In ambito tributario, il ricorrente, nell’atto di appello, può riproporre le stesse argomentazioni poste a sostegno della domanda disattesa dal giudice di primo grado – in quanto ritenute giuste e idonee al conseguimento della pretesa fatta valere – ed in siffatto modo assolve all’onere di specificità dei motivi di impugnazione imposto dall’art. 53 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546.
Lo ha stabilito la Suprema Corte di Cassazione – sez. VI civile – con sentenza n. 5187 del 2015
Il caso
Un contribuente proponeva ricorso alla Commissione Tributaria Provinciale che, però, gli veniva rigettato.
Quindi, il medesimo proponeva appello alla Commissione Tributaria Regionale, la quale dichiarava, questa volta, inammissibile il gravame evidenziando che l’appellante si era limitato a riprodurre il contenuto delle doglianze già avanzate nel procedimento di primo grado e che l’appello era dunque inammissibile in quanto privo di motivi d’impugnazione.
Difatti, secondo la Commissione Tributaria Regionale, l’appellante non si poteva limitare a riprodurre le medesime difese già articolate nel ricorso di primo grado, avendo dovuto, viceversa, indicare specificamente le argomentazioni che sorreggevano la decisione impugnata.
Da qui il ricorso per Cassazione.
La Suprema Corte accoglie il ricorso del contribuente ricordando che per costante giurisprudenza di essa Corte “la riproposizione in appello delle stesse argomentazioni poste a sostegno della domanda disattesa dal giudice di primo grado – in quanto ritenute giuste e idonee al conseguimento della pretesa fatta valere – assolve l’onere di specificità dei motivi di impugnazione imposto dall’art. 53 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, ben potendo il dissenso della parte soccombente investire la decisione impugnata nella sua interezza- Cass.n.3064/12;Cass.n.14908/14”.
L’interesse ad impugnare il “merito” a fronte di una pronunzia pregiudiziale di inammissibilità dell’impugnazione.
La Suprema Corte, in proposito, ricorda che “qualora il giudice, dopo una statuizione di inammissibilità (o declinatoria di giurisdizione o di competenza), con la quale si è spogliato della “potestas iudicandi” in relazione al merito della controversia, abbia impropriamente inserito nella sentenza argomentazioni sul merito, la parte soccombente non ha l’onere né l’interesse ad impugnare; conseguentemente è ammissibile l’impugnazione che si rivolga alla sola statuizione pregiudiziale ed è viceversa inammissibile, per difetto di interesse, l’impugnazione nella parte in cui pretenda un sindacato anche in ordine alla motivazione sul merito, svolta “ad abundantiam” nella sentenza gravata” (Cass. Civ. Sez. Un. Sent. n.3840/2007; – Cass.n. 9647/2011).
Una breve riflessione
La sentenza in commento, relativa al processo tributario, si pone in contrasto con i principi vigenti in ambito processual-civilistico, laddove l’appello deve invece contenere l’esposizione delle ragioni della critica rivolta dall’appellante alle motivazioni addotte dal giudice di primo grado, “ragioni che debbono essere potenzialmente dotate dell’attitudine alla confutazione logica o giuridica del fondamento della decisione”. E ciò secondo l’insegnamento delle Sezioni Unite di cui alla nota sentenza del 29.1.2000 n.16, secondo cui “I motivi di appello sono specifici, nel senso voluto dalla prima parte del previgente art. 342 c.p.c., se si traducono nella prospettazione di argomentazioni, contrapposte a quelle svolte nella sentenza impugnata, dirette ad incrinarne il fondamento logico – giuridico”.
Ovviamente, in materia tributaria si perviene a “conseguenze” diverse perché diverse sono le norme che disciplinano il contenuto dell’atto di appello.
Del resto, interessante appare anche la seconda parte della sentenza nella parte in cui asserisce che è inammissibile la impugnazione rivolta ad una statuizione di “merito” pronunciata dal giudice che, in via preliminare, abbia statuito sulla inammissibilità del gravame.
Senonchè, limitare l’onere di gravame alla sola questione pregiudiziale della inammissibilità e non anche alla pronunzia di “merito”, se, da un lato, mira ad “alleggerire” l’onere dell’appellante, dall’altro, potrebbe però avere conseguenze negative sui tempi del giudizio. Forse sarebbe stato più utile prevedere che, a fronte di una pronunzia pregiudiziale di inammissibilità e di un obiter dictum di merito, parte ricorrente avrebbe il diritto (non l’obbligo) di contestare entrambi i profili affronti dal giudice e non limitarne, a priori, la valutazione, al solo aspetto della inammissibilità. Non foss’altro perché, a conti fatti, l’appellante o il ricorrente non avrà molto interesse pratico a vedersi rigettato un gravame piuttosto che vederselo dichiarato inammissibile.
avv. Filippo Pagano (f.pagano@clouvell.com)
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