Corte Suprema di Cassazione – sezione terza civile – sentenza n.3505 del 23 febbraio 2016

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Svolgimento del processo

In data 9 aprile 1998 (deceduto Omissis) decede presso l’Ospedale di Vicenza, nel corso di un’operazione chirurgica per l’amputazione dell’avampiede sinistro resasi necessaria a seguito dello schiacciamento riportato nell’incidente di cui era rimasto vittima il 1°  aprile 1998, quando era stato investito da un trattore di proprietà della società (Omissis), condotto dal futuro socio (Omissis) e assicurato per la responsabilità civile dall’Assitalia S.p.A..

Nel settembre 2000 le figlie della vittima, (Omissis), agiscono per il risarcimento dei danni (sia in proprio che a titolo ereditario) nei confronti della società proprietaria del trattore e dei suoi soci, della compagnia di assicurazione, della Azienda U.L.S.S. n. 6 “Vicenza” della Regione Veneto (in seguito: ASL n. 6 di Vicenza) e del medico anestesista (Omissis). La convivente more uxorio del (deceduto Omissis), (convivente more uxorio del deceduto Omissis), interviene nel giudizio per ottenere a sua volta il risarcimento dei danni subiti.

Il Tribunale di Treviso – sezione distaccata di Conegliano, accoglie parzialmente le domande e condanna (con ordinanza decisoria ai sensi dell’art. 186-quater c.p.c. del 23 marzo 2005, poi confermata con successiva sentenza del 17 ottobre 2005): a) l’Assitalia S.p.A. al pagamento dell’importo di € 20.000,00 (con rivalutazione monetaria e interessi legali dal 1°  aprile 1998 al saldo) in favore delle attrici, a titolo di danno biologico e di danno morale da lesioni, iure hereditario; b) (Omissis) e l’Assitalia S.p.A., in solido, al pagamento, in favore delle medesime attrici, dell’importo di €. 134.500,00 (con rivalutazione monetaria e interessi legali dal dovuto al saldo); c) (Omissis), l’Assitalia S.p.A. e i soci della (Omissis), in solido, al pagamento, in favore di (Omissis), dell’importo di € 155.353,00 (con rivalutazione monetaria e interessi legali dal dovuto al saldo). Proposto appello in via principale prima dalla (Omissis) e successivamente dalle sorelle del (deceduto Omissis), nonché, in via incidentale, dall’Assitalia S.p.A. e dal (Omissis), la Corte di Appello di Venezia, in parziale accoglimento del gravame delle danneggiate, condanna anche la ASL n. 6 di Vicenza, in solido con l’Assitalia S.p.A. ed il (Omissis), al risarcimento del danno riconosciuto in favore delle sorelle del (deceduto Omissis), che viene maggiorato di un ulteriore importo di € 32.000,00, all’attualità, in favore di ciascuna di esse, oltre interessi.

Avverso tale sentenza ricorrono le sorelle (Omissis), in via principale, sulla base di sei motivi.

Resistono con unico controricorso le Generali Italia S.p.A. (attuale denominazione della società subentrata alla Assitalia S.p.A. a seguito di fusione societaria) ed il (Omissis), nonché la ASL n. 6 di Vicenza con autonomo controricorso contenente ricorso incidentale fondato su cinque motivi, cui hanno resistito le ricorrenti con ulteriore controricorso.

Le ricorrenti hanno altresì depositato memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c. e replicato per iscritto alle conclusioni del P.M., ai sensi dell’art. 379, u.c.. c.p.c.. Non hanno svolto attività difensiva in questa sede gli altri intimati.

Motivi della decisione

1.-Esame dei motivi del ricorso principale e del ricorso incidentale relativi alla liquidazione del danno non patrimoniale

1.1-Con il primo motivo del ricorso principale viene denunziata «violazione dell’art. 1226 c.c. (richiamato dall’art. 2056 c.c.) in relazione alla mancata applicazione dei valori numerici delle tabelle di Milano sui danni da morte (art. 360 n. 3 c.p.c.)».

Con il secondo motivo del medesimo ricorso principale si deduce «insufficiente e contraddittoria motivazione sul procedimento estimatorio che ha contenuto l’entità del risarcimento dei ccdd.. danni parentali da morte in una somma inferiore a quella minima prevista nella pur citata Tabella di Milano ed. 2011 in relazione alla morte di un genitore per due figlie non ancora trentenni (art. 360 n. 5 c.p.c.)».

Con tali motivi – evidentemente connessi e quindi da esaminare congiuntamente – le ricorrenti si dolgono della liquidazione, da parte della corte di appello, del danno non patrimoniale loro derivato dalla morte del genitore in soli ulteriori € 32.000,00 (all’attualità) rispetto alla somma di € 66.000,00 (oltre interessi e rivalutazione monetaria) già riconosciuta in primo grado a ciascuna di esse.

