Nel rispetto del principio del contraddittorio, espresso dall’art. 101 cod. proc. civ., da sostanziali garanzie di difesa (art. 24 Cost.) e dal diritto alla partecipazione al processo in condizioni di parità (art. 111 Cost., comma 2) dei soggetti nella cui sfera giuridica l’atto finale è destinato ad esplicare i suoi effetti, nonché del principio di economia processuale, che impone al giudice di adottare interpretazioni delle norme processuali che non comportino un dispendio di ulteriori risorse, ove risulti escluso qualsiasi vantaggio o maggior beneficio per le parti, va esclusa anche nel caso di manifesta infondatezza del ricorso la necessità della fissazione di un termine per l’integrazione del contraddittorio o per la rinnovazione della notifica del ricorso nei confronti degli eventuali litisconsorti necessari pretermessi o non raggiunti da rituale notifica.
Lo ha stabilito la Suprema Corte Cassazione – sezione terza civile – con sentenza n.11171 del 29 maggio 2015
Il caso
Dei soggetti, nell’ambito di una procedura di espropriazione immobiliare del Tribunale di Roma, resisi in data 31.1.08 aggiudicatari del lotto due, furono dichiarati decaduti dall’aggiudicazione per non avere corrisposto il saldo del prezzo entro il termine, previsto anche nell’ordinanza di vendita, di sessanta giorni, nonostante l’accoglimento, da parte del g.o.t., di un’istanza di rinvio, formulata dal notaio delegato, dell’udienza fissata per il versamento e la stipula del contratto di mutuo.
Avverso tale provvedimento del g.e., recante la data del dì 1.8.08, essi proposero opposizione agli atti esecutivi: la quale fu però rigettata dal Tribunale di Roma, con compensazione delle spese di lite nei rapporti tra gli opponenti e l’unico opposto costituito debitore. Da qui il ricorso per cassazione.
I motivi del ricorso.
I ricorrenti sviluppano quattro motivi, dolendosi:
- – col primo, di “violazione degli artt. 113, 152, 153 c.p.c., in relazione alla perentorietà del termine previsto dall’art. 574, 576 e 585 c.p.c. per il versamento del prezzo di aggiudicazione”;
- – col secondo, di vizio motivazionale in relazione all’esclusione di qualsiasi provvedimento di proroga da parte del giudice onorario;
- – col terzo, subordinato al primo, di “violazione degli artt. 113, 591 bis e 591 ter c.p.c. in riferimento alla richiesta di proroga del termine (ordinatorio) presentata dal Notaio delegato (art. 360 n. 5 c.p.c.)”;
- – col quarto, di “violazione degli art. 12 (preleggi), 184 bis, 580 e 587 c.p.c. in riferimento alla possibilità di concedersi termine per il versamento dei saldo prezzo o, in subordine, la restituzione della cauzione (art. 360 n. 3 c.p.c.)”.
Prima di affrontare l’oggetto del ricorso, la Suprema Corte esamina la diversa questione della apparente irritualità della notificazione del ricorso alle controparti, diverse dall’unica controparte costituita nel giudizio di merito in unico grado e ciò in quanto:
- – per alcune, la notifica non è andata a buon fine, senza che sia possibile conoscere degli eventuali ulteriori sviluppi del relativo procedimento;
- – per altre, la notifica ha luogo nei confronti di chi si adduce, ma non si prova, essere successore o rappresentante di quelle, né di cui si prova la sussistenza di valida procura, per il giudizio di opposizione, in capo all’avvocato destinatario della notifica;
- – per altre ancora, la notifica è operata agli avvocati di chi non era invece costituito nel giudizio di merito;
- – per altre, la notifica si opera presso la cancelleria della sezione esecuzioni immobiliari tribunale Roma;
- – in un caso, poi, la notifica nemmeno è richiesta.
Il diritto fondamentale ad una ragionevole durata del processo.
Per la Suprema Corte, il diritto fondamentale ad una ragionevole durata del processo (derivante dall’art. 111 Cost., comma 2 e dagli artt. 6 e 13 della Convenzione europea dei diritti del l’uomo e delle libertà fondamentali) impone al giudice (ai sensi degli artt. 175 e 127 cod. proc. civ.) di evitare e impedire comportamenti che siano di ostacolo ad una sollecita definizione dello stesso, tra i quali rientrano quelli che si traducono in un inutile dispendio di attività processuali e formalità superflue perché non giustificate dalla struttura dialettica del processo e, in particolare, dal rispetto effettivo del principio del contraddittorio, espresso dall’art. 101 cod. proc. civ., da sostanziali garanzie di difesa (art. 24 Cost.) e dal diritto alla partecipazione al processo in condizioni di parità (art. 111 Cost., comma 2) dei soggetti nella cui sfera giuridica l’atto finale è destinato ad esplicare i suoi effetti (cfr., per il caso di inammissibilità del ricorso, Cass. Sez. Un., ord. 22 marzo 2010, n. 6826; fra le tante ad essa seguite: Cass. 18 gennaio 2012, n. 690; Cass. 25 gennaio 2012, n. 1032; Cass., ord. 8 novembre 2012, n. 19317; Cass. 24 maggio 2013, n. 12995; Cass. 17 giugno 2013, n. 15106; Cass. 30 agosto 2013, n. 19975; Cass. 23 gennaio 2014, n. 1364).
