Per la valutazione a fini fiscali delle manovre sui prezzi di trasferimento interni, costituenti il cd. “transfer pricing domestico”, va applicato il principio, avente valore generale, stabilito dall’art.9 del d.p.r. n.917 del 1986, che non ha soltanto valore contabile e che impone, quale criterio valutativo, il riferimento al normale valore di mercato per corrispettivi e altri proventi, presi in considerazione dal contribuente. Ciò in applicazione del divieto di abuso del diritto, che preclude al contribuente il conseguimento di vantaggi fiscali ottenuti mediante l’uso distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei a ottenere agevolazioni o risparmi d’imposta, in difetto di ragioni diverse dalla mera aspettativa di quei benefici.
Lo ha ribadito la Suprema Corte di Cassazione – sezione sesta civile – con sentenza n. 12844 del 22 giugno 2015
Il caso
Una società impugnava innanzi la competente Commissione Tributaria un avviso di accertamento IVA-IRES IRAP per l’anno 2004, e la Commissione accoglieva il ricorso affermando la illegittimità dell’impugnato avviso.
La sentenza viene confermata dalla Commissione Tributaria Regionale della Lombardia, adita su appello dell’Agenzia delle Entrate. Dunque, anche la Commissione Regionale affermava la illegittimità dell’impugnato avviso di accertamento. Da qui il ricorso per cassazione.
La Suprema Corte accoglie il ricorso dell’Ufficio in quanto non si può escludere che una operazione di “transfer pricing domestico”, fra società operanti in Italia, possa dar luogo ad una elusione fiscale, e che nella valutazione del comportamento delle società coinvolte si debba fare riferimento ai principi di cui all’art.9 del d.p.r. n.917 del 1986.
Il giudice di merito infatti si limita ad escludere – prosegue la Suprema Corte – che nel caso si specie la Amministrazione abbia fornito idonea prova dell’operazione economica. Questo profilo della sentenza impugnata è però correttamente contestata nel secondo motivo di ricorso ove si indicano profili dell’operazione infragruppo che il giudice di seconde cure non ha adeguatamente valutato; quali il notevole divario rispetto alle indicazioni OMI e la sospetta operazione societaria posta in essere a pochi mesi dalla conclusione del contratto.
Sarà dunque compito del giudice di merito – conclude la Corte – procedere ad una nuova valutazione delle circostanze, anche valutando se dalla operazione compiuta sia derivato un vantaggio fiscale per la contribuente.
Il principio di diritto
I giudici di piazza Cavour si rifanno alla giurisprudenza (sent. 17955 del 24 luglio 2013) secondo cui “per la valutazione a fini fiscali delle manovre sui prezzi di trasferimento interni, costituenti il cd. “transfer pricing domestico”, va applicato il principio, avente valore generale, stabilito dall’art.9 del d.p.r. n.917 del 1986, che non ha soltanto valore contabile e che impone, quale criterio valutativo, il riferimento al normale valore di mercato per corrispettivi e altri proventi, presi in considerazione dal contribuente. Ciò in applicazione del divieto di abuso del diritto, che preclude al contribuente il conseguimento di vantaggi fiscali ottenuti mediante l’uso distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei a ottenere agevolazioni o risparmi d’imposta, in difetto di ragioni diverse dalla mera aspettativa di quei benefici”.
Per gli Ermellini, tale principio, da un lato, trova fondamento in radici comunitarie a salvaguardia delle risorse proprie dell’UE e nei principi costituzionali di capacità contributiva e imposizione progressiva; dall’altro, non contrasta con il principio della riserva di legge, traducendosi nel disconoscimento di effetti abusivi di negozi posti in essere allo scopo di eludere l’applicazione di norme fiscali.
Le manovre sui prezzi di trasferimento interni.
Tra tali operazioni rientrano le manovre sui prezzi di trasferimento interni, motivate dalla convenienza, in ambito nazionale di trasferire la materia imponibile, agendo sui prezzi negoziati per le cessioni di beni e le prestazioni di servizi “intercompany”. Si tratta del fenomeno del cd. “transfer pricing domestico” (cfr. anche la sentenza n.7716 del 27 marzo 2013).
Una breve riflessione
La sentenza in rassegna riveste notevole importanza perché detta principi interpretativi sulla cd. elusione fiscale.
Come è noto la elusione fiscale si distingue (e se ne differenzia) dalla evasione (fiscale) in quanto, a differenza di quest’ultima, è una pratica giuridicamente lecita, anche se incontra lo sfavore della normativa speciale in materia fiscale. Mentre, a contrario, la evasione fiscale presuppone la violazione di specifiche norme da parte del contribuente.
Ora, il fenomeno del “transfer pricing domestico” consiste proprio in manovre sui prezzi di trasferimento interni, motivate dalla convenienza, in ambito nazionale, di trasferire la materia imponibile, agendo sui prezzi negoziati per le cessioni di beni e le prestazioni di servizi “intercompany”. Operazioni in sé stesse perfettamente lecite, ma che diventano illecite allorquando (e qui sta proprio la elusione) il contribuente, abusando del diritto, riesce a conseguire, attraverso tali manovre, dei vantaggi fiscali quali agevolazioni o risparmi d’imposta, in difetto di ragioni diverse dalla mera aspettativa di tali benefici.
Pertanto, attraverso una norma, l’articolo 9 del TUIR, che al comma 3 prevede che “per valore normale (…), si intende il prezzo o corrispettivo mediamente praticato per i beni e i servizi della stessa specie o similari, in condizioni di libera concorrenza e al medesimo stadio di commercializzazione, nel tempo e nel luogo in cui i beni o servizi sono stati acquisiti o prestati, e, in mancanza, nel tempo e nel luogo piu’ prossimi”, viene in pratica ad essere considerato illegittimo il “transfer pricing domestico” che abbia come unica finalità proprio quello di ottenere benefici o vantaggi fiscali.
Dunque, il sistema fiscale italiano, attraverso norme come quella testè richiamata, tende a preservare a garantire i principi di capacità contributiva e di imposizione progressiva.
Ovviamente, il contribuente potrà dimostrare il contrario e quindi provare che le manovre di prezzo trovano una spiegazione diversa che non è il conseguimento di vantaggi fiscali. Ma, nei fatti, tale dimostrazione non sarà affatto agevole in quanto l’Ufficio, e quindi i giudici tributari, daranno rilievo a determinati indici rivelatori di un comportamento, nel suo complesso, elusivo delle norme fiscali.
avv. Filippo Pagano (f.pagano@clouvell.com)
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