Deducono:

a) che tale importo sarebbe inferiore a quello minimo previsto dalle tabelle per la liquidazione dei danni non patrimoniali elaborate dall’Osservatorio per la Giustizia Civile di Milano per l’anno 2011 (€ 154.350,00), che pure la corte aveva dichiarato di intendere applicare;

b) che le circostanze di fatto da quest’ultima richiamate ai fini della individuazione del quantum concreto del risarcimento non potevano costituire sufficienti e logiche ragioni idonee a giustificare la sostanziale disapplicazione, anche nel valore minimo, della indicata previsione tabellare;

c) che non si era tenuto conto dell’età del vittima (circa 56 anni), e di altre circostanze che avrebbero deposto in favore del forte legame tra questa e le figlie.

I motivi in esame del ricorso principale vanno esaminati congiuntamente al quarto e quinto motivo del ricorso incidentale, che sono addirittura ad essi pregiudiziali, in quanto ne postulano l’inammissibilità in radice, per la assunta nullità del capo della sentenza di appello oggetto delle censure delle ricorrenti, in quanto conseguenza di omesso rilievo di inammissibilità dell’appello stesso.

Precisamente, con il quarto motivo del ricorso incidentale viene denunziata «nullità della sentenza impugnata per violazione del disposto dell’art. 345 c.p.c. (art. 360, comma primo, n. 4 c.p.c.)»  e con il quinto motivo dello stesso viene denunziata «insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (art. 360, comma primo, n. 5 c.p.c.)».

La ricorrente incidentale si duole del mancato rilievo, in sede di merito, dell’inammissibilità dell’appello proposto dalle sorelle del (deceduto Omissis) con riguardo al capo della sentenza di primo grado relativo alla liquidazione del danno non patrimoniale in loro favore.

Le attrici avevano proposto in primo grado la domanda di risarcimento del danno non patrimoniale facendo specifico riferimento, ai fini della quantificazione dell’importo richiesto, alle tabelle licenziate nell’aprile 1999 da una Commissione di magistrati triveneti, e non alle tabelle del Tribunale di Milano. Avevano poi proposto appello lamentando la mancata o falsa applicazione di tali ultime tabelle e l’applicazione, invece, proprio delle tabelle da loro invocate.

Secondo la ricorrente incidentale l’appello avrebbe dovuto essere dichiarato inammissibile per tale motivo, nonché ai sensi dell’art. 345 c.p.c., per la sua novità.

Esso infatti era fondato sulla mancata applicazione delle tabelle milanesi del 2005, che però erano state approvate e rese pubbliche solo in data successiva a quella di deposito della sentenza di primo grado.

1.2- Ammissibilità del ricorso principale

I motivi del ricorso principale sono ammissibili. Sono dunque per converso infondati quelli del ricorso incidentale.

Queste le ragioni.

Va esclusa la dedotta inammissibilità del motivo di appello avanzato dalle attrici in merito alla liquidazione del danno non patrimoniale. La corretta determinazione della somma dovuta a tale titolo non consegue direttamente all’applicazione dell’una o dell’altra tra le varie tabelle elaborate nella prassi applicativa dei diversi uffici giudiziari, come se si trattasse di differenti disposizioni normative, ma alla verifica dell’adeguatezza della concreta specificazione del parametro normativo dell’equità di cui all’art. 1226 c.c., che può ritenersi sussistente solo laddove avvenga in coerenza con quello certo ed uniforme individuato dalla giurisprudenza di legittimità con il richiamo dei valori espressi nelle cd. tabelle milanesi.

Non ha dunque importanza se venga nominalmente richiamata dall’attore una «tabella» o un’altra, quale base per la richiesta di una determinata liquidazione: ciò che conta è che siano correttamente indicati (e provati) i danni subiti e le circostanze rilevanti ai fini della quantificazione dell’importo del risarcimento, e che quest’ultimo sia eventualmente espresso in una determinata cifra, il che può anche avvenire con il richiamo di un determinato valore tabellare.

Nella specie, pur richiamando la tabella elaborata nel Triveneto, le attrici indicarono nell’atto di citazione i danni subiti e le circostanze a loro avviso rilevanti al fine della determinazione del conseguente risarcimento, e ne chiesero la liquidazione in un importo certamente superiore a quello riconosciuto dal giudice di primo grado.

Dunque, il loro appello volto ad ottenere la somma effettivamente richiesta, sulla base dei fatti già dedotti, censurando la decisione del tribunale che aveva sottostimato il danno, certamente non avrebbe potuto essere ritenuto inammissibile solo perché argomentato (anche) mediante il richiamo al parametro delle cd. tabelle milanesi del 2005, rese note dopo il primo grado del giudizio, parametro del resto riconosciuto come indice tendenzialmente applicabile a livello nazionale solo dalla giurisprudenza successiva.

