In materia di contratto d’opera, il giudice, indipendentemente da una specifica richiesta dell’attore, a fronte di risultanze processuali carenti sul quantum debeatur e in difetto di tariffe professionali e di usi, non può rigettare la domanda di pagamento del compenso, ma deve determinarlo ai sensi dell’art. 2225 c.c. con criterio equitativo ispirato alla proporzionalità del corrispettivo rispetto alla natura, alla quantità e alla qualità delle prestazioni eseguite e al risultato utile conseguito dal committente.
Lo ha ribadito la Suprema Corte di Cassazione – sezione lavoro – con sentenza n. 15229 del 22 luglio 2016.
Il caso
Con sentenza depositata il 5.11.12 la Corte d’appello rigettava, per difetto di prova sul quantum, il gravame di un prestatore d’opera, perito assicurativo, contro la sentenza con cui il Tribunale aveva respinto la domanda dell’attore intesa ad ottenere dalla Compagnia di Assicurazioni il pagamento del corrispettivo di 135 perizie preliminari di sinistro ratificate dalla società assicuratrice e poi sfociate in altrettante transazioni fra la società medesima e i danneggiati.
Per la cassazione della sentenza ricorre il prestatore d’opera affidandosi a due motivi. La compagnia di Assicurazioni resiste con controricorso.
I motivi di ricorso
Con il primo motivo si lamenta omesso esame di un fatto decisivo del giudizio oggetto di discussione fra le parti, nonché vizio di insufficienza e contraddittorietà della motivazione e violazione del d.P.R. n. 963/73 e degli artt. 115 e 116 c.p.c. nella parte in cui la sentenza impugnata, pur ravvisando la prova sull’an debeatur, ha tuttavia respinto la domanda per difetto di prova sul quantum, escludendo di poterlo liquidare d’ufficio in via di pronuncia sull’ingiustificato arricchimento della società, quantunque – in realtà – il ricorrente non avesse alcun motivo di formulare una domanda ex art. 2041 c.c. una volta chiesto il compenso del lavoro autonomo eseguito.
Il secondo motivo denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2223 c.c. e 36 Cost. per avere la Corte territoriale omesso la liquidazione del quantum debeatur nonostante che gli artt. 2225 e 2233 c.c. stabiliscano che, in mancanza di pattuizione e di tariffe professionali o di usi, il compenso per il lavoro autonomo vada liquidato dal giudice.
Determinazione equitativa del compenso dovuto al prestatore d’opera.
Invero – sostengono gli Ermellini – premesso che nel caso di specie la Corte di merito ha accertato che la Compagnia di Assicurazioni si è avvalsa dell’opera del ricorrente e che, quindi, ha avuto luogo fra di loro, quanto meno per facta concludentia, un rapporto contrattuale (non bisognevole di forma scritta ad substantiam o ad probationem), deve applicarsi – trattandosi di prestazione non resa da professionista per il quale esista l’obbligo di iscrizione in albi od elenchi – l’art. 2225 c.c.
L’art. 2225 del codice civile.
Esso prevede che il corrispettivo della prestazione di lavoro autonomo, se non convenuto dalle parti e non determinabile secondo le tariffe professionali o gli usi, è stabilito dal giudice in relazione al risultato ottenuto e al lavoro normalmente necessario per realizzarlo.
Come la Suprema Corte ha già avuto modo di statuire, il giudice, indipendentemente da una specifica richiesta dell’attore, a fronte di risultanze processuali carenti sul quantum debeatur e in difetto di tariffe professionali e di usi, non può rigettare la domanda di pagamento del compenso, ma deve determinarlo ai sensi dell’art. 2225 c.c. con criterio equitativo ispirato alla proporzionalità del corrispettivo rispetto alla natura, alla quantità e alla qualità delle prestazioni eseguite e al risultato utile conseguito dal committente (cfr. Cass. n. 7510/14; Cass. n. 9829/95; Cass. n. 650/84; Cass. n. 143/74; Cass. n. 352/70).
Da qui l’annullamento della sentenza impugnata con rinvio, anche per le spese del grado di legittimità, alla Corte d’appello che dovrà limitarsi a liquidare il quantum debeatur secondo i criteri dell’art. 2225 c.c.
Una breve riflessione
Sentenza concisa ma efficace, quella in rassegna, che dà continuità ad un orientamento che può definirsi consolidato.
La previsione dell’articolo 2225 c.c., in buona sostanza, esonera il prestatore d’opera dall’onere di dover provare il quantum della pretesa, addossando al giudice un preciso obbligo di determinazione equitativa del quantum in mancanza di allegazioni attoree sulla quantificazione.
Si consideri che il principio espresso, che nella specie ha determinato il ribaltamento di entrambe le decisioni di merito, ha il merito di evitare uno squilibrio tra i due soggetti del contratto di prestazione d’opera con conseguente possibilità di ingiustificato arricchimento di uno ai danni dell’altro.
Ciò che, in effetti, stava accadendo proprio nella fattispecie in esame laddove il perito assicurativo, pur avendo svolto il proprio lavoro in riferimento a numerosissime perizie, non aveva ricevuto alcunché sol perché non era riuscito a provare l’ammontare delle prestazioni dovutegli.
avv. Filippo Pagano (f.pagano@clouvell.com)
managing partner at clouvell (www.clouvell.com)