Corte di Cassazione – sezione seconda civile – sentenza n. 17440 del 2 settembre 2015

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Considerato in diritto

1. – Con l’unico motivo di ricorso gli odierni ricorrenti lamentano violazione e falsa applicazione di norme di diritto in relazione agli artt. 4, 11, 13 e 161 del d.lgs. n. 196 del 2003, violazione dei principi generali in materia di tutela dei dati personali ed omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, dolendosi che l’interpretazione fornita dal Tribunale di Palmi sulla nozione di dato personale contrasti con la normativa del Codice, introducendo un’esimente non prevista dal legislatore.

2. – Il ricorso proposto dal Ministero dell’interno è inammissibile.

Come si è rilevato, il Tribunale di Palmi ha dichiarato il difetto di legittimazione passiva del Ministero, il quale quindi in tanto avrebbe potuto impugnare la sentenza in quanto avesse denunciato la erroneità della sentenza impugnata sul punto; ma nel ricorso in esame non vi è alcuna censura diretta a criticare la statuizione di difetto di legittimazione passiva del Ministero dell’interno.

3. Il ricorso dell’Autorità garante per la protezione dei dati personali è fondato.

3.1. – Occorre premettere che il giudice di merito ha accertato che l’attività oggetto di contestazione (installazione di una videocamera per rilevare le presenze nel locale al piano terra onde consentire al titolare di controllare dal laboratorio, collocato su un soppalco, gli accessi al locale stesso) integrasse un trattamento rilevante ai sensi dell’art. 4 del d.lgs. n. 196 del 2003.

In proposito, il Tribunale ha ritenuto, alla luce della definizione contenuta nell’art. 4 citato, irrilevante che la videocamera installata non fosse destinata alla registrazione, atteso che, alla luce della definizione legislativa, integra trattamento anche la mera attività di raccolta di dati personali.

Ai sensi del comma l, lettera a), dell’art. 4 d.lgs. n. 196 del 2003, infatti, costituisce “”trattamento”, qualunque operazione o complesso di operazioni, effettuati anche senza l’ausilio di strumenti elettronici, concernenti la raccolta, la registrazione, l’organizzazione, la conservazione, la consultazione, l’elaborazione, la modificazione, la selezione, l’estrazione, il raffronto, l’utilizzo, l’interconnessione, il blocco, la comunicazione, la diffusione, la cancellazione e la distruzione di dati, anche se non registrati in una banca di dati”.

Il Tribunale ha invece ritenuto di non poter ravvisare nella ripresa delle immagini di coloro che frequentavano il locale al piano terra la consistenza di un dato personale. Premesso che ai sensi del medesimo art. 4, comma 1, lettera b), costituisce “”dato personale”, qualunque informazione relativa a persona fisica, identificata o identificabile, anche indirettamente, mediante riferimento a qualsiasi altra informazione, ivi compreso un numero di identificazione personale”, il Tribunale ha ritenuto che l’immagine di una persona non potesse essere definita dato personale in assenza di elementi oggettivi che ne consentano una potenziale identificazione. In particolare, il Tribunale ha valorizzato le modalità e la funzione della videoripresa, finalizzata unicamente a consentire al titolare dell’esercizio di controllare l’accesso di persone sospette nel proprio locale al piano terreno per il tempo in cui lo stesso si trovava nel laboratorio collocato su un soppalco, in assenza di ogni potenziale identificabilità delle persone riprese – peraltro da un apparecchio di non elevata definizione – senza alcuna possibilità di registrazione delle immagini stesse. Il Tribunale ha fatto così applicazione del principio per cui “l’immagine di una persona, pur possedendo capacità identificativa del soggetto, quando viene trattata non integra automaticamente la nozione di “dato personale”, agli effetti del d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196, ma lo diviene qualora chi esegue il trattamento la correli espressamente ad una persona mediante didascalia od altra modalità, quale un’enunciazione orale, da cui sia possibile identificarla, restando invece irrilevante, in mancanza di tali indicazioni, la circostanza che chi percepisce l’Immagine sia in grado, per le sue conoscenze personali, di riconoscere la persona ritratta» (Cass. n. 12997 del 2009). E, su tale base, ha quindi ritenuto insussistente, nella specie, l’obbligo per il titolare dell’esercizio, di apporre l’informativa di cui all’art. 13 del d.lgs. n. 196 del 2003.