Ciò che rileva ai fini dell’ammissibilità dell’impugnazione è che siano rimasti inalterati i danni lamentati, i fatti allegati a sostegno della domanda e gli importi originariamente richiesti.

D’altra parte, secondo i principi affermati da questa Corte, ai fini dell’ammissibilità del ricorso per cassazione fondato sull’assunta violazione delle cd. tabelle milanesi, è sufficiente che il motivo sia stato oggetto specifico di appello e che le tabelle siano state contestualmente prodotte, il che nella specie è certamente avvenuto (cfr. Cass., Sez. 3, Sentenza n. 24205 del 13 novembre 2014: «nella liquidazione del danno non patrimoniale, l’applicazione di criteri diversi da quelli risultanti dalle tabelle predisposte dal Tribunale di Milano può essere fatta valere in sede di legittimità, come vizio di violazione di legge, soltanto quando in grado di appello il ricorrente si sia specificamente doluto della mancata liquidazione del danno in base ai valori delle tabelle milanesi ed abbia altresì versato in atti dette tabelle»; Cass., Sez. 3, Sentenza n. 23778 del 7 novembre 2014: «nella liquidazione del danno biologico, la mancata applicazione delle “tabelle di Milano” può essere fatta valere, in sede di legittimità, come vizio di violazione di legge, quando la decisione impugnata sia stata pronunciata prima del 7 giugno 2011 – data di pubblicazione della sentenza della S. C. n. 12408, che ha indicato le dette tabelle come parametro equitativo preferibile – solo in quanto la questione sia stata già posta nel giudizio di merito e la parte interessata abbia depositato copia delle suddette tabelle al più tardi in grado di appello»).

In tal caso, poi, i valori tabellari da prendere in considerazione sono quelli esistenti al momento della decisione di appello e non quelli precedenti riferiti al momento della decisione di primo grado e poi rivalutati (Cass., Sez. 3, Sentenza n. 7272 dell’11 maggio 2012:«se le “tabelle” applicate per la liquidazione del danno non patrimoniale da morte di un prossimo congiunto cambino nelle more tra l’introduzione del giudizio e la sua decisione, il giudice, anche d’appello, ha l’obbligo di utilizzare i parametri vigenti al momento della decisione; nella specie, sulla base dell’enunciato principio, la S. C. ha cassato la sentenza di appello, sotto il profilo della violazione di legge, avendo la stessa provveduto ad una semplice rivalutazione degli importi liquidati in base alle tabelle vigenti alla data della decisione di primo grado, e non più in uso al momento della pronuncia impugnata»).

A maggior ragione, quindi, va riconosciuta l’ammissibilità dell’appello con il quale, a sostegno della censura di erronea liquidazione del danno non patrimoniale in misura inferiore alla domanda (originariamente proposta con il richiamo a tabella locale), si alleghino e si producano le cd. tabelle milanesi rese note dopo la sentenza di primo grado.

1.3- Esame dei primi due motivi del ricorso principale: la liquidazione del danno non patrimoniale in un importo inferiore al “minimo tabellare”

La determinazione del risarcimento del danno non patrimoniale, da parte della corte di appello, è avvenuta in un importo inferiore al minimo previsto dalle cd. tabelle milanesi del 2011 (ciò anche a voler considerare la rivalutazione sulla somma liquidata originariamente dal tribunale), che pure la corte stessa ha espressamente dichiarato intendere applicare, in conformità alla ormai consolidata giurisprudenza di questa corte (a partire da Cass., Sez. 3, Sentenza n. 12408 del 7 giugno 2011; cfr., ad es., tra le più recenti, ex multis: Sez. 3, Sentenza n. 20895 del 15 ottobre 2015; Sez. L, Sentenza n. 13982 del 7 luglio 2015; Sez. 3, Sentenza n. 12717 del 19 giugno 2015; Sez. 3, Sentenza n. 24205 del 13 novembre 2014; Sez. 3, Sentenza n. 4447 del 25 febbraio 2014).

Ciò avrebbe peraltro richiesto adeguata motivazione, in considerazione della situazione di fatto emergente dalla sentenza impugnata e delle circostanze dedotte e dimostrate dalle parti in sede di merito, per non incorrere nel vizio di violazione di legge denunziato.

