RITENUTO IN FATTO
(Omissis), rappresentata dall’avvocato di fiducia (Omissis), ricorre per Cassazione avverso l’ordinanza emessa dal Tribunale della Libertà di Catanzaro in data 15.07.2014, con la quale è stato rigettato il ricorso avverso l’ordinanza del GIP di Castrovillari del 24.06.2014 con cui veniva applicata nei suoi confronti la misura cautelare degli arresti domiciliari, ritenendo sussistenti gravi indizi di colpevolezza dei reati a lei ascritti di cui al capo A) ex artt. 110, 628 co.3 nn. 2 e 3 bis, 61 n. 5 cod.pen.; e al capo B) ex artt. 110, 56, 624 bis, 625 n.5, 61 n.5. cod. pen.) dell’imputazione provvisoria.
Chiedendo l’annullamento del provvedimento impugnato, deduce:
A) Ai sensi dell’articolo 606 lett. b) cod.proc.pen, la violazione e falsa applicazione della legge penale in relazione all’articolo 273 cod. proc. pen. La ricorrente si duole del fatto che l’attività investigativa posta in essere non consentiva di delineare il grave quadro probatorio richiesto dalla norma citata, posto che l’intera piattaforma indiziaria a suo carico era costituita dalle dichiarazioni rese dalle parti offese che avrebbero dovuto essere valutate compiutamente e nell’interezza degli elementi addotti dalla difesa, attività che il Tribunale avrebbe completamente omesso di compiere.
B) Ai sensi dell’articolo 606 lett. e) cod.proc.pen. la contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, per aver ritenuto sussistenti i gravi indizi di colpevolezza richiesti ex art. 275 cod.proc.pen. ai fini dell’applicazione della misura cautelare, laddove i numerosi dati fattuali presentati dalla difesa non avrebbero consentito di ritenere credibile la prospettazione dei fatti operata dalla presunta persona offesa, né la sussistenza di un grave quadro probatorio.
C) Ai sensi dell’articolo 606 lett. b) ed e) cod.proc. pen., l’inosservanza ed erronea applicazione della legge penale in relazione all’articolo 628 cod.pen. per aver giuridicamente qualificato i fatti contestati come rapina essendosi invece trattato, secondo la difesa, di un incontro di natura sessuale; nonché l’illogicità della motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza dell’elemento materiale della violenza e della minaccia, invece del tutto inesistente.
D) Ai sensi dell’articolo 606 lett. b) ed e) cod. proc. pen., la violazione di legge penale in relazione all’articolo 274 cod. proc.pen., nonché l’omessa e contraddittoria motivazione in relazione al fatto che il Tribunale del riesame avrebbe ritenuto, in modo del tutto carente ed illogico, la sussistenza di elementi idonei da cui desumere il concreto pericolo di fuga.
E) Ai sensi dell’articolo 606 lett, e) cod. proc. pen., la manifesta illogicità della motivazione in ordine all’affermata sussistenza del pericolo di reiterazione di delitti della stessa specie di quelli per cui si procede.
F) Ai sensi dell’articolo 606 lett.b) cod. proc. pen., l’inosservanza ed erronea applicazione della legge penale in relazione all’articolo 275 cod.proc. pen., in relazione al fatto che il Tribunale avrebbe applicato la misura cautelare degli arresti domiciliari senza l’osservanza dei requisiti di proporzionalità ed adeguatezza richiesti dalla legge, attraverso una motivazione basata su di una mera formula di stile che difetta di adeguata ponderazione circa la speciale condizione della indagata, donna incinta con ripetute minacce di aborto e madre di prole sotto i tre anni.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è manifestatamente infondato.
Posto che i primi due motivi di ricorso possono essere valutati in modo unitario, questa Corte osserva che, per quanto riguarda la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza, non vengono sostanzialmente sollevate censure se non relative ad elementi di fatto, che non possono trovare ingresso in questa sede in quanto il ragionamento dei Giudici del riesame non è abnorme; al contrario lo stesso risulta essere stato formulato tramite un iter argomentativo scevro da vizi di logicità, coerente con le risultanze processuali nonché aderente ai principi di diritto.
Più specificamente, in merito al giudizio di validità delle dichiarazioni rese dalla persona offesa, giova ricordare il consolidato principio di diritto, condiviso dal Collegio, secondo cui le dichiarazioni di un testimone anche se si tratti della persona offesa, per essere positivamente utilizzate dal giudice, devono risultare credibili, oltreché avere ad oggetto fatti di diretta cognizione e specificamente indicati, con la conseguenza che, contrariamente ad altre fonti di conoscenza, come le dichiarazioni rese da coimputati o da imputati in reati connessi, esse non abbisognano di riscontri esterni, il ricorso eventuale ai quali è funzionale soltanto al vaglio di credibilità del testimone. ( ex multis sent. n. 11829 del 26.08.1999 – rv.215247). Inoltre le dichiarazioni rese dalla persona offesa, sottoposte ad un attento controllo di credibilità, possono essere assunte, anche da sole, come prova della responsabilità dell’imputato, senza che sia indispensabile applicare le regole probatorie di cui all’art. 192 commi terzo e quarto cod. proc. pen., che richiedono la presenza di riscontri esterni ( sent. n. 33162 del 03.06.2004 – rv. 229755; sent. n. 29372 del 24.06.2010 – rv. 248016). Pertanto a base del libero convincimento del giudice possono essere poste sia le dichiarazioni della parte offesa sia quelle di un testimone legato da stretti vincoli di parentela con la medesima. Ne consegue che la deposizione della persona offesa dal reato, pur se non può essere equiparata a quella del testimone estraneo, può tuttavia essere assunta anche da sola come fonte di prova, ove sia sottoposta a un attento controllo di credibilità oggettiva e soggettiva, non richiedendo necessariamente neppure riscontri esterni, quando non sussistano situazioni che inducano a dubitare della sua attendibilità ( ex multis sent. n. 6910 del 27. 04. 1999 – rv. 213616).
