Qui di seguito la motivazione integrale della sentenza della Suprema Corte di Cassazione – sezione lavoro – sentenza 20 marzo 2015, n. 5717
Svolgimento del processo
Con sentenza del 30 maggio 2014 la Corte d’appello di Catanzaro, in riforma della sentenza del Tribunale di Cosenza del 28 gennaio 2014, ha dichiarato l’inefficacia del licenziamento intimato in data 29 febbraio 2012 a C.A. S.A. dalla Casa di Cura V.D.O. s.r.l. Per quanto rileva in questa sede la Corte territoriale ha considerato tempestiva l’impugnazione del licenziamento proposta con ricorso depositato il 21 gennaio 2013 considerando rispettato il termine di 270 giorni di cui all’art. 6 della legge 604 del 1966 come modificato dall’art. 32 della legge n. 183 del 2010, che prevede il termine di sessanta giorni per l’impugnazione del licenziamento e l’inefficacia dell’impugnazione stessa se non seguita entro i successivi duecentosettanta giorni dal deposito del ricorso in sede giudiziale; in particolare la Corte d’appello ha considerato che il termine di duecentosettanta giorni decorre dal termine di sessanta giorni per l’impugnazione stragiudiziale per cui il termine complessivo per l’impugnazione giudiziale è di sessanta più ducentosettanta giorni e quindi di trecentotrenta giorni complessivi.
La Casa di Cura V.D.O. s.r.l. ha proposto ricorso per cassazione avverso tale sentenza affidato ad un unico motivo.
Resiste C.A. S.A. con controricorso.
Motivi della decisione
Con l’unico motivo di ricorso si lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 6 della legge n. 604 del 1966 sostenendosi che il termine per l’impugnazione di duecentosessanta giorni decorra dall’atto dell’impugnazione stragiudiziale e non dal termine previsto per tale impugnazione.
Il ricorso è fondato.
A norma dell’art. 6, primo comma, l. n. 604 del 1966, “il licenziamento dev’essere impugnato a pena di decadenza entro sessanta giorni dalla ricezione della sua comunicazione in forma scritta…con qualsiasi atto 4 scritto, anche extragiudiziale, idoneo a rendere nota la volontà del lavoratore…”. Per l’impedimento di questa decadenza è sufficiente la consegna del l’atto all’ufficio pubblico che cura la spedizione, come ha stabilito Cass. Sez. Un. 14 aprile 2010 n.8830, non rilevando perciò il giorno di ricezione da parte del datore di lavoro.
Prima che il secondo comma di detto art. 6 venisse novellato dall’art. 32 l. n. 183 del 2010, una volta impedita la decadenza, il potere di impugnare in via giudiziale il licenziamento veniva assoggettato, a norma dell’art. 2967 cod. civ., al termine quinquennale di prescrizione di cui all’art. 442, primo comma, cod. civ. Sembrò al legislatore che la durata di questo termine lasciasse troppo a lungo incerta la posizione del datore di lavoro, sottoposto alla possibilità dell’ordine di reintegrazione da parte del giudice e della condanna a risarcire un danno che aumentava col trascorrere del tempo. La lunghezza di detto temine poteva così favorire una sorta di abuso della prescrizione, ossia di inerzia del lavoratore, che traesse vantaggio dalla protrazione dell’esercizio del suo potere di impugnare e di chiedere il risarcimento del danno da licenziamento illegittimo.
Intervenne così il legislatore del 2010, che con l’art.32, comma 1 cit., stabili: “L’impugnazione (stragiudiziale) è inefficace se non è seguita, entro il successivo termine di duecentosettanta (poi ridotto a centottanta dall’art. 1, comma 38, L n.92 del 2012) giorni, dal deposito del ricorso nella cancelleria del tribunale in funzione di giudice del lavoro”.
La questione che la ricorrente pone ora alla Corte è se la decorrenza di quest’ultimo termine inizi dalla spedizione dell’impugnazione stragiudiziale, oppure, come deciso dalla Corte d’appello, dallo scadere del termine di sessanta giorni di cui all’art. 6 cit.
La questione deve essere risolta nel primo senso.
La lettera della disposizione contenuta nell’art. 32, comma 1, cit, che commina l’inefficacia “dell’impugnazione” extragiudiziale non seguita da tempestiva azione giudiziale dimostra come dal primo dei due atti debba decorrere il termine per compiere il secondo.
L’esigenza di celerità, intesa, come s’è detto, a tutelare l’interesse del datore di lavoro alla certezza del rapporto, porta a precisare che il termine debba decorrere dalla spedizione e non dalla ricezione dell’atto.
Deve dunque essere affermato il seguente principio di diritto:
“La lettera della disposizione contenuta nell’art. 32, comma 1, l. n.183 del 2010, modificato dall’art. 1, comma 38, l. n. 92 del 2012 che commina l’inefficacia “dell’impugnazione” extragiudiziale non seguita da tempestiva azione giudiziale, dimostra come dal primo dei due atti debba decorrere il termine per compiere il secondo, e non dalla fine dei sessanta giorni concessi per l’impugnazione stragiudiziale.
L’esigenza di celerità, intesa a tutelare l’interesse del datore di lavoro alla certezza del rapporto, indica ancora che il termine debba decorrere dalla spedizione e non dalla ricezione dell’atto.”
La sentenza impugnata deve dunque essere cassata.
Non essendo necessari accertamenti di fatto la causa può essere decisa nel merito con il rigetto della domanda dell’originaria ricorrente.
Le incertezze giurisprudenziali sulla questione affrontata inducono alla compensazione fra le parti delle spese dell’intero processo.
P.Q.M.
Accoglie il ricorso;
Cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta la domanda di C.A. S.A.;
Compensa fra le parti le spese dell’intero processo;
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. 115 del 2002, dà atto della non sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente principale dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13.