Ed infatti, secondo l’orientamento di questa Corte appena richiamato, «nella liquidazione del danno biologico, quando manchino criteri stabiliti dalla legge, l’adozione della regola equitativa di cui all’art. 1226 c.c. deve garantire non solo una adeguata valutazione delle circostanze del caso concreto, ma anche l’uniformità di giudizio a  fronte di casi analoghi,  essendo intollerabile e non rispondente ad equità che danni identici possano essere liquidati in misura diversa  sol perché esaminati da differenti Uffici giudiziari; garantisce tale  uniformità di trattamento il riferimento al criterio di liquidazione predisposto dal Tribunale di Milano, essendo esso già ampiamente diffuso sul territorio nazionale – e al quale la S. C., in applicazione dell’art. 3 Cost., riconosce la valenza, in linea generale, di parametro di conformità della valutazione equitativa del danno biologico alle disposizioni di cui agli artt. 1226 e 2056 c. c. -, salvo che non sussistano in concreto circostanze idonee a giustificarne l’abbandono; l’applicazione di diverse tabelle, ancorché comportante liquidazione di entità inferiore a quella che sarebbe risultata sulla base dell’applicazione delle tabelle di Milano, può essere fatta valere, in sede di legittimità, come vizio di violazione di legge, solo in quanto la questione sia stata già posta nel giudizio di merito» (Sez. 3, Sentenza n. 12408 del 7 giugno 2011).

Più di recente si è ulteriormente precisato che «le “tabelle” del Tribunale di Milano assumono rilievo, ai sensi dell’art. 1226 c.c., come parametri per la valutazione equitativa del danno non patrimoniale alla persona; ne consegue che la loro erronea applicazione da parte del giudice dà luogo ad una violazione di legge, censurabile in sede di legittimità ai sensi dell’art. 360, n. 3), c.p.c.»  (Sez. 3, Sentenza n. 4447 del 25 febbraio 2014), e che «qualora il giudice, al fine di soddisfare esigenze di uniformità di trattamento su base nazionale, proceda alla liquidazione equitativa del danno non patrimoniale in applicazione delle “tabelle” predisposte dal Tribunale di Milano è tenuto ad esplicitare, in motivazione, se e come abbia considerato tutte le circostanze del caso concreto per assicurare un risarcimento  integrale del pregiudizio subito da ciascun danneggiato»  (Sez. 3, Sentenza n. 9231 del 17 aprile 2013; nel medesimo senso, ancor più di recente, si veda Sez. 3, Sentenza n. 21782 del 27 ottobre 2015).

Dunque, è certamente da ammettersi la possibilità che la liquidazione del danno non patrimoniale, nell’opera di necessaria personalizzazione di esso in base alle circostanze del caso concreto, sia effettuata anche con il superamento dei limiti minimi e massimi degli ordinari parametri previsti dalla cd. tabella milanese.

Ma è altrettanto vero che tale deroga – se non intende del tutto privarsi di significato la richiamata opzione della giurisprudenza di legittimità per l’adozione di un tale uniforme parametro – deve poter avvenire solo quando la specifica vicenda presa in considerazione non rientri nell’ambito dell’ordinario e pur differenziato atteggiarsi  delle varie possibili situazioni in astratto idonee ad orientare la liquidazione stessa tra il minimo ed il massimo del parametro tabellare, ma se ne discosti, per la presenza di circostanze di cui il parametro stesso, evidentemente costruito in base alla considerazione dell’oscillazione ipotizzabile nell’ambito delle diverse situazioni ordinarie configurabili secondo l’id quod plerumque accidit, non possa aver tenuto conto.

E di tali circostanze, che impediscono di ritenere la specifica fattispecie concreta inquadrabile tra quelle ordinarie già considerate nell’ambito dell’area prevista tra i minimi e i massimi dei parametri tabellari, va dato adeguatamente conto in motivazione.

La motivazione della sentenza impugnata risulta sotto tale aspetto del tutto insufficiente: la corte di merito dichiara di voler applicare le tabelle milanesi del 2011, ma liquida un importo certamente inferiore al minimo previsto in tali tabelle, senza assolutamente indicare motivi idonei a giustificare, né in astratto né in concreto, tale deroga, e addirittura senza neanche espressamente chiarire l’intenzione di derogare il suddetto minimo.

Richiama a sostegno della decisione, genericamente e del tutto apoditticamente (senza indicare l’incidenza che ciascuna di esse abbia avuto ai fini della concreta determinazione dell’importo finale della liquidazione), circostanze che: a) in parte appaiono del tutto irrilevanti ai fini della valutazione del danno non patrimoniale ordinariamente derivante alle figlie dalla perdita del padre (quali ad es.,l’avvenuta separazione dei genitori e l’avvio di una convivenza del padre more uxorio con una nuova compagna); b) in parte appaiono rientrare a pieno titolo nell’ambito del normale atteggiarsi di situazioni comunque di carattere ordinario, e quindi certamente idonee ad orientare la liquidazione nell’ambito dei parametri minimi e massimi della previsione tabellare, ma non a giustificarne il superamento (quali ad es. l’età di ventotto e trenta anni delle figlie al momento del decesso; la cessazione da molti anni della convivenza con il padre; la loro indipendenza economica; la mancanza di elementi sulla particolare intensità dei reciproci legami affettivi).