3.2. – Il Collegio ritiene che, nella vicenda oggetto di sanzione, sussistano entrambi gli elementi in presenza dei quali l’art. 13 prescrive l’obbligo di informativa: il trattamento, consistente nella raccolta delle immagini delle persone che accedono nel locale e vengono riprese da una videocamera non segnalata, e il dato personale.

Invero, ai fini che qui rilevano, non appare possibile dubitare del fatto che l’immagine costituisca dato personale, rilevante ai sensi dell’art. 4, comma l, lettera b), del d.lgs. n. 196 del 2003, trattandosi di dato immediatamente idoneo a identificare una persona, a prescindere dalla sua notorietà (come invece sembra supporre la citata pronuncia di questa Corte). Del resto, già Cass. n. 14346 del 2012 ha affermato che “non può dubitarsi, nonostante in dottrina sia stato sollevato qualche dubbio al riguardo, che anche l’immagine di una persona, in sé considerata, quando in qualche modo venga visualizzata o impressa, possa costituire “dato personale” ai sensi dell’art. 4, lett. b), del d.lgs. n. 196 del 2003, noto anche come “codice privacy”. In tal senso, invero, depongono specifiche decisioni del Garante per la protezione di dati personali (21 ottobre 1999; 4 ottobre 2007, 18 giugno 2009, n. 1623306), nonché la decisiva circostanza della previsione, nell’ambito del codice privacy, di una specifica norma (art. 134) in materia di videosorveglianza. Mette conto di richiamare, inoltre, la Convenzione n. 108/1981 del Consiglio d’Europa; la direttiva n. 95/46 CE, art. 2, lett. a), nonché il documento di lavoro sulla videosorveglianza WP67/2002, adottato il 25 novembre 2002 dal Gruppo dei Garanti europei costituito ai sensi dell’art. 29 della citata direttiva”.

3.3. – Nel caso di specie, se la possibilità della installazione della videocamera poteva ritenersi giustificata dalle esigenze di sicurezza prospettate dal titolare dell’esercizio commerciale, certamente la detta attività, integrante, come detto, trattamento di dati personali, avrebbe dovuto formare oggetto di apposita informativa ai sensi dell’art. 13 del d.lgs. n. 196 del 2003.

In proposito, il Provvedimento del Garante del 29 aprile 2004, applicabile ratione temporis, prevede che “a differenza dei soggetti pubblici, i privati e gli enti pubblici economici possono trattare dati personali solo se vi è il consenso preventivo espresso dall’interessato, oppure uno dei presupposti di liceità previsti in alternativa al consenso (artt. 23 e 24 del Codice). In caso di impiego di strumenti di videosorveglianza da parte di privati ed enti pubblici economici, la possibilità di raccogliere lecitamente il consenso può risultare, in concreto, fortemente limitata dalle caratteristiche e dalle modalità di funzionamento dei sistemi di rilevazione, i quali riguardano spesso una cerchia non circoscritta di persone che non è agevole o non è possibile contattare prima del trattamento. Ciò anche in relazione a finalità (ad es. di sicurezza o di deterrenza) che non si conciliano con richieste di esplicita accettazione da chi intende accedere a determinati luoghi o usufruire di taluni servizi”. Da qui la previsione che nel settore privato, fuori dei casi in cui sia possibile ottenere un esplicito consenso libero, espresso e documentato, vi può essere la necessità di verificare se esista un altro presupposto di liceità utilizzabile in alternativa al consenso, come indicato nel paragrafo successivo”. A tal fine, il citato Provvedimento prevede che «un’idonea alternativa all’esplicito consenso va ravvisata nell’istituto del bilanciamento di interessi (art. 24, coma 1, lett. g, del Codice). Il presente provvedimento dà attuazione a tale istituto, individuando i casi in cui la rilevazione delle immagini può avvenire senza consenso, qualora, con le modalità stabilite in questo stesso provvedimento, sia effettuata nell’intento di perseguire un legittimo interesse del titolare o di un terzo attraverso mezzi di prova o perseguendo fini di tutela di persone e beni rispetto a possibili aggressioni, furti, rapine, danneggiamenti, atti di vandalismo, finalità di prevenzione di incendi o di sicurezza del lavoro”. In particolare, con riferimento all’attività di videosorveglianza senza registrazione (rilevante nel caso di specie), si stabilisce che “nei casi in cui le immagini sono unicamente visionate in tempo reale, oppure conservate solo per poche ore mediante impianti a circuito chiuso (Cctv), possono essere tutelati legittimi interessi rispetto a concrete ed effettive situazioni di pericolo per la sicurezza di persone e beni, anche quando si tratta di esercizi commerciali esposti ai rischi di attività criminali in ragione della detenzione di denaro, valori o altri beni (es., gioiellerie, supermercati, filiali di banche, uffici postali)”.

