Non integra il delitto di invasione di terreni o di edifici la condotta di chi continui a possedere un bene altrui per essere subentrato nel possesso di esso a un ascendente (successio o accessio possessionis) in quanto, in tal caso, l’agente non partecipa alla condotta arbitraria invasione (semmai posta in essere dal suo dante causa), che costituisce la condotta tipica, necessaria per la consumazione del reato di cui all’art. 633 cod. pen.
Lo ha ribadito la Suprema Corte di Cassazione – sezione seconda penale – con sentenza n.17455 del 1° aprile 2015
Il caso
Un imputato ricorreva per cassazione avverso l’ordinanza del Tribunale emessa in sede di riesame che aveva confermato l’ordinanza del G.I.P. del Tribunale che aveva, a sua volta, disposto il sequestro preventivo di una costruzione nella sua disponibilità, abusivamente realizzata su area demaniale.
I motivi del ricorso
L’imputato propone quattro motivi di ricorso con il primo dei quali, per quel che qui rileva, si duole del fatto che il Tribunale non aveva considerato che egli aveva ottenuto la detenzione dell’area, ove è edificata la costruzione, da altro soggetto, legittimo detentore del terreno grazie alla concessione rilasciata nell’anno 1950 a sua volta al suo dante causa.
Nel rigettare il motivo, la Suprema Corte ricorda che la norma di cui all’art. 633 cod. pen.,, non è posta necessariamente a tutela di un diritto, ma di una situazione di fatto tra il soggetto e la cosa. Ne deriva che – per la Suprema Corte – deve escludersi la sussistenza del reato tutte le volte in cui il soggetto sia già “in possesso” del bene.
I principi richiamati dalla Suprema Corte.
In proposito, la Suprema Corte richiama i seguenti quattro principi:
- non integra il delitto di invasione di terreni o di edifici la condotta di chi continui a possedere un bene altrui per essere subentrato nel possesso di esso a un ascendente (Sez. 2, n. 36733 del 23/09/2010 Rv. 248293, in tema di sequestro preventivo di un fabbricato edificato sul demanio archeologico; nello stesso senso, Sez. 2 n. 23756 del 04/06/2009 Rv. 244667; Sez. 2 n. 43393 del 07/10/2003 Rv. 227653; Sez. 2 n. 4230 del 14/01/1994 Rv. 197419), in quanto, in tal caso, l’agente non partecipa alla condotta arbitraria invasione (semmai posta in essere dal suo dante causa), che costituisce la condotta tipica, necessaria per la consumazione del reato di cui all’art. 633 cod. pen.;
- il reato di invasione di terreni o edifici non ricorre laddove il soggetto, entrato legittimamente in possesso del bene, prosegua nell’occupazione contro la sopraggiunta volontà dell’avente diritto (Fattispecie in cui la detenzione dell’immobile aveva avuto inizio in virtù di regolare concessione) (Sez. 2, n. 51754 del 03/12/2013 Rv. 258063; Sez. 2, n. 51754 del 03/12/2013 Rv. 258063; Sez. 2, n. 4230 del 14/01/1994 Rv. 197419);
- commette il reato di invasione di terreno chi, sia pure autorizzato dal soggetto che lo detiene in concessione, occupa un terreno demaniale, in quanto non rientra nei poteri del concessionario di un bene demaniale la cessione a terzi del bene da lui detenuto (Sez. 2, n. 27314 del 05/06/2013 Rv. 256466; Sez. 3, n. 5900 del 09/03/1999 Rv. 213620);
- integra la condotta di invasione di terreni, che si connota per il requisito dell’arbitrarietà e non per il profilo di violenza che può anche mancare, l’utilizzazione dei manufatti abusivi su quei terreni realizzati, pur se alla realizzazione il soggetto che ne ha l’uso non abbia preso parte (Nella fattispecie, relativa all’uso di beni abusivamente costruiti su terreni demaniali, la Corte ha ritenuto che la condotta dell’imputato – prescindendo dalla responsabilità in ordine all’abuso edilizio – integrasse comunque il reato) (Sez. 2, n. 30130 del 09/04/2009 Rv. 244787).
Nella specie, la Suprema Corte, ha rilevato che “la cessione di un lotto del fondo demaniale per mq. 1500 disposta dalla legittima concessionaria in favore dell’indagato, non essendo consentita dalla legge, è priva di effetti giuridici e non può legittimare la detenzione da parte del detto indagato della costruzione in sequestro e dell’area sulla quale essa è edificata; e che tantomeno può legittimare tale detenzione il contratto di fitto stipulato dall’indagato con l’Agenzia del demanio nell’anno 2006, trattandosi di contratto che ha ad oggetto un’area (mq. 1153) più ristretta di quella di cui già in capo alla concessionaria (mq. 1500) e diversa rispetto a quella di sedime della costruzione in sequestro“.
Per tali motivi, la Suprema Corte rigetta il ricorso.
Una breve riflessione.
La sentenza in argomento riveste notevole importanza soprattutto con riferimento ai primi due dei quattro principi richiamati. Principi che interessano spesso l’interprete nella pratica giudiziaria.
Secondo il primo principio “non integra il delitto di invasione di terreni o di edifici la condotta di chi continui a possedere un bene altrui per essere subentrato nel possesso di esso a un ascendente in quanto, in tal caso, l’agente non partecipa alla condotta arbitraria invasione (semmai posta in essere dal suo dante causa), che costituisce la condotta tipica, necessaria per la consumazione del reato di cui all’art. 633 cod. pen”.
L’ipotesi è frequente nel caso di invasioni arbitrarie commesse da un soggetto che “lascia” ai figli il bene (da lui previamente occupato arbitrariamente) in eredità. Il figlio, quale erede, subentra nel possesso del suo dante causa senza partecipare alla condotta di arbitraria invasione.
Come si può notare, ciò che la normativa punisce non è la detenzione o il possesso della res contro la volontà dell’avente diritto, ma la “invasione” arbitraria. Dunque, nella specie, non vi è una invasione ma una continuazione di una situazione illegittima. Ciò, però, non assurge a reato.
Specificazione del superiore principio è quello per cui “il reato di invasione di terreni o edifici non ricorre laddove il soggetto, entrato legittimamente in possesso del bene, prosegua nell’occupazione contro la sopraggiunta volontà dell’avente diritto”.
L’ipotesi classica è quella per cui la detenzione dell’immobile ha avuto inizio in virtù di regolare concessione poi non rinnovata o scaduta per mancato pagamento dei canoni.
Come si può notare, ancora una volta, la ratio legis è quella di contrastare l’invasione arbitraria. Dove non vi è invasione, non vi è reato ai sensi dell’articolo 633 del codice penale. Parimenti, dove non vi è arbitrarietà non vi è reato ai sensi dell’articolo 633 del codice penale.
Certamente, vi sono ipotesi in cui il confine tra il lecito e l’illecito non è poi di così facile individuazione.
Quando la “persona offesa” è il privato, nulla quaestio, soprattutto per il fatto che è necessaria la proposizione della querela.
Le cose stanno però in modo diverso qualora la persona offesa sia lo Stato o un ente pubblico: la procedibilità diventa di ufficio in virtù delle espressa previsione normativa di cui all’articolo 639-bis codice penale.
Ma cosa succede se lo Stato o l’Ente pubblico non sa nemmeno di essere proprietario o di vantare un diritto o una relazione con la res oggetto della invasione? Si può concludere che, ricorrendo una siffatta ipotesi, risulti comunque consumato il delitto ex art. 633 c.p.?
La risposta non è affatto semplice soprattutto ove si consideri che la fattispecie criminosa esige, per la sua configurabilità, il dolo specifico, non essendo sufficiente il dolo generico di invadere un bene altrui, ma occorrendo, per l’appunto, il fine (dolo specifico) di trarne altrimenti profitto.
E la situazione si complica allorquando l’accertamento della invasione arbitraria viene evidenziata solo grazie alla domanda del privato che chiede il rilascio di una concessione per la sua occupazione e questa gli viene negata.
Vero è che, allorquando il titolare del diritto sia lo Stato o un ente pubblico, la procedibilità di ufficio garantisce meglio gli interessi della collettività rispetto ad indebite invasioni da parte dei privati; ma è altrettanto vero che la normativa dovrebbe essere più chiara nel configurare la responsabilità del privato tutte le volte in cui lo Stato o l’Ente pubblica dimostra di non avere, di fatto, interesse a quel bene ovvero, addirittura, dimostra di averlo abbandonato.
avv. Filippo Pagano (f.pagano@clouvell.com)
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