I motivi del ricorso principale in esame colgono dunque nel segno nel censurare la decisione impugnata sotto il duplice aspetto della falsa applicazione dell’art. 1226 c.c., ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c. (per la ingiustificata violazione del parametro equitativo ricavabile dalle cd. tabelle milanesi del 2011) e dell’insufficienza della motivazione sul punto (ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c., nel testo anteriore alle modifiche del 2012, applicabile nella fattispecie ratione temporis, essendo la sentenza impugnata anteriore al settembre 2012).

La pronunzia impugnata va pertanto cassata con rinvio alla Corte di Appello di Venezia, in diversa composizione, perché rivaluti la fattispecie sulla base del seguente principio di diritto: qualora il giudice, al fine di soddisfare esigenze di uniformità di trattamento su base nazionale, proceda alla liquidazione equitativa del danno non patrimoniale in applicazione delle “tabelle” predisposte dal Tribunale di Milano, nell’effettuare la necessaria personalizzazione di esso in base alle circostanze del caso concreto, può certamente superare i limiti minimi e massimi degli ordinari parametri previsti dalla cd. tabella milanese; ciò può avvenire peraltro solo quando la specifica situazione presa in considerazione non rientri nell’ambito dell’ordinario e pur differenziato atteggiarsi delle varie possibili circostanze in astratto idonee ad orientare la liquidazione stessa tra il minimo ed il massimo del parametro tabellare, ma si caratterizzi  per la presenza di circostanze di cui il parametro stesso non possa aver già tenuto conto, in quanto elaborato in base all’oscillazione ipotizzabile nell’ambito delle diverse situazioni ordinariamente configurabili secondo l’id quod plerumque accidit; in tal caso il giudice deve dare adeguatamente conto in motivazione di tali circostanze e di come esse siano state considerate.

Il giudice di rinvio provvederà quindi ad applicare correttamente i parametri di cui alle cd. tabelle milanesi più recenti, motivando adeguatamente sulla personalizzazione dell’importo da riconoscere alle danneggiate ed eventualmente, ed espressamente, sulla ricorrenza delle circostanze che, in base al principio di diritto sopra enunciato, eventualmente giustifichino il superamento dei limiti minimi o massimi di essi, naturalmente entro i limiti della domanda originaria.

1.4- Segue: esame del terzo, quarto e quinto motivo del ricorso principale; la liquidazione del cd. pregiudizio esistenziale

Con il terzo motivo  del ricorso principale si deduce «violazione  degli artt. 2, 29 e 30 Cost., 1223, 1226, 2043, 2056 e 2059 c.c. in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c., per avere violato il principio dell’integrale riparazione del danno non patrimoniale da morte del genitore, nella misura in cui la sentenza ha negato la configurabilità giuridica di un pregiudizio esistenziale in capo alle figlie per la morte del genitore, a fianco del danno morale da turbamento d’animo, negandone cioè la predicabilità in termini di danno conseguenza derivante dalla lesione del bene della famiglia unita e solidale».

Con il quarto motivo  si deduce «mancata valutazione della prova costituita sia dal fatto notorio di cui all’art. 115, comma 2 c.p.c. sia dalla presunzione semplice di cui agli artt. 2727 e 2729 c. c. e 116 c.p.c. in relazione all’art. 360 comma 1 n. 5 c.p.c., per avere così negato in concreto la sussistenza del danno cd. esistenziale delle figlie, dicendo di non poterlo desumere né dalla sofferenza in sé da loro provata per il decesso del padre, né dagli asseriti pregressi frequenti incontri tra padre e figlie già adulte e da anni non più con lui conviventi, né da altre prove in tesi non offerte dalle attrici (con totale pretermissione dell’esame del fatto notorio della naturale intercorrenza di relazioni tra padre e figlie viventi nella stessa provincia e con mancato rilievo della presunzione semplice desumibile da oltre dieci fatti noti)».

Con il quinto motivo  si deduce «mancata applicazione della legge ed in particolare dell’art. 2729 c.c., per non averlo saputo applicare alla fattispecie de qua, attraverso la doverosa rilevazione del formarsi della presunzione iuris tantum (relativa all’esistenza tra figlie e padre, all’epoca dell’uccisione di quest’ultimo, di un reticolo relazionale nel quale si compendiava il godimento del diritto alla solidarietà familiare), poggiata sull’allegata esistenza di tutta una serie di circostanze (fattuali e processuali) tra loro legate dal vincolo della gravità, della concordanze e della precisione (art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c.)».