L’estensione del principio già elaborato per l’ipotesi di inammissibilità anche all’ipotesi della manifesta infondatezza.
Per gli Ermellini, tale principio, per evidente identità di ratio, va applicato anche all’ipotesi di manifesta infondatezza del ricorso, ovvero allorché esso appaia, prima facie non meritevole di accoglimento (Cass. 29 febbraio 2012, n. 3132; Cass. 10 aprile 2012, n. 5695; Cass., ord. 18 luglio 2012, n. 12399; Cass., ord. 28 dicembre 2012, n. 23994; Cass. Sez. Un., 11 maggio 2013, n. 11523; Cass., ord. 24 maggio 2013, n. 13030).
La ratio sottesa al principio.
Infatti, per i giudici di piazza Cavour, anche in tale ipotesi né lo stesso ricorrente, né la parte pretermessa ricaverebbe alcun vantaggio concreto dalla partecipazione della seconda al giudizio, a maggior ragione – ma non solo – ove fosse poi a sua volta decaduta dal diritto ad un’autonoma impugnazione.
Il principio di diritto espresso dalla Suprema Corte.
In definitiva, nel rispetto dei principi già evidenziati – in uno a quello di economia processuale (sul punto, v. Cass., ord. 30 gennaio 2013, n. 2240), che impone al giudice di adottare interpretazioni delle norme processuali che non comportino un dispendio di ulteriori risorse, ove risulti escluso qualsiasi vantaggio o maggior beneficio per le parti, va esclusa anche nel caso di manifesta infondatezza del ricorso la necessità della fissazione di un termine per l’integrazione del contraddittorio o per la rinnovazione della notifica del ricorso nei confronti degli eventuali litisconsorti necessari pretermessi o non raggiunti da rituale notifica.
Una breve riflessione.
Inutile dire come il principio di diritto elaborato dalla Suprema Corte di cassazione con riferimento all’ipotesi di ricorso manifestamente infondato o che, prima facie, appare non meritevole di accoglimento, si ponga in linea con la elaborazione giurisprudenziale in tema di ricorso inammissibile.
Ed inutile dire che la identità di ratio giustifica l’estensione del principio nei termini espressi dalla Suprema Corte.
Non v’è dubbio ancora che “il diritto fondamentale ad una ragionevole durata del processo (derivante dall’art. 111 Cost., comma 2 e dagli artt. 6 e 13 della Convenzione europea dei diritti del l’uomo e delle libertà fondamentali) imponga al giudice (ai sensi degli artt. 175 e 127 cod. proc. civ.) di evitare e impedire comportamenti che siano di ostacolo ad una sollecita definizione dello stesso, tra i quali rientrano proprio quelli che si traducono in un inutile dispendio di attività processuali e formalità superflue perché non giustificate dalla struttura dialettica del processo e, in particolare, dal rispetto effettivo del principio del contraddittorio, espresso dall’art. 101 cod. proc. civ., da sostanziali garanzie di difesa (art. 24 Cost.) e dal diritto alla partecipazione al processo in condizioni di parità (art. 111 Cost., comma 2) dei soggetti nella cui sfera giuridica l’atto finale è destinato ad esplicare i suoi effetti”.
Il rischio che però si annida in tale interpretazione è che, in nome di una inammissibilità o manifesta infondatezza del ricorso, il contraddittorio non venga esteso ad altre parti che avevano comunque il diritto di contraddire (o aderire) e che, invece, non saranno mai vocate in jus.
Secondo le norme del codice di procedura civile, la integrazione del contraddittorio è un presupposto che sta “a monte” della inammissibilità e/o manifesta infondatezza del ricorso. Anche se le ragioni addotte a sostegno dell’orientamento de quo sono comprensibili, soprattutto in nome del giusto processo, bisogna chiedersi se sia “giusto” quel processo che stravolge, per così dire, le scansioni procedurali del codice.
Affermare, così come fa la Suprema Corte, che la integrazione del contraddittorio, nella richiamate ipotesi, costituirebbe un “inutile dispendio di attività processuali e formalità superflue” è, da questa prospettiva, una petizione di principio, giacché non si può ritenere, a priori, che la vocatio in jus di un soggetto nell’ambito di un processo incoato con ricorso inammissibile o manifestamente infondato sia attività necessariamente superflua.
Del resto, il giudice, nel caso di integrazione del contraddittorio con numerose parti (come nel caso in esame), ancora prima di “ascoltare” tutte le parti in causa, sarà chiamato primieramente a fare una valutazione sulla ammissibilità o manifesta infondatezza del ricorso, valutazione che sarà però imparziale ed incompleta proprio perché, come sopra detto, la integrazione del contraddittorio dovrebbe costituire uno sbarramento a qualsiasi pronuncia, sia essa in rito che in merito.
In conclusione, la sensazione che a volte si avverte è che oggi, in nome di un giusto processo, vengano sacrificati e bypassati istituti processuali che hanno costituito, per decenni, pietre miliari della elaborazione della dottrina e della giurisprudenza.
avv. Filippo Pagano (f.pagano@clouvell.com)
managing partner at clouvell (www.clouvell.com)