SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
La Corte d’appello di Genova con sentenza del 24 febbraio 2009, in riforma della decisione del Tribunale di Savona, ha respinto le domante proposte dalla (Omissis) contro (Omissis), volte alla condanna del medesimo, ex agente della società, alla cessazione di ogni attività di sviamento della clientela ed al risarcimento del danno.
Ha ritenuto la corte territoriale, per quanto ancora rileva, che non fosse provato il rapporto di agenzia, caratterizzato da continuità e stabilità dell’attività agenziale, ma un mero rapporto di procacciamento di affari, privo di vincolo di stabilità e derivante unicamente dall’iniziativa del procacciatore.
Ha ancorato tale conclusione alla mancanza di un atto scritto, usuale nei contratti di agenzia anche con riguardo alla contrattazione collettiva; all’omessa allegazione di qualsiasi elemento caratterizzante un tale rapporto, quali la misura delle provvigioni e l’epoca di conclusione del preteso contratto; all’esistenza in atti di appena quattro fatture per provvigioni emesse dal (Omissis), peraltro per percentuali sempre diverse; alla circostanza che la C.S.A. vendeva direttamente o tramite altri ai clienti nella pretesa zona di esclusiva, senza obbligo di corrispondere alcunché al (Omissis), come avrebbe invece dovuto in presenza di un rapporto di agenzia; al riferimento nelle lettere ad un generico “rapporto di lavoro”. Né era stato riconosciuto un rapporto agenziale negli scritti difensivi del (Omissis), che aveva in comparsa chiesto il rigetto della domanda ed in conclusionale espressamente negato l’esistenza del rapporto stesso.
Posto, dunque, che nessun vincolo di esclusiva era stato dimostrato in capo al procacciatore, neppure dopo la cessazione dei loro rapporti risultava provato lo sviamento della clientela.
Avverso questa sentenza viene proposto ricorso per cassazione dal socio ed ex liquidatore della società, cancellata dal registro delle imprese il 30 dicembre 2008, sulla base di quattro motivi. Non svolge difese l’intimato.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo, il ricorrente deduce la violazione e la falsa applicazione degli art. 112, 115, 116 e 167 c.p.c., perché la sentenza impugnata ha negato l’esistenza di un rapporto di agenzia, tuttavia non contestato in comparsa di risposta dal convenuto, ma solo in atti successivi.
Con il secondo motivo, censura ancora la violazione e la falsa applicazione degli art. 112, 115, 116 e 167 c.p.c., perché la sentenza impugnata non ha considerato che l’avere il convenuto sostenuto come i clienti avessero un rapporto personale con il medesimo, e fossero invece indifferenti in ordine al soggetto fornitore dei prodotti petroliferi, comportava la non contestazione dei presupposti di fatto del rapporto di agenzia.
Con il terzo motivo, deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 2598 c.c., perché la sentenza impugnata ha errato nel non ritenere illecita la condotta di un agente, o di un soggetto legato da vincolo contrattuale, che trasferisca la clientela ad altre imprese, avvalendosi dei propri rapporti
fiduciari e dell’indifferenza nei clienti circa l’identità del fornitore.
Con il quarto motivo, denuncia la violazione e la falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., in quanto l’onere di provare il fatto negativo (il mancato palesamento ai clienti che il combustibile proveniva da altre imprese) non poteva essere posto a carico della ricorrente e comunque l’onere poteva essere assolto provando il fatto positivo con esso compatibile, e con presunzioni.
Va premesso che il ricorrente è legittimato al ricorso, in virtù del subentro alla società già partecipata, e cancellatasi dal registro delle imprese nel corso del secondo grado di giudizio, quindi dopo la sentenza di primo grado di accertamento dell’illecito e di condanna al risarcimento del danno in favore della medesima società. Ne deriva che, come chiarito da questa Corte (Cass., sez. un., 12 marzo 2013, n. 6070-6072), ove una società si estingua a seguito di cancellazione dal registro delle imprese, le posizioni giuridiche attive – diritti e beni – si trasferiscono ai soci in regime di contitolarità o di comunione indivisa, secondo un fenomeno assimilabile alla successione a titolo universale; laddove, invece, l’estinzione della società per sopravvenuta cancellazione della stessa dal registro delle imprese in pendenza di un processo determina la perdita della capacità di stare in giudizio.