Con tali motivi – sviluppati unitariamente già nello stesso ricorso per la loro intima connessione, il che ne impone l’esame congiunto – le ricorrenti si dolgono del fatto che la sentenza impugnata abbia da una parte escluso la correttezza della suddivisione del danno non patrimoniale da esse subito in due distinte voci di danno “morale” e pregiudizio “esistenziale” (suddivisione operata dal tribunale, che aveva riconosciuto a ciascuna di esse la somma di € 60.000,00 per il danno morale e la somma di € 6.000,00 per quello esistenziale), ritenendo in radice non riconoscibile giuridicamente la seconda tipologia di pregiudizio, per poi contraddittoriamente escluderla solo in ragione di un presunto difetto di prova.

Chiedono che tale pregiudizio venga liquidato in loro favore, al di là del danno morale, sostenendo in diritto la configurabilità della distinzione delle voci risarcitorie negata dalla corte e assumendo in fatto che il pregiudizio esistenziale da perdita del vincolo familiare fosse stato ampiamente dimostrato sulla base di una serie di circostanze non contestate e/o provate.

I motivi sono infondati.

Esaminando le contrapposte impugnazioni delle parti sul punto, la corte di appello ha correttamente e sufficientemente chiarito, in conformità con i principi di diritto affermati dalla giurisprudenza di legittimità (a partire dalla fondamentale Cass. Sez. U, Sentenza n. 26972 dell’Il novembre 2008; conformi, ex multis e tra le più recenti, si vedano ad es.: Cass. Sez. 3, Sentenza n. 15491 dell’8 luglio 2014; Sez. L, Sentenza n. 687 del 15 gennaio 2014; Sez. 3, Sentenza n. 21716 del 23 settembre 2013; Sez. 3, Sentenza n. 11950 del 16 maggio 2013; Sez. 3, Sentenza n. 4043 del 19 febbraio 2013), che il danno non patrimoniale costituisce una categoria di danno unitaria, che ricomprende in sé tutte le possibili componenti di pregiudizio non aventi rilievo patrimoniale, e quindi sia quelle ricollegabili alla sofferenza e al dolore per la perdita del congiunto sia quelle consistenti nel venire meno del rapporto parentale e familiare.

Ha quindi liquidato, coerentemente, tale danno in misura unitaria, applicando le cd. tabelle milanesi del 2011, che tengono appunto conto di tutti tali pregiudizi. In quest’ottica, il riferimento alla irrilevanza degli «asseriti frequenti incontri tra padre e figlie, già adulte e da anni non conviventi con il primo» ha il solo significato di escludere una particolare personalizzazione di tale componente del danno non patrimoniale, sotto il profilo di una sua specifica maggiore incidenza rispetto all’ordinario, già ovviamente considerato nella generica previsione dei parametri tabellari.

Non vi è quindi contraddizione o insufficienza della motivazione, né, tanto meno, violazione di norme di diritto.

Il percorso motivazionale della corte, sotto l’aspetto in questione, è logico, esaustivo e del tutto conforme ai principi di diritto applicabili nella fattispecie (e cioè quelli, sopra richiamati, della liquidazione unitaria del danno non patrimoniale, tenendo conto delle sue diverse componenti, con applicazione delle cd. tabelle di Milano, mediante adeguata personalizzazione).

1.5- Segue: esame del sesto motivo del ricorso principale; la prova richiesta in ordine alla frequentazione tra padre e figlie.

Con il sesto ed ultimo motivo del ricorso principale si deduce «contraddittoria, apparente e apodittica mancata ammissione del capitolo di prova consistente nella dimostrazione del fatto delle reciproche frequentazioni (in violazione dell’art. 360 comma 1 n. 5 c.p.c. e del diritto alla prova di cui all’art. 24 Cost., con riferimento all’art. 360 n. 3 c.p.c.)».

Il motivo è inammissibile.

Le ricorrenti si dolgono della mancata ammissione della prova per testi articolata al fine di dimostrare l’intensità della loro frequentazione con il padre, anche dopo la fuoriuscita dalla residenza familiare, assumendo che essa era necessaria e rilevante per confermare la dedotta permanenza di forti legami affettivi tra loro, circostanza di cui i giudici del merito avrebbero negato sussistere prova.

La ASL n. 6 di Vicenza, nel proprio controricorso, sostiene che la mancata ammissione della prova per testi non aveva costituito specifico motivo di appello (e che le attrici si erano limitate a riproporre in secondo grado la richiesta di ammissione della prova stessa rigettata dal tribunale), onde non sarebbe ammissibile il relativo motivo di ricorso per cassazione.

Sostiene anche che la prova era irrilevante, perché il fatto che il (deceduto Omissis) si recasse una o due volte alla settimana a trovare le figlie non comporterebbe che la sua morte abbia stravolto l’esistenza delle figlie stesse o ne abbia radicalmente mutato le abitudini di vita.

