Il contrasto tra dispositivo e motivazione che dà luogo alla nullità della sentenza si deve ritenere configurabile solo se ed in quanto esso incida sulla idoneità del provvedimento, considerato complessivamente nella totalità delle sue componenti testuali, a rendere conoscibile il contenuto della statuizione giudiziale. Una tale ipotesi non è ravvisabile nel caso in cui il detto contrasto sia chiaramente riconducibile a semplice errore materiale, il quale trova rimedio nel procedimento di correzione al di fuori del sistema delle impugnazioni – distinguendosi, quindi, sia dall’error in indicando deducibile ex art. 360 c. p. c., sia dall’errore di fatto revocatorio ex art. 395, n. 4, c.p.c. – ed è quello che si risolve in una fortuita divergenza tra il giudizio e la sua espressione letterale, cagionata da mera svista o disattenzione nella redazione della sentenza, e che, come tale, può essere percepita e rilevato ictu oculi, senza bisogno di alcuna indagine ricostruttiva del pensiero del giudice, il cui contenuto resta individuabile ed individuato senza incertezza.
Lo ha stabilito la Suprema Corte di Cassazione – sezione sesta civile – con ordinanza n.19111 del 25 settembre 2015
Il caso
Un Istituto di credito proponeva opposizione al decreto ingiuntivo emesso dal Tribunale di Milano col quale, su ricorso di una società immobiliare, le era stato ingiunto il pagamento della somma di € 48.805,20, quale residuo corrispettivo di lavori edili eseguiti su di un immobile oggetto di preliminare di vendita tra le parti. A sostegno dell’opposizione poneva l’inclusione della maggior parte del costo dei lavori nel prezzo di vendita e la reciproca rinuncia di entrambe le parti alle rispettive pretese (la predetta Banca per il ritardo di consegna dell’immobile), derivante dalla stipula del contratto definitivo senza riserve di sorta.
La sentenza di primo grado
Resistendo l’Immobiliare, il Tribunale di Milano rigettava l’opposizione.
La sentenza di appello
Tale sentenza era ribaltata dalla Corte d’appello di Milano, che revocava il decreto opposto.
Il ricorso per cassazione da parte della società Immobiliare.
Contro tale sentenza la società Immobiliare proponeva ricorso per cassazione, affidato a tre motivi, al quale resisteva con controricorso l’istituto di credito.
Il primo motivo di ricorso
Il primo motivo denuncia la nullità o l’inesistenza della sentenza impugnata per violazione dell’art. 132 c.p.c., in relazione all’art. 360, n. 4 c.p.c. Secondo il ricorrente, la sentenza impugnata manca della pagina 14, nella quale verosimilmente doveva essere contenuta la restante parte del dispositivo, il quale consta soltanto del punto 1), avente ad oggetto la revoca del decreto ingiuntivo opposto.
La Corte di legittimità ritiene il motivo infondato.
Chiarisce la Suprema Corte che nella specie il dispositivo della sentenza impugnata non manca, ma è chiaramente incompleto, poiche’ al punto 1), contenuto alla fine della pagina 13 e consistente nel capo di revoca del decreto ingiuntivo opposto, non seguono altre statuizioni, ma solo la sottoscrizione del consigliere estensore e del presidente, l’una e l’altra contenute nella pagina 15, essendo stata saltata, dunque, la pagina 14.
L’incompletezza del dispositivo è ipotesi di nullità?
Pertanto, esclusa la mancanza del dispositivo, per gli Ermellini si tratta di verificare se l’incompletezza di quest’ultimo sia riconducibile altrimenti all’ipotesi di nullità a contenuto variabile, ai sensi dell’art. 156, 2° comma c. p. c.
Il principio di diritto a proposito del contrasto tra motivazione e dispositivo.
Per i giudici di piazza Cavour, il contrasto tra motivazione e dispositivo che dà luogo alla nullità della sentenza si deve ritenere configurabile solo se ed in quanto esso incida sulla idoneità del provvedimento, considerato complessivamente nella totalità delle sue componenti testuali, a rendere conoscibile il contenuto della statuizione giudiziale. Una tale ipotesi non è ravvisabile nel caso in cui il detto contrasto sia chiaramente riconducibile a semplice errore materiale, il quale trova rimedio nel procedimento di correzione al di fuori del sistema delle impugnazioni – distinguendosi, quindi, sia dall’error in indicando deducibile ex art. 360 c. p. c., sia dall’errore di fatto revocatorio ex art. 395, n. 4, c.p.c. – ed è quello che si risolve in una fortuita divergenza tra il giudizio e la sua espressione letterale, cagionata da mera svista o disattenzione nella redazione della sentenza, e che, come tale, può essere percepita e rilevato ictu oculi, senza bisogno di alcuna indagine ricostruttiva del pensiero del giudice, il cui contenuto resta individuabile ed individuato senza incertezza (Cass. n. 17392/04; conformi, Cass. nn. 10637/07, 10518/09 e 12622/10).