In aggiunta, giova altresì ricordare la consolidata giurisprudenza, pure condivisa dalla Corte, in tema di riconoscimento fotografico del reo, secondo cui l’individuazione di un soggetto – sia personale che fotografica – è una manifestazione riproduttiva di una percezione visiva e rappresenta una specie del più generale concetto di dichiarazione; pertanto la sua forza probatoria non discende dalle modalità formali del riconoscimento, bensì dal valore della dichiarazione confermativa, alla stessa stregua della deposizione testimoniale (sent. n. 1867 del 21.02.2013 – rv. 258173. Il giudice di merito può trarre dunque il proprio convincimento da ogni elemento probatorio o indiziante e, quindi, anche da ricognizioni informali e da riconoscimenti fotografici, che vanno tenuti distinti dalla ricognizione personale prevista dall’art. 213 cod. proc. pen. Egli, pertanto, nell’ambito dei poteri discrezionali di valutazione che l’ordinamento gli riconosce, può attribuire concreto valore indiziante o probatorio all’identificazione dell’autore del reato mediante riconoscimento fotografico, costituente accertamento di fatto utilizzabile in virtù dei principi della non tassatività dei mezzi di prova e del libero convincimento, i quali consentono il ricorso non solo alle cosiddette prove legali ma anche ad elementi di giudizio diversi, purché non acquisiti in violazione di specifici divieti. (sent. n. 4580 del 05.04.1996 – rv. 204661).
Orbene, uniformandosi alla sopra citata giurisprudenza, il Tribunale del riesame ha provveduto a motivare la ritenuta sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza in modo pieno ed esaustivo, provvedendo a valutare con coerenza e oggettività le emergenze investigative presenti negli atti processuali, basate su plurimi, precisi e convergenti dati quali: le denunce e le dichiarazioni sporte dalle pp.oo., la sommaria descrizione ed il successivo riconoscimento fotografico operato dal figlio di una delle vittime nonché gli esiti del controllo eseguito dalla Polizia.
In merito al terzo motivo di doglianza, questo Collegio rileva che la ricostruzione alternativa dei fatti, così come operata dalla difesa, non può trovare ingresso in questa sede in quanto il Tribunale della Libertà ha provveduto a motivare se alcuna lacuna di logicità, nonché coerentemente con le risultanze processuali.
Nella specie, si ribadisce il consolidato principio di diritto secondo cui il concetto di violenza rilevante ex art. 628 cod.pen. non va inteso soltanto nel senso ristretto di esplicazione di un’energia fisica direttamente sulla persona del derubato, ovvero come violenza fisica, consistente nella coartazione materiale dinamicamente esercitata sulla persona offesa, da parte dell’agente, allo scopo di assicurarsi il possesso della cosa sottratta ovvero di procurare a sé o ad altri l’impunità. Esso ricomprende, infatti, qualsiasi atto o fatto posto in essere dall’agente che si risolva comunque nella coartazione della libertà fisica o psichica del soggetto passivo che viene così indotto, contro la sua volontà a fare, tollerare o omettere qualche cosa indipendentemente dall’esercizio su di lui di un vero e proprio costringimento fisico ( sent. n. 1176 del 11.10.2012).
Pertanto il Tribunale del riesame ha correttamente ritenuto di qualificare i fatti come costitutivi della fattispecie delittuosa ex art. 628, posto che anche l’assenza di lesioni, laddove sussista pur sempre una coartazione della libertà della persona offesa, è pur sempre indice di violenza.
Senza peraltro considerare il fatto, di per sé chiarificatore, per cui le dichiarazioni della persona offesa, giustamente ritenute attendibili, contrastano con quanto sostenuto dalla difesa, dato che questi avrebbe riferito di essere stato prima afferrato violentemente da un braccio, e poi bloccato e minacciato dall’imputata.
Per quanto concerne la mancanza di elementi idonei a sostenere il pericolo di fuga, prospettata dalla difesa nel quarto motivo di gravame, si rileva che i Giudici di merito hanno spiegato con coerenza logico- giuridica le ragioni per cui, invece, tale concreto pericolo è ritenuto sussistente in capo alla ricorrente e, di conseguenza, idoneo ex art. 274 cod. proc. pen. a giustificare l’applicazione della misura cautelare.