I primi due motivi, da trattare congiuntamente in quanto intimamente connessi, sono infondati.
Invero, non della contestazione di fatti si tratta, quanto della loro qualificazione giuridica, ovvero se si fosse in presenza di un rapporto di agenzia o di procacciamento di affari -ferma la presenza, sul piano fattuale, del reperimento di clientela per la società da parte del Rolfo – e la corte del merito ha risolto in punto di diritto in quest’ultimo senso. Sulla base dell’operata qualificazione del rapporto, essa ha escluso l’applicabilità dell’art. 1743 c.c., che vieta all’agente di assumere l’incarico di trattare nella stessa zona e per lo stesso ramo gli affari di più imprese in concorrenza tra loro.
Per giungere a tale qualificazione, la corte d’appello ha fatto corretta applicazione del principio secondo cui l’individuazione di un rapporto di agenzia richiede determinate caratteristiche (stabilità, assegnazione di una zona, assoggettamento alle istruzioni del preponente), in particolare necessarie per individuare, in luogo di un rapporto di procacciamento di affari, un vero e proprio rapporto di agenzia.
Quanto al profilo della dedotta “non contestazione” riferito ai fatti posti a base della predetta qualificazione giuridica del rapporto, occorre richiamare il principio (Cass. 2 maggio 2007, n. 10098; 16 marzo 2012, n. 4249) secondo cui, ove il giudice abbia proceduto, senza deduzioni in contrario, all’espletamento di un mezzo istruttorio in ordine all’accertamento del fatto, la successiva deduzione di parte in ordine all’altrui pregressa contestazione diventa inammissibile.
Infatti, il giudice può dare la propria interpretazione (come negazione della sussistenza di una non contestazione), anche in forma tacita, attraverso l’ammissione e l’espletamento del mezzo istruttorio diretto ad accertare il fatto. L’ammissione ed il conseguente espletamento dell’istruttoria diretta ad accertare il fatto costitutivo della domanda presuppongono, pertanto, che il giudice abbia ritenuto, anche senza espressamente affermarlo, che il fatto sia stato contestato. E, nella specie, il ricorrente non allega in alcun modo di avere rilevato la pretesa altrui non contestazione del rapporto in primo grado, né di essersi opposto a qualsiasi ammissione probatoria al riguardo proprio in ordine a tale ragione, al contrario lasciando che fosse ammesso ed espletato il mezzo istruttorio diretto all’accertamento del fatto. In sostanza, si ravvisa la pur tacita condivisione, ad opera delle parti (che non abbia reagito idoneamente alla stessa) alla interpretazione del giudice circa l’insussistenza di una non contestazione.
Emerge, dunque, l'”affidamento” dell’accertamento del fatto costitutivo al giudice: onde, a seguito dell’espletamento del mezzo istruttorio, la successiva deduzione (che una parte effettui) dell’altrui pregressa non contestazione va reputata inammissibile.
Il terzo motivo è infondato.
Non ha pregio la pretesa di sostenere che il fatto stesso della pluralità delle ditte fornitrici di cui il convenuto si avvaleva, quale che fosse la natura del suo rapporto con l’attrice, dimostrerebbe la concorrenza sleale.
Ed invero, attesa la natura stessa del rapporto, sopra ricordata, nulla vieta ad un procacciatore di affari di operare per più committenti; neppure la dedotta l’indifferenza dei consumatori del prodotto rispetto alla ditta produttrice dimostra che vi sia stata una qualche attività illecita del procacciatore per sviare la clientela dall’una all’altra di tali ditte.
Il quarto motivo non coglie parimenti nel segno.
Non si trattava, nella specie, della violazione dei principi in tema di onere della prova su fatti negativi, in quanto l’asserito sviamento di clientela – che era il fatto costitutivo della pretesa da provare – non è un fatto negativo e la relativa prova gravava certamente sull’attrice.
Nulla sulle spese di lite, non svolgendo difese l’intimato.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 28 maggio 2015.