Perché nella specie la sentenza non è nulla
Per i giudici di legittimità, nella fattispecie al loro esame, il contenuto della decisione è chiaramente enucleabile dalla motivazione, ove è ben specificato che: a) salvo che per alcune opere riconosciute dalla Banca, l’Immobiliare non ha provato che i lavori di cui ha domandato il pagamento non erano inclusi nel corrispettivo della vendita immobiliare, dal che deriva la sua soccombenza; b) conseguentemente, il decreto ingiuntivo va revocato, condannandosi la Banca al pagamento del minor importo di € 5.394,00, oltre accessori, per opere il cui obbligo di pagamento è stato riconosciuto da detta banca; c) ancora e per l’effetto, la società appellata deve essere condannata a restituire quanto percepito per capitale, interessi e Spese di lite in ottemperanza della pronuncia di primo grado; d) le Spese dei due gradi di merito sono compensate per un terzo, ponendosi la restante frazione, compiutamente liquidata nella stessa parte motiva, a carico della Banca.
In definitiva, per gli Ermellini, nessun dubbio è ragionevole nutrire sul decisum e sul fatto che solo per mera disattenzione nel redigere la sentenza esso non sia stato riprodotto tal quale nel dispositivo.
Il secondo motivo di ricorso
Il secondo motivo lamenta, ad un tempo, l’insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto (rectius, fatto) decisivo della controversia e la violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. Pacifica in causa l’esecuzione dei lavori del cui pagamento si controverte, per la ricorrente incombeva sulla Banca, e non sull’Immobiliare, l’onere di provare che tali lavori erano stati già compresi nell’iniziale preventivo e dunque inclusi nel prezzo di vendita.
Anche tale motivo viene ritenuto infondato.
Per gli Ermellini, dalla sentenza impugnata si ricava che costituisce cornice di riferimento comune alle parti il fatto che esse stipularono un contratto di vendita immobiliare (preceduto da un preliminare), il cui prezzo comprendeva sia il valore dell’immobile sia il costo di lavori necessari a ristrutturarlo; e che, pacifico tale dato di partenza, è controverso invece se tutti o una parte soltanto dei lavori in concreto eseguiti dall’Immobiliare fossero inclusi nel corrispettivo di cessione dell’immobile. Di riflesso, la Corte territoriale ha tratto che ai sensi dell’art. 2697 c.c. incombeva sul creditore e dunque sulla parte odierna ricorrente – l’onere di provare se e quali opere non fossero comprese nel prezzo finale della vendita, ma derivassero da apposite varianti chieste dal committente/acquirente.
Per i giudici di piazza Cavour, tale riparto dell’onere probatorio deve ritenersi in linea con la corretta applicazione dell’art. 2697 c.c., ove si consideri che la prova del credito dipende innanzi tutto dalla dimostrazione della relativa fonte (in questo caso) convenzionale, che al pari dell’esecuzione della prestazione corrispettiva integra l’elemento costitutivo del diritto.
Il terzo motivo di ricorso
Il terzo motivo espone l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione e la violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., per non aver la Corte territoriale considerato che al contratto preliminare di vendita non era allegato alcun capitolato né le parti avevano indicato ivi i lavori che l’Immobiliare avrebbe dovuto eseguire. Tale indicazione, prosegue parte ricorrente, è contenuta in un precedente accordo del 18.6.2001, il quale non contempla le opere poi eseguite e di cui è chiesto il pagamento. Queste ultime, a loro volta, sono state realizzate successivamente alla stipula del preliminare e dunque non possono essere che opere extra capitolato. In ogni caso, conclude parte ricorrente, l’Immobiliare ha anche fornito la prova testimoniale del proprio assunto, essendo del tutto credibile il teste, la cui inattendibilità è stata ravvisata dalla Corte di merito per ragioni del tutto inesistenti. Inoltre, la Corte distrettuale non ha motivato sufficientemente in merito alle altre testimonianze rese, ritenendole generiche. Ma anche tale motivo viene ritenuto infondato.