A tale riguardo, giova ricordare il consolidato orientamento giurisprudenziale, che questa Corte condivide, secondo cui la sussistenza del pericolo di fuga ai fini dell’art. 274, comma primo lett. b) cod. proc. pen. non deve essere desunta esclusivamente da comportamenti materiali che rivelino l’inizio dell’allontanamento o una condotta indispensabilmente prodromica (come l’acquisto del biglietto o la preparazione dei bagagli), essendo sufficiente stabilire, in base tra l’altro alla concreta situazione di vita del soggetto, alle sue frequentazioni, ai precedenti penali, ai procedimenti in corso, un reale ed effettivo pericolo, pur sempre interpretato come giudizio prognostico e non come mera constatazione di un avvenimento “in itinere” che, proprio per tale carattere può essere difficilmente interrotto ed eliminato con tardivi interventi. ( ex multis sent. n. 24223 del 25.05.2005 – rv.232065).
Orbene, non può che ritenersi corretta la valutazione operata dal Tribunale del riesame che, in modo aderente al sopracitato principio di diritto, ha ritenuto indubbiamente sussistere il concreto pericolo di fuga della (Omissis), soprattutto alla luce del fatto che la ricorrente, di origine straniera, non risulta avere fissa dimora e, ciononostante, è apparsa dotata di indubbie capacità organizzative nonché di mezzi adeguati a compiere rapidi allontanamenti.
Con riferimento al quinto motivo di gravame, la Corte ritiene che il Tribunale abbia provveduto a spiegare con coerenza logico giuridica le ragioni in base alle quali deve ritenersi concreto il pericolo di una possibile recidivanza dell’attività criminosa da parte dell’imputata.
Difatti, i Giudici del riesame al fine di compiere un’accurata e coerente valutazione degli elementi posti a base di una tale decisione hanno, giustamente, sottolineato la personalità negativa dell’indagata, peraltro già gravata da un precedente, oltre che la sua spiccata propensione criminosa che emerge inequivoca non solo dalle circostanze e modalità dei fatti criminosi, che in quanto frutto di pianificazione ed organizzazione si dimostrano come un chiaro indice di condotta non occasionalmente delittuosa, ma anche in ragione del fatto che la scelta delle vittime è ricaduta su due persone anziane ed inermi.
Tali considerazioni sono tutte puntualmente elencate nell’ordinanza che, pertanto, si presenta perfettamente aderente al consolidato principio di diritto, condiviso dalla Corte, secondo cui in tema di misure cautelari personali, il parametro della concretezza del pericolo di reiterazione di reati della stessa indole non può essere affidato ad elementi meramente congetturali ed astratti, ma a dati di fatto oggettivi ed indicativi delle inclinazioni comportamentali e della personalità dell’indagato, tali da consentire di affermare che quest’ultimo possa facilmente, verificandosene l’occasione, commettere detti reati ( sent. n. 38763 del 08.03.2012 – rv.253372). In tema di misure cautelari personali, ai fini della valutazione del pericolo che l’imputato commetta delitti della stessa specie, il requisito della concretezza non si identifica con quello dell’attualità, derivante dalla riconosciuta esistenza di occasioni prossime favorevoli alla commissione di nuovi reati, ma con quello dell’esistenza di elementi concreti sulla base dei quali è possibile affermare che l’imputato possa commettere delitti della stessa specie di quello per cui si procede, e cioè che offendano lo stesso bene giuridico (sent. n. 28618 del 03.07.2013 – rv.255857).
Infine, per quanto concerne l’ultimo motivo di gravame, la Corte osserva che il Tribunale del riesame, al momento di valutare la perdurante idoneità della misura degli arresti domiciliari applicata alla (Omissis), ha motivato in modo coerente con le risultanze processuali, con la gravità dei fatti e la personalità dell’imputata e, soprattutto, ponendo in risalto le condizioni di salute della donna nella consapevolezza della sua gravidanza a rischio e della prole a suo carico. La motivazione dei Giudici del riesame, pertanto, ha provveduto ad applicare correttamente i criteri di proporzionalità ed adeguatezza richiesti dall’articolo 275 cod. proc. pen. dimostrando, altresì, una piena aderenza alla consolidata giurisprudenza secondo cui il principio di proporzionalità, al pari di quello di adeguatezza, opera come parametro di commisurazione delle misure cautelari alle specifiche esigenze ravvisabili nel caso concreto, tanto al momento della scelta e della adozione del provvedimento coercitivo, che per tutta la durata dello stesso, imponendo una costante verifica della perdurante idoneità della misura applicata a fronteggiare le esigenze che concretamente permangano o residuino, secondo il principio della minor compressione possibile della libertà personale ( SS.UU n. 16085 del 31.03.2011 – rv.249324).
Alla luce delle suesposte considerazioni il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, la ricorrente condannata al pagamento delle spese processuali e, considerati i profili di colpa emergenti dal ricorso, al versamento della somma di euro 1000,00 alla Cassa delle ammende.
PQM
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali, oltre al versamento della somma di euro 1.000,00 alla cassa delle ammende
Roma, 4 febbraio 2015