Il mancato esperimento dell’azione di revocazione, nei casi in cui il rimedio revocatorio andava proposto, determina la inammissibilità dell’azione risarcitoria contro la Stato ex lege 117 del 1988 per la mancata previa proposizione di tutti i rimedi impugnatori (art. 4 secondo comma, legge n.117/1988)
Lo ha stabilito la Suprema Corte di Cassazione con sentenza n°7924 del 17 aprile 2015
Il caso
Gli attori, quali eredi del loro genitore, proponevano azione di responsabilità della terza sezione civile della Corte di Cassazione per non avere la Corte Suprema esaminato un motivo di ricorso proposto dal loro genitore, in occasione di un giudizio definitosi ne 1997, il cui accoglimento avrebbe comportato la liquidazione di una somma maggiore a titolo risarcitorio.
Il Tribunale riteneva esistente l’omesso esame del motivo del ricorso per cassazione ma insussistente la dedotta responsabilità, poiché si trattava di un errore emendabile mediante l’esperimento dell’ordinario mezzo d’impugnazione della revocazione.
Di diverso avviso la Corte di appello la quale, viceversa, non ha ritenuto esperibile il rimedio della revocazione ed ha quindi condannato la Presidenza del Consiglio dei ministri al risarcimento del danno.
Da qui il ricorso per cassazione della Presidenza del Consiglio dei Ministri la quale denuncia da un lato la violazione e falsa applicazione dell’art. 395 n. 4 c.p.c., in relazione all’art. 4, secondo comma, della legge n. 117/1988, per avere erroneamente escluso l’esistenza di un errore di fatto nella sentenza della Corte di cassazione n. 11127/1997 (a causa della mancata percezione di un motivo di ricorso avverso l’impugnata sentenza della Corte d’appello di Venezia del 13.1.1996) suscettibile di essere emendato mediante un ricorso per revocazione, la cui mancata proposizione costituirebbe ragione ostativa all’accoglimento della domanda di responsabilità per l’esercizio della funzione giudiziaria.
La Corte di cassazione ritiene fondato il motivo seguendo il seguente ragionamento: “E’ pacifico in causa che la sentenza della Cassazione n. 11127/1997 ha esaminato le prime due censure in cui era articolato il motivo di ricorso per cassazione delle eredi (omissis), ma ha omesso di pronunciarsi sulla terza e autonoma censura proposta (a pag. 8-9 del medesimo ricorso, sub c, ove era espressa la doglianza di errata determinazione del credito risarcitorio risultante dalla comparazione con un credito di rivalsa dell’Inail, senza che i rispettivi valori monetari fossero stati resi preventivamente omogenei)”.
Per la Corte di appello si tratta di un errore valutativo.
La Corte d’appello ha ritenuto trattarsi di un errore valutativo, quindi estraneo all’applicabilità del rimedio della revocazione ex art. 395 n. 5 c.p.c., e da ciò ha tratto la conseguenza che non vi fosse alcuna preclusione alla proponibilità dell’azione di cui alla legge n. 117 del 1988.
Ma la Suprema Corte è di diverso avviso.
Questa interpretazione, tuttavia, contrasta con la giurisprudenza di legittimità secondo la quale (v. Cass. n. 4605/2013, n. 362/2010, n. 18152/2002, n. 4070/2000) l’omesso esame di un motivo di ricorso per cassazione configura un errore di fatto revocatorio quando, come verificatosi nel caso in esame, consista in un errore di percezione o in una mera svista materiale su circostanze decisive, emergenti direttamente dagli atti con carattere di immediatezza, che abbia indotto la Corte a non considerare l’esistenza della censura proposta e, quindi, a supporre l’inesistenza di un fatto decisivo che risulti invece incontestabilmente esistente negli atti e documenti di causa, con esclusione di ogni apprezzamento in ordine alla valutazione in diritto delle risultanze processuali.
La mancata proposizione del rimedio revocatorio preclude la proposizione dell’azione di responsabilità ex lege 117/1988.