Quando vi è violazione o falsa applicazione dell’articolo 115 c.p.c…..
Per i giudici di legittimità, un’autonoma violazione o falsa applicazione dell’art. 115 cpc. può darsi unicamente nel caso in cui il giudice di merito decida in base a prove non dedotte dalle parti ed ammesse d’ufficio al di fuori dei casi in cui ciò è consentito dalla legge, ovvero ricorra alla propria scienza privata.
….. e dell’articolo 116 c.p.c.
Analogamente, per i giudici della Cassazione, l ’art. 116 c.p.c. è violato o falsamente applicato solo se il giudice valuti secondo il proprio libero convincimento prove legali o, all’inverso, consideri tali delle prove suscettibili di essere apprezzate in sè e in relazione alle altre emergenze istruttorie.
La ricorrente mira ad un inammissibile rinnovazione della valutazione di merito delle prove.
Per gli Ermellini, le critiche mosse dalla parte ricorrente non espongono il malgoverno di tali norme, ma lamentano che nel valutare il materiale istruttorio il Tribunale abbia ritenuto inattendibile la deposizione di uno dei testi e considerato generiche quelle degli altri. E ’ evidente, dunque, che la censura persegue il ben diverso obiettivo di criticare l’apprezzamento delle prove, allo scopo di provocarne una rinnovata, ma inammissibile in questa sede, valutazione di merito. Da qui, il rigetto del ricorso.
Una breve riflessione
L’ordinanza in rassegna riveste notevole importanza in quanto si pone in contrasto con precedente orientamento della stessa Corte (cfr. Cass. civ. n.11299/2011).
A ben vedere, però, non si tratta di contrasto vero o proprio, ma di conclusioni diverse muovendo da presupposti in fatto diversi. Nella motivazione della sentenza n.11299/2011 la Suprema Corte ebbe a chiarire che di fronte al contrasto tra dispositivo e motivazione, una decisione doveva considerarsi nulla (ex art. 156 comma 2° c.p.c.) tutte le volte in cui non fosse stato possibile evincere il dictum del giudice. Con la stessa sentenza, la Suprema Corte ebbe a chiarire che ciò si verifica in caso di puntuale e insanabile contrasto fra motivazione e dispositivo, non potendosi fare ricorso alla procedura di correzione ex art. 287 c.p.c., che presuppone la rilevabilità immediata dell’errore materiale commesso nella redazione dell’atto.
Ne consegue – a detta della Suprema Corte con la sentenza del 2011 – che allorchè via sia un insanabile contrasto fra tra motivazione e dispositivo della sentenza, tale da non rendere identificabile la reale portata del provvedimento, sussiste una nullità che deve essere fatta valere con i mezzi di impugnazione, non potendosi individuare la statuizione del giudice attraverso una valutazione di prevalenza di una delle contrastanti affermazioni contenute nella decisione, né attraverso una interpretazione complessiva di essa.
Con l’ordinanza in rassegna (n.19111 del 2015), la Suprema Corte ci dice altro. Ci dice che, tranne il caso in cui il contrasto tra motivazione e dispositivo incida sulla idoneità del provvedimento, considerato complessivamente nella totalità delle sue componenti testuali, a rendere conoscibile il contenuto della statuizione giudiziale, il contrasto può essere emendato solo attraverso il procedimento di correzione dell’errore materiale, senza necessità di ricorrere al procedimento di impugnazione ovvero alla revocazione della sentenza per errore di fatto.
Il problema, allora, resta quello di individuare quando il contrasto tra motivazione e dispositivo incida sulla idoneità del provvedimento a rendere conoscibile il contenuto della statuizione giudiziale.
Nel caso di specie, la Suprema Corte, pur a fronte della assenza di una intera pagina, ricostruisce il contenuto del provvedimento attraverso quattro considerazioni di carattere logico, ma affatto scontate.
Come dire, la Corte di legittimità ha statuito che, nella specie, non fosse necessario impugnare ma sarebbe bastato attivare il procedimento di correzione dell’errore. Solo che, a ben vedere, non si tratta di un errore marginale, ma della assenza di diverse statuizioni che sono state ricostruite in maniera non del tutto semplice.
Dunque, ci troviamo, ancora una volta, davanti ad un principio chiaro e condivisibile, almeno dal punto di vista teorico. Meno chiaro ed attuabile senza margini di errore, da un punto di vista pratico.
avv. Filippo Pagano (f.pagano@clouvell.com)
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