La ricorrenza di condizioni legittimanti l’attività di videosorveglianza comporta peraltro l’assoggettamento dell’attività all’obbligo di informativa, di cui all’art. 13 del d.lgs. n. 196 del 2003, a norma del quale “1. L’interessato o la persona presso la quale sono raccolti i dati personali sono previamente informati oralmente o per iscritto circa: a) le finalità e le modalità del trattamento cui sono destinati i dati; b) la natura obbligatoria o facoltativa del conferimento dei dati; e) le conseguenze di un eventuale rifiuto di rispondere; d) i soggetti o le categorie di soggetti ai quali i dati personali possono essere comunicati o che possono venirne a conoscenza in qualità di responsabili o incaricati, e l’ambito di diffusione dei dati medesimi; e) i diritti di cui all’articolo 7; f) gli estremi identificativi del titolare e, se designati, del rappresentante nel territorio dello Stato ai sensi dell’articolo 5 e del responsabile.

Con specifico riferimento alla videosorveglianza, il già ricordato Provvedimento del 29 aprile 2004, prevede al paragrafo 3 che “gli interessati devono essere informati che stanno per accedere o che si trovano in una zona videosorvegliata e dell’eventuale registrazione; ciò anche nei casi di eventi e in occasione di spettacoli pubblici (concerti, manifestazioni sportive) o di attività pubblicitarie (attraverso web cam). L’informativa deve fornire gli elementi previsti dal Codice (art. 13) anche con formule sintetiche, ma chiare e senza ambiguità”, con la precisazione che il Garante ha individuato, ai sensi dell’art. 13, comma 3, del Codice un modello semplificato di informativa “minima””, riportato in allegato. “Il supporto con l’informativa: deve essere collocato nei luoghi ripresi o nelle immediate vicinanze, non necessariamente a contatto con la telecamera; deve avere un formato ed un posizionamento tale da essere chiaramente visibile; può inglobare un simbolo o una stilizzazione di esplicita e immediata comprensione, eventualmente diversificati se le immagini sono solo visionate o anche registrate.

3.4. – Discende dalle considerazioni sin qui svolte che: il titolare della (Omissis) poteva procedere alla videosorveglianza del piano terra del proprio locale; tale attività integra un “trattamento di dati personali” ai sensi dell’art. 4, lettere a) e b), del d.lgs. n. 196 del 2003, riguardando la “raccolta” l'”immagine” delle persone; la detta attività avrebbe dovuto formare oggetto di informativa rivolta ai soggetti che accedevano al locale ove era installata la videocamera, con le forme di cui alla citata regolamentazione.

Il (Omissis) a tanto non ha provveduto, sicché la sentenza impugnata, che ha accolto l’opposizione avverso la sanzione comminata dall’Autorità garante, in accoglimento del ricorso proposto da quest’ultima, va cassata.

Tuttavia, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito, ai sensi dell’art. 384, secondo comma, cod. proc. civ., con il rigetto dell’opposizione.

Le spese dell’intero giudizio possono essere compensate tra le parti in considerazione dei dubbi interpretativi derivanti anche da pronunce di questa Corte.

PER QUESTI MOTIVI

La Corte dichiara inammissibile il ricorso del Ministero dell’interno; accoglie il ricorso dell’Autorità garante per la protezione dei dati personali e, decidendo la causa nel merito, rigetta l’opposizione del (Omissis)

Compensa le spese dell’intero giudizio.

Cosi deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Seconda Sezione civile della Corte suprema di Cassazione.

 

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