La giurisprudenza più recente, formatasi nella vigenza delle norme del processo civile riformato nel 1990, ha costantemente affermato il principio per il quale avverso le ordinanze emesse dal giudice, di ammissione o di rigetto delle prove, rispetto alle quali non è più previsto il reclamo, le richieste di modifica o di revoca devono essere reiterate in sede di precisazione delle conclusioni definitive al momento della rimessione in decisione ed, in mancanza, le stesse non possono essere riproposte in sede di impugnazione (Cass., Sez. 3, Sentenza n. 25157 del 14 ottobre 2008; Sez. 2, Sentenza n. 23574 del 14 novenbre 2007).

Lo stesso principio, al quale occorre dare continuità, deve necessariamente valere laddove il giudice istruttore, decidendo sulle istanze istruttorie proposte dalle parti, non ne prenda in considerazione alcune: anche in questo caso, la mancata reiterazione, con la precisazione delle conclusioni dell’istanza non considerata assume la valenza di rinuncia.

I motivi di appello, d’altra parte, concorrono a determinare l’oggetto del relativo giudizio e, per questo profilo, incidono sullo stesso esercizio del potere d’impugnazione, non potendosi considerare proposti all’esame del giudice del gravame i capi della sentenza di primo grado che non siano stati in concreto oggetto di specifiche censure nell’atto di appello. Pertanto, la parte non può riproporre istanze istruttorie espressamente o implicitamente disattese dal giudice di primo grado senza espressamente censurare, con motivo di gravame, le ragioni per le quali la sua istanza è stata respinta o dolersi della omessa pronuncia al riguardo (Cass., Sez. 3, Sentenza n. 15519 del 7 luglio 2006)

Infine, «la censura contenuta nel ricorso per cassazione relativa alla mancata ammissione della prova testimoniale è inammissibile se il ricorrente, oltre a trascrivere i capitoli di prova e ad indicare i testi e le ragioni per le quali essi sono qualificati a testimoniare – elementi necessari a valutare la decisività del mezzo istruttorio richiesto – non alleghi e indichi la prova della tempestività e ritualità della relativa istanza di ammissione e la fase di merito a cui si riferisce, al fine di consentire “ex actis” alla Corte di Cassazione di verificare la veridicità dell’asserzione» (Sez. 2, Sentenza n. 9748 del 23 aprile 2010; Sez. 2, Sentenza n. 19138 del 23 settembre 2004).

Le ricorrenti dunque – onde consentire la valutazione del motivo di ricorso in esame – avrebbero avuto l’onere, che non hanno adempiuto, di allegare e dimostrare la tempestività e ritualità della loro istanza nella fase di merito del giudizio nonché di riportare nel ricorso la parte dell’atto di appello in cui censuravano espressamente la decisione di primo grado per la mancata ammissione della prova in questione.

Il motivo, peraltro (lo si osserva per solo spirito di completezza), è anche infondato, per quanto sopra già osservato in merito alla irrilevanza della asserita frequenza degli incontri tra il padre e le figlie – benché adulte e non conviventi – ai fini della dimostrazione dell’esistenza di un particolare legame affettivo, più intenso di quello ordinario, come tale già considerato nell’ambito dei parametri tabellari, tra congiunti di pari età e condizioni (e per i quali deve invero ritenersi normale una frequentazione nei termini di quella postulata dal capo di prova non ammesso).

2.- Esame degli ulteriori motivi del ricorso incidentale della ASL n. 6 di Vicenza; la responsabilità della struttura sanitaria

Con il primo motivo del ricorso incidentale viene denunziata «violazione di legge per falsa applicazione degli artt. 2043 e 2059 c.c.  (art. 360, comma primo, n. 3 c.p.c.)».

Con il secondo motivo viene denunziata «insufficiente e contraddittoria motivazione  circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (art. 360, comma primo, n. 5 c.p.c.)».

Con il terzo motivo viene denunziata «nullità della sentenza  impugnata per vizio di ultra petizione ovvero per violazione del disposto dell’art. 112 c.p.c. (art. 360, comma primo, n. 4 c.p.c.)».

I motivi sono connessi e come tali vanno esaminati congiuntamente: con essi si pone – sotto diversi aspetti – la questione della natura della responsabilità della struttura sanitaria e della avvenuta proposizione della relativa domanda da parte delle attrici.

Essi sono in parte inammissibili ed in parte infondati.

Risulta incontestato (e ve ne è esplicita conferma anche nel secondo motivo del ricorso incidentale) che la responsabilità della struttura sanitaria era stata certamente invocata dalle attrici, sin dal primo grado del giudizio, a titolo contrattuale. Si controverteva invece (e solo) della avvenuta proposizione di una concorrente domanda a titolo extracontrattuale, esclusa dal tribunale e affermata invece dalla corte di appello, che ha di conseguenza esteso alla ASL n. 6 di Vicenza la condanna pronunziata (a tale titolo) nei confronti del medico suo dipendente per la morte del (deceduto Omissis).

Orbene, l’azienda ricorrente si duole (con il primo motivo) del fatto che sia stata affermata la propria responsabilità per la morte del (deceduto Omissis) a titolo extracontrattuale, assumendo che «è assolutamente pacifico in giurisprudenza (ed anche in dottrina) che le Aziende sanitarie rispondono dei danni cagionati ai propri pazienti dai loro dipendenti solo ed esclusivamente a titolo di responsabilità contrattuale».

Sostiene poi (con il secondo motivo), l’insufficienza e la contraddittorietà della motivazione con la quale la corte di appello ha giustificato l’affermazione secondo la quale doveva ritenersi che le attrici avessero proposto nei propri confronti anche domanda a titolo extracontrattuale, oltre che a titolo contrattuale.

E lo sostiene al fine di fondare il terzo motivo, con il quale assume che sarebbe stato violato il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunziato, avendo la corte in sostanza accolto una domanda (quella di responsabilità a titolo extracontrattuale) non proposta.

Orbene, è certamente corretta l’interpretazione delle domande proposte in primo grado nei confronti della struttura sanitaria come fondate sia su titolo contrattuale che extracontrattuale. La verifica è possibile sulla base dell’accesso diretto agli atti del giudizio (ammessa, essendo stata denunziata violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunziato: Cass., Sez. U, Sentenza n. 8077 del 22 maggio 2012; Sez. 3, Sentenza n. 21421 del 10 ottobre 2014; Sez. L, Sentenza n. 17109 del 22 luglio 2009).

È assorbente in proposito, sul piano letterale, la considerazione che, nell’atto di citazione, dopo l’invocazione della responsabilità a titolo extracontrattuale (con espresso richiamo dell’art. 2043 c.c.) nei riguardi del medico anestesista, sia immediatamente invocata quella della struttura «anche» a titolo contrattuale, quale ente erogante la prestazione sanitaria, ed altresì «per la diretta riferibilità dell’operato del proprio medico dipendente ex art. 28 Cost.» (medico nei cui confronti, come è pacifico, si era azionato il solo titolo extracontrattuale).

In ogni caso, le argomentazioni della ricorrente non sembrano cogliere la ratio decidendi della pronunzia impugnata, venendo di conseguenza addotti profili di illegittimità della stessa del tutto irrilevanti ai fini della decisione.

A prescindere dal titolo, la responsabilità della ASL n. 6 di Vicenza risulta chiaramente affermata per fatto altrui, in conseguenza del riconoscimento della responsabilità del medico anestesista, suo dipendente, per la morte del (deceduto Omissis); e tale responsabilità sussiste certamente, sia in caso di qualificazione della responsabilità come contrattuale, sia in caso di qualificazione di essa come extracontrattuale, ai sensi degli art. 1228 e 2049 c.c. (oltre che dell’art. 28 Cost.), che contengono disposizioni assolutamente equivalenti.

Dunque, la stessa prospettazione giuridica della ricorrente incidentale finisce per escludere ogni rilevanza dei motivi di ricorso in esame.

Anche laddove – come predicato – dovesse ammettersi che la struttura sanitaria risponda nei confronti dei familiari del soggetto deceduto per colpa del medico da essa dipendente a titolo di responsabilità contrattuale (anziché extracontrattuale), in ogni caso sussiste la sua responsabilità per i danni causati dal medico dipendente, ai sensi degli artt. 1228 e 2049 c.c. e 28 Cost..

Né risultano dedotte in concreto ragioni che avrebbero potuto condurre ad un diverso esito della domanda proposta, laddove si fosse affermata la natura contrattuale anziché extracontrattuale del titolo della responsabilità.

3.- Conclusioni e regolamentazione delle spese

Riuniti i ricorsi principale ed incidentale, vanno accolti nei termini sopra esposti il primo ed il secondo motivo del ricorso principale, e rigettati invece gli altri motivi del ricorso principale ed il ricorso incidentale.

La pronunzia impugnata va cassata in relazione, con rinvio alla Corte di Appello di Venezia in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.

Dal momento che il ricorso risulta notificato successivamente al termine previsto dall’art. 1, comma 18, della legge n. 228 del 2012, deve darsi atto della sussistenza dei presupposti di cui all’art. 13, co. 1-quater, del D.P.R. n. 115 del 2002, introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012 (in relazione al solo ricorso incidentale).

per questi motivi

La Corte:

– decidendo sui ricorsi riuniti, accoglie nei termini di cui in motivazione il primo ed il secondo motivo del ricorso principale, rigetta gli altri motivi del ricorso principale ed il ricorso incidentale;

– cassa in relazione, con rinvio alla Corte di Appello di Venezia in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.

Così deciso in Roma, in data 18 gennaio 2016.

 

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