte del mandante non fa venir meno l’obbligo di rendiconto del mandatario, che deve adempierlo nei confronti degli eredi del mandante (Cass. 9262/2003).
L’estinzione del mandato per morte del mandatario e l’obbligo di rendiconto.
L’estinzione del mandato per morte del mandatario, prevista dall’art. 1722, n. 4, cod. civ., e l’obbligo di rendiconto a carico dello stesso mandatario, previsto dall’art. 1713, primo comma, cod. civ., si collocano, infatti – a giudizio dei giudici della Suprema Corte – su piani diversi e non confondibili, sicché la morte ha il solo effetto giuridico di trasferire l’obbligo di rendiconto dal mandatario ai suoi eredi, ovvero, nel caso di morte del mandante, in favore degli eredi di quest’ultimo, in virtù delle norme generali in tema di successione “mortis causa” (Cass.7254/2013).
Ne consegue che – secondo i giudici della Suprema Corte – non risultando nella specie, come evidenziato dalla Corte d’Appello, che l’odierno ricorrente, avesse mai provveduto ad una rendicontazione prima del decesso della madre, non è configurabile una implicita approvazione del rendiconto medesimo. Da ciò consegue che i giroconti e bonifici effettuati dal conto corrente intestato alla madre sul proprio conto corrente e gli ulteriori prelievi non giustificati da parte dell’odierno ricorrente vanno restituiti alla massa ereditaria.
Con il terzo motivo di ricorso si denuncia la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 782 e 770 nonché 1322 comma 2 c.c., deducendo l’erronea qualificazione della scrittura privata, datata 29 luglio 1999, come donazione, nulla per difetto di forma, e non anche come contratto atipico di vitalizio alimentare.
Anche tale motivo viene ritenuto infondato.
Vitalizio alimentare e rendita vitalizia: differenze.
I giudici di piazza Cavour chiariscono che secondo il consolidato indirizzo interpretativo della Corte di legittimità, il vitalizio alimentare è il contratto con il quale una parte si obbliga, in corrispettivo dell’alienazione di un immobile o della attribuzione di altri beni od utilità, a fornire all’altra parte vitto, alloggio ed assistenza, per tutta la durata della vita ed in correlazione ai suoi bisogni ( Cass. Civ. Sez. III sent. del 01/04/2004 n. 6395) e si differenzia da quello, nominato, di rendita vitalizia, di cui all’art. 1872 c.c. per il carattere più marcato dell’alea che lo riguarda, inerente non solo la durata del rapporto, connesso alla vita del beneficiano, ma anche l’obbiettiva entità delle prestazioni (di fare e di dare) dedotte nel negozio, suscettibili di modificarsi nel tempo in ragione di fattori molteplici e non predeterminabili (quali le condizioni di salute del beneficiario), e per la natura accentuatamente spirituale di queste ultime, eseguibili, per tale motivo, unicamente da un vitaliziante specificatamente individuato alla luce delle sue proprie qualità personali. (Cass. Civ. Sez. Il seni. del 22/04/2016 n. 8209).
Perché l’interpretazione della Corte territoriale è corretta.
A detta degli Ermellini, a tale indirizzo interpretativo risulta essersi conformata la Corte territoriale, la quale ha correttamente escluso che la scrittura privata in esame possa qualificarsi come contratto atipico di vitalizio alimentare, mancando, nel documento, qualsiasi riferimento ai bisogni della madre per il futuro oppure a determinate necessità della predetta, commisurate alla durata della sua vita.
Nel caso di specie, infatti, a parte un riferimento, del tutto generico, alla reciproca assistenza, non risulta dalla predetta scrittura privata alcun concreto riferimento al contenuto dell’obbligazione del figlio ed alle prestazioni, strumentali al soddisfacimento delle esigenze di vita della madre, a cui questi si obbligava per tutta la durata della vita della stessa, come corrispettivo della cessione dei titoli a lei intestati, ed anzi, dalla ricostruzione della complessiva situazione patrimoniale della de cuius è risultato che la stessa potesse disporre di consistenti mezzi propri (oltre alla pensione), ampiamente sufficienti a sostenere le spese di vita domestica, anche a vantaggio del figlio convivente.
Da ciò – concludono i giudici di legittimità – la qualificazione di tale scrittura privata come donazione, nulla per difetto di forma, trattandosi di un’attribuzione gratuita dalla madre in favore del figlio, di ingente valore, senza alcun carattere di corrispettività.
Il ricorso viene dunque rigettato.
Una breve riflessione
La sentenza in epigrafe affronta diverse problematiche, quasi sempre ricorrenti nei giudizi di divisione ereditaria: l’obbligo di rendiconto da parte dei coeredi; l’accertamento della natura simulata di atti di trasferimento dal de cuius, in vita, in favore solo di taluno dei coeredi; la morte del mandatario e del mandante e le relative conseguenze sull’obbligo di rendiconto.
Sotto il primo profilo, la sentenza chiarisce come il Giudice non sia vincolato a seguire una determinata procedura, ben potendosi affidare ad una consulenza contabile. Il ricorso alla procedura di cui agli articoli 263 e seguenti del codice di procedura civile, difatti, non è vincolante, ben potendo, per l’appunto, il giudice discostarsene.
Per altro verso, i giudici di piazza Cavour non perdono tempo a chiarire la differenza esistente tra vitalizio alimentare e rendita vitalizia. Il primo è una figura dai contorni ben marcati. Contorni che, se mancano (come nella specie) fanno venire meno la sussistenza del vitalizio e, ove manchi la forma, l’atto deve ritenersi nullo (con conseguente obbligo di conferimento nell’asse ereditario da parte di chi ha ricevuto il bene).
Sotto il terzo ed ultimo profilo gli Ermellini chiariscono che “l’estinzione del mandato per morte del mandatario, prevista dall’art. 1722, n. 4, cod. civ., e l’obbligo di rendiconto a carico dello stesso mandatario, previsto dall’art. 1713, primo comma, cod. civ., si collocano su piani diversi e non confondibili, sicché la morte ha il solo effetto giuridico di trasferire l’obbligo di rendiconto dal mandatario ai suoi eredi, ovvero, nel caso di morte del mandante, in favore degli eredi di quest’ultimo, in virtù delle norme generali in tema di successione “mortis causa” (Cass.7254/2013)
Avv. Filippo Pagano (f.pagano@clouvell.com)
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