Per la Suprema Corte, poiché tale sentenza era impugnabile con il ricorso per revocazione che non è stato proposto dagli interessati, si deve verificare se ciò precludesse l’esperibilità dell’azione di responsabilità disciplinata dalla legge n. 117 del 1988. Al suddetto quesito deve darsi risposta affermativa.
Il principio al quale aderisce la Suprema Corte.
Per la Suprema Corte “L’azione di risarcimento del danno contro lo Stato può essere esercitata soltanto quando siano stati esperiti i mezzi ordinari di impugnazione […] e comunque quando non siano più possibili la modifica o la revoca del provvedimento […]” – nel senso che l’azione risarcitoria debba ritenersi preclusa nell’ipotesi in cui il rimedio previsto non sia stato esperito (v. Cass. n. 11438/1999, n. 4682/1998, n. 13003/1997, n. 2186/1996, n. 1884/1994)”.
La ratio che sottende il principio espresso
L’intento primario espresso dal legislatore nell’art. 4, secondo comma, della legge del 1988 è stato di dare la prevalenza alla rimozione del provvedimento dannoso e di privilegiare i rimedi endoprocessuali rispetto all’azione risarcitoria, subordinando quest’ultima alla circostanza che il danneggiato abbia utilizzato gli strumenti processuali normalmente apprestati dall’ordinamento per eliminare o, almeno, ridurre il danno.
Il ricorso per revocazione è un rimedio giurisdizionale ed impugnatorio a tutti gli effetti.
Per gli Ermellini non v’è dubbio che il ricorso per revocazione ordinaria configuri un rimedio giurisdizionale ed impugnatorio che è pienamente riconducibile alla categoria dei rimedi il cui previo esperimento condiziona l’esperibilità dell’azione di responsabilità prevista dalla legge.
Una breve riflessione.
Esaminata ex post, la vicenda in esame sembra semplice. Ma, sicuramente, non lo sarà stata ex ante.
Certo, possiamo convenire che il ragionamento giuridico della Corte di cassazione sia corretto e condivisibile. Il problema pratico è che, quantomeno nella specie, lo Stato italiano, pur riconoscendo l’errore in cui è incorso, non ha sborsato alcun risarcimento alle vittime. Da un errore commesso dalla Corte di cassazione si è giunti a negare il risarcimento – ironia della sorte – per un errore, se così si può definire, degli stessi danneggiati.
In un momento particolare della giustizia italiana, ispirata ad una filosofia deflattiva dei processi, il sistema italiano, come delineato dai principi espressi dalla Suprema Corte, nel dubbio, costringe ad esperire più rimedi impugnatori possibili per evitare di cadere in una delle tante trappole che lo Stato italiano tende a chi cerca di avere, come nella specie, un risarcimento da un danno ingiusto.
Già è significativo che un organo giurisdizionale giudichi sui propri stessi errori, giacchè, nella specie, la Suprema Corte ha dovuto giudicare sulla responsabilità dei propri colleghi.
Sta di fatto che se il giudice deve andare alla sostanza delle cose, una interpretazione come quella offerta non solo dalla Corte, ma dal sistema normativo di responsabilità civile dei magistrati, si presta indubbiamente ad una accusa di inadeguatezza ed apparenza. Più che un sistema che preveda un risarcimento danni, quello delineato dalla legge 117 del 1988 e dalla interpretazione che, di quelle norme, fornisce la Suprema Corte, sembra una gara ad eliminazione, una corsa agli ostacoli. Una gara impari che vede da un lato una parte privata e dall’altro lo Stato. Ed in questi termini il rimedio risarcitorio, il più delle volte, rimarrà confinato sulla carta.
La sensazione che viene lasciata al danneggiato in un caso come quello in esame, in cui, in fin dei conti, tutti, giudici compresi, hanno concordato sostanzialmente, sulla sussistenza di un errore giudiziario, è che non vi sia un rapporto di “lealtà” tra Stato e cittadini. Perché, a parere di chi scrive, quando lo Stato sbaglia, non può vincere cercando, a tutti i costi, di far sbagliare l’avversario.
avv. Filippo Pagano (f.pagano@clouvell.com)
managing partner at clouvell (www.